La musica nel cinema muto

La musica nel cinema muto

Il cinema e la musica sono due arti che innegabilmente hanno intrecciato i loro linguaggi, ed è ormai opinione comune che le immagini e i suoni rappresentino due aspetti inscindibili del testo filmico. Per lungo tempo la dimensione sonora del film è stata poco studiata dai critici cinematografici ma di recente,  soprattutto negli ultimi vent’anni, si è prodotta una ricca letteratura anche in Italia che ha in qualche modo colmato questa mancanza.
Già per il cinema degli esordi, il cinema muto, la musica aveva un ruolo fondamentale prima per ragioni meramente pragmatiche e, in seguito, sempre più per ragioni di carattere strutturale e narrativo. Sono stati molti gli studiosi, i musicologi, gli storici e i critici del cinema, ma anche i registi e i musicisti, che si sono interrogati sul rapporto tra cinema e musica, su quali fossero i modelli estetici, formali, compositivi, cui la musica da film si richiamava. Il rapporto tra immagini e musica però non è mai stato scontato. Sebastiano Luciani (1), sostiene ad esempio che il rapporto tra immagini e musica andrebbe idealmente ribaltato. E che non può essere la musica a seguire le immagini, semplicemente perché “la musica può determinare il gesto, non seguirlo, può evocare le immagini, non tradurle in suono”.

cinema_muto_metropolis.jpgPer cui chi deve realizzare una musica per un film secondo Luciani non dovrebbe mai in alcun modo partire dalle immagini per sviluppare e comporre il commento sonoro, ma al contrario anticipare l’azione, lavorare sulla “trama generale”, sul “soggetto”, realizzare l’opera musicale ancor prima che si realizzi il film, che è un modo di operare che è utilizzato da molti registi e compositori del secolo scorso e contemporanei. Si pensi ad esempio alla straordinaria coppia che Fellini formava con Nino Rota e alla meraviglia di capolavori come La strada, in cui i due lavorarono, come in tante altre pellicole, con questo metodo, o più di recente l’approccio del compositore James Newton Howard nei confronti del film di  Jay Russel The Water Horse, ad esempio.
È ancora Luciani che sa trovare una suggestiva chiave di lettura per definire le origini del legame intimo, interno, strutturale tra musica e cinema che non è quello che passa dal concetto di ritmo, e della temporalità, ma piuttosto, ed in questo modo anticipa in qualche modo il lavoro realizzato più di recente da altri studiosi sulle possibilità di espressione simbolica del linguaggio musicale, si aggancia alle modalità espressive del cinema e della musica, che le rendono molto simili in opposizione invece ad una forma d’arte che spesso è stata messa in relazione con il cinema: il teatro. Se il teatro, infatti, per Luciani consente all’autore di confezionare il proprio messaggio in modo chiuso, compiuto, grazie alla “precisione della parola dei sentimenti”, e quindi gli consente di rappresentare l’azione, il cinema non rappresenta, ma suggerisce, e per questo “il cinematografo con gesto silenzioso e suggestivo può raggiungere l’intensità e la vaghezza di espressione che ha soltanto la musica”. Da qui l’idea di un cinema concepito come “musica per gli occhi” (2). Che è poi una posizione vicina a quella di un grande cineasta del ‘900, Stanley Kubrick il quale sosteneva che il film è un’intensa esperienza soggettiva che raggiunge lo spettatore a un livello di coscienza più profondo, proprio come soltanto la musica sa fare.
Sono molti gli autori che hanno risolto il rapporto tra cinema e musica facendo ricorso ad apparati concettuali che descrivevano tale rapporto in termini astratti e metaforici: dallo stesso Luciani a Canudo ad Ejzenštejn. Ciò che ritornava spesso nelle analisi di molti autori era il raffronto tra cinema e musica che venivano ad essere accomunati dal ritmo come principio organizzatore e regolatore del discorso filmico e musicale. Ma in realtà questa somiglianza apparentemente strutturale non reggeva ad una analisi approfondita come quella che Gianfranco Bettetini ha fatto, ad esempio, nel suo “Tempo del senso” (1979) in cui lucidamente mette a nudo la differenza fondamentale tra musica e cinema in relazione all’organizzazione temporale rispettivamente dei suoni e delle immagini. Ovvero nella musica “le forme ritmiche organizzano direttamente una materia, attribuendole forma espressiva”, nel cinema invece le immagini hanno in sé un significato, e l’intervento dell’autore in una fase di determinazione dei tempi e delle durate delle immagini rappresentate può determinare spostamenti di senso, ma non costruisce quel momento, attraverso la costruzione ritmica, il significato dell’immagine, che è precedente. Lo stesso non può dirsi dei suoni utilizzati per costruire una frase musicale, in questo caso infatti la determinazione dei tempi, del ritmo, è determinante nel conferire un significato ad un oggetto sonoro che altrimenti non sarebbe capace di comunicare nulla, al di fuori di un quadro di relazioni ritmiche.
Il rovesciamento dei rapporti tra musica e immagini, secondo cui dovrebbero essere le immagini a seguire la musica e non viceversa (pur riconoscendo il valore sia pragmatico che artistico delle musiche nate per essere un accompagnamento musicale delle immagini), fu una teoria sposata da diversi autori nella prima metà del ‘900, e in quest’ottica molti pensarono di ritrovare nel balletto una forma d’arte che potesse in qualche modo essere un modello per il cinema. Intendendo così l’opera cinematografica come quella capace, più di ogni altra, di dare forma plastica e concretezza, attraverso le immagini in movimento, alla musica. Questa era un’opinione abbastanza diffusa, se anche Dimitri Tiomkin, uno dei più importanti compositori hollywoodiani, intendeva un buon film come “un balletto con dialoghi” (3), ma che non poteva avere un seguito dal punto di vista teorico e dello sviluppo dell’arte cinematografica. Interessante invece quanto Simeon segnala in relazione ai numerosi punti di contatto tra il cinema e la pantomima. Intendere la pantomima come uno dei generi di spettacolo più vicini al cinema infatti aiuta anche a comprendere meglio i rapporti tra musica e cinema alla luce di quanto abbiamo detto. Nella pantomima si trova difatti una sintesi degli elementi del balletto, perché era presente un movimento degli attori legato alla musica, anche se non trasfigurato in modo compiuto nella danza, con un accompagnamento continuo della musica senza che fosse previsto il supporto della parola, né cantata ne parlata. Una tesi suggestiva in cui i punti di contatto con il cinema, con la recitazione stilizzata del cinema degli esordi, sono maggiori di quanto non possano essere quelli con il teatro. Inoltre al di là delle tecniche di recitazione e delle modalità di costruzione dello spettacolo in relazione all’utilizzo della musica c’è un altro aspetto importante che evidenzia i legami tra la pantomima ed il cinema degli esordi: il carattere di identità incerta tra genere colto e popolare.
cinema_muto_potemkin.jpgSono state formulate diverse ipotesi riguardo alla natura, alla funzione della musica applicata in relazione al cinema muto delle origini. C’è chi come Kurt London (4) ritiene che la ragione fondamentale per cui si pensò di introdurre la figura del pianista che accompagnava le proiezioni fosse legata alla necessità di coprire i rumori del proiettore, e quelli provenienti dalla strada, così come anche il rumoreggiare del pubblico.
Un’altra funzione importantissima svolta dalla musica che accompagnava le proiezioni del cinema muto era quella di dare continuità all’azione e di coprire i silenzi diegetici
A tal proposito, dopo aver assistito ad una delle prime proiezioni dei fratelli Lumière in Russia (una delle tante realizzate senza l’ausilio della musica come spesso avveniva negli anni 1895, 1896), del film Une partie de cartes (Una partita a carte, 1895) Maksim Gor’kij scrive: “Ridono a crepapelle … ma non si ode alcun suono. Sembra che quegli uomini siano morti, e che le loro ombre siano condannate a giocare eternamente a carte, in silenzio” (5). Per il musicologo Robert Musil invece la musica serve a conferire realisticità all’azione filmica, J. Roth e Béla Balàzs sostengono che la funzione principale svolta dalla musica sia quella di dare profondità all’azione, di costruire la “terza dimensione”.
Il filosofo statunitense Ernst Bloch sosteneva che ciò che la musica era chiamata a fare era sostituire gli altri sensi. Nel 1913 di fatto scriveva in un articolo dal titolo “Uber die Melodie im Kino”, pubblicato in “Die Argonauten”: “[…] di fronte allo schermo però dobbiamo rinunciare a tutto ciò che di solito conferisce alla vista delle cose il loro pieno carattere di realtà: peso, calore, odore, rumore, consapevolezza sensoriale. La pelle, il naso, l’udito, tutti gli altri sensi sono eliminati, mentre l’occhio è sovraccarico. La sola impressione ottica del bianco e nero è tagliata fuori dal mondo, e siccome essa viene data nel più disordinato movimento temporale, senza alcuna stilizzazione, ne nasce la lugubre apparenza di un’eclisse solare, di una realtà muta e sensorialmente sminuita che viene rinforzata solo nel ritmo e nella concentrazione, senza che con ciò tuttavia né venga riplasmato, né venga abbandonato il mondo sensoriale. Ma qui la musica nel cinema assume una funzione particolare: provvede alla sostituzione di tutti gli altri sensi” (6). Recentemente Michel Chion, riprendendo una riflessione del filoso Maurice Merleau-Ponty, secondo la quale le cose che sollecitano un unico senso sono soltanto “fantasmi”, ha concluso che “una cosa esiste, in senso fenomenologico, se interessa almeno due sensi contemporaneamente” (7). La musica che accompagnava le proiezioni dei film muti raramente era una musica originale. Ci sono casi importanti di film che hanno segnato la storia del cinema per cui è stata pensata, e composta una colonna sonora originale, è il caso ad esempio de La corazzata Potëmkin di Ejzenstejn, con le musiche di Meisel (1926), o di Cabiria (1914), di Giovanni Pastrone, con le musiche di Ildebrando Pizzetti (“La sinfonia del fuoco”), o ancora prima al film prodotto dalla Film d’Art, L’assassinat du duc de Guise (1908), con musiche di Camille Saint-Saëns, che può essere considerato il primo di una serie di film che hanno saputo dare il giusto rilievo alla parte musicale del testo filmico già nel primo decennio del ventesimo secolo.
Per il resto tutto il periodo legato al cinema muto è stato caratterizzato dall’utilizzo di musiche di repertorio, adattate alle scene dei film. E furono molto importanti, ed utili per molti musicisti, tutti quei lavori di compilazione, una sorta di “prontuari” musicali contenenti una selezione di brani, temi, composizioni originali, e stralci di opere famose di grandi autori (da Beethoven a Mozart, a Wagner) che venivano utilizzati da molti musicisti, soprattutto nelle piccole città periferiche e di provincia (si pensi al “Kinothek” di Giuseppe Becce, ai primi Cue Sheets preparati direttamente dalle case di produzione, al manuale di Lang e West, al repertorio redatto da Eugene Ahren, etc.). Se spesso l’accostamento di un dato brano ad una scena era poco efficace, risultava arbitrario, insensato e di nessun valore estetico, è anche vero che in più occasioni venivano fatte valutazioni attente e intelligenti capaci di accostare alle scene dei film brani di commento perfettamente aderenti e capaci di amplificarne il valore artistico e poetico. È il caso, ad esempio, del lavoro svolto da Joseph Carl Breil per la colonna sonora del film di Griffith The Birth of a Nation (1914). In quell’occasione, come già fatto in precedenza, Breil preparò una sorta di compilation di brani che, adattati, tagliati, cinema_muto_cabiria.jpgarrangiati formavano, insieme a cellule tematiche originali, una sorta di continuum musicale che ricorreva frequentemente al leitmotiv per dare unità al testo filmico e fornire al pubblico una chiave interpretativa della vicenda. È evidente che la pratica dell’accompagnamento musicale dei film nei primi trent’anni del scorso secolo ha segnato la nascita di una nuova forma di espressione musicale caratterizzata da un lato dalla presenza di una musica originale, pensata per vivere in comunione con le immagini e il racconto del testo filmico, e una musica di repertorio adattata alle immagini in modo più o meno efficace. Questa pratica ha segnato in modo definitivo il Dna della musica da film la quale è caratterizzata dalla mancanza di una rigida unità formale interna e cinema_muto_nazione.jpgpiuttosto si distingue per la vocazione, per così dire strutturale/sintattica, alla contaminazione di generi e stilemi compositivi differenti. La pratica, che si affermò nei primi decenni di vita del cinema, dell’utilizzo di brani di repertorio che provenivano tanto dalla tradizione della musica colta europea, quanto dalla musica popolare e dal folklore, attraverso riproposizioni, arrangiamenti, adattamenti, ha contribuito alla determinazione di un modello compositivo/costruttivo del commento musicale al film che prevede la possibilità di accostare stili e generi diversi all’interno della stessa pellicola in funzione delle esigenze narrative del testo filmico, del suo pubblico, dell’intenzione dell’autore (regista, compositore).
È chiaro in questo senso quale sia la ragione della facilità con cui negli anni ’60 la musica rock e pop entrò all’interno delle colonne sonore di molti film, così come la musica jazz (negli Stati Uniti, come in Europa), si tratta ancora una volta del legame tra popular music (musica leggera) e musica per il cinema che sono legate, secondo Simon Frith, da un vincolo espressivo e di carattere sociologico ineliminabile.
Un legame di cui è importante tener conto per poter indagare in modo efficace i rapporti di significazione della musica all’interno del testo filmico e le funzioni da essa svolte all’interno dell’opera.
È molto interessante a tal proposito il lavoro svolto da Philip Tagg su i rapporti che esistono tra suoni, musiche e immagini significanti condivise da gruppi omogenei di individui, indagati attraverso delle ricerche di tipo empirico. Invero chiedendo a dei gruppi di studio di indicare quali immagini fossero evocate da alcune brevi composizioni musicali, fatte ascoltare senza l’ausilio delle immagini, Tagg ha avuto modo di definire una sorta di tabella che classifica 4 differenti modelli comunicativi della musica in relazione a fatti extramusicali. Ha così avuto modo di indagare i meccanismi di funzionamento, in determinati contesti, di cellule musicali che ha chiamato “anafonie”, ovvero costruzioni musicali capaci di richiamare, stilizzandoli, suoni e percezioni extramusicali. Distingue quindi delle anafonie sonore, ovvero che richiamano rumori della natura o artificiali; anafonie cinetiche, che presentano omologie strutturali con movimenti paramusicali che mettono in relazione i movimenti umani con il concetto di tempo e di spazio; anafonie tattili, proprie di certe sonorità, timbri, costruzioni armoniche e melodiche che suscitano nell’ascoltatore forti sinestesie di tipo tattile.
Una delle opere del cinema classico giustamente tra le più celebri è L’uomo con la macchina da presa (Chelovek s kino-apparatom, 1929) del regista sovietico Dziga Vertov. Il film segna uno dei momenti più importanti del movimento kinoglaz (cineocchio), nato negli anni '20 per iniziativa di Vertov e propugnatore della superiorità del documentario sul cinema di finzione che, in sostanza, deve essere bandito perché inadatto a formare una società comunista. Vertov raccoglie l'esperienza di anni di documentari propagandistici, le sue radici futuriste, le sue teorie secondo le quali il cinema deve essere uno strumento al servizio del popolo e della sua formazione comunista, e sublima il tutto in un'opera tecnicamente all'avanguardia e che ancora oggi colpisce per la sua originalità.
Si tratta di un’opera interessante per noi perché non erano state previste delle musiche, che però furono composte successivamente da Pierre Henry, prima, e, recentemente da Michael Nyman (2002). In relazione a problemi di carattere musicologico di questo tipo si sono affermati infatti approcci differenti. Il primo che potremmo definire squisitamente filologico è quello che prevede, nel caso in cui sia stata realizzata una colonna sonora per accompagnare il film muto, sia essa originale o una compilazione, il recupero della colonna sonora originale. È un’operazione realizzata spesso nel corso dello scorso secolo da musicologi molto attenti come Carlo Piccardi e Gillian Anderson, cui si deve riconoscere il merito di aver recuperato e fatto eseguire delle partiture di cui non esistevano registrazioni e che sarebbero altrimenti andate perdute. Una seconda tendenza è quella che prevede la realizzazione di nuove partiture che sostituiscano quelle originali, ritenute poco efficaci sul piano della resa artistica e spettacolare,  e che si attengano in qualche modo allo stile e alla drammaturgia dell’epoca. Esempi di questo tipo sono il lavoro, non molto ben riuscito, di Carmine Coppola per il film Napoleon di Abel Gance (1929, per cui era stata composta una colonna sonora da Arthur Honegger) o il lavoro di Carl Davis per il film Wind di Victor Sjöstrom (1928).
cinema_muto_napoleon.jpgPer i film invece sprovvisti di una colonna sonora originaria, come nel caso della pellicola di Vertov, si può distinguere un approccio di tipo filologico che prevede la compilazione di brani o partendo da delle indicazioni lasciate dal regista, o, in mancanza di “fogli di suggerimento”, attraverso la ricostruzione di un possibile commento musicale sulla base dei repertori, e dei trattati dell’epoca. Così come è stato fatto da Lothar Prox nel 1985 per il film Il gabinetto del Dr. Caligari per cui ha realizzato una colonna sonora interamente basata su brani tratti dalla “Kinothek” di Becce. Un’altra soluzione vicina ad un approccio di tipo filologico è quella che prevede l’esecuzione in sala di un singolo pianista, ci sono infatti musicisti, come il pianista e compositore Paolo Potì, che si sono specializzati anche in questo tipo di lavoro e hanno sviluppato notevoli capacità di improvvisazione e un istinto drammaturgico capace di aderire perfettamente alle esigenze narrative del cinema muto.
Infine, in qualche modo all’opposto dell’approccio di tipo filologico, stanno le operazioni che prevedono la realizzazione di una colonna sonora originale scritta per il film oggi da compositori di musica contemporanea. È il caso appunto del lavoro di Nyman (2002) per L’uomo con la macchina da presa di Vertov, o per il film di Fernard Lèger il Balletto meccanico realizzato dal compositore britannico nel 1984. Un altro esempio di lavoro di questo tipo, tra l’altro molto ben riuscito dal punto di vista della resa poetica e artistica, è l’intervento di Giorgio Moroder nel 1984 per Metropolis di Fritz Lang. Potrebbe essere interessante approfondire questi lavori realizzati oggi per il cinema muto e, nel caso in cui, come spesso avviene, più compositori si siano confrontati con lo stesso testo producendo risultati di tipo differente, analizzare, in rapporto al testo filmico, le diverse partiture per mettere in evidenza se e come la musica, le scelte compositive di timbro, melodia, armonia, ritmo, contribuiscano in modo diretto alla costruzione di senso del testo. Potrebbe essere interessante, in realtà, capire se e come sia possibile che l’opera non resti uguale a se stessa, che venga modificata, nel momento in cui si modifichi una componente, quella musicale appunto, anche se questa non era stata pensata nel momento in cui l’opera era stata concepita.
Se la musica per il cinema delle origini nasceva per rispondere a delle esigenze pratiche legate alla fruizione dei primi film, che erano poco più che esperimenti e brevi filmati concepiti più per sorprendere e stupire il proprio pubblico, e non erano stati pensati per raccontare delle storie; man mano che cresceva la complessità delle opere filmiche, che la trama e le tecniche di regia e di montaggio si facevano più complesse e raffinate, anche il commento musicale ai film diveniva più maturo e consapevole del proprio ruolo all’interno del testo filmico. Negli anni che vanno dalla fine del secolo diciannovesimo al primo decennio del 900 quindi la musica non era considerata come un elemento costitutivo dell’opera. Qualsiasi tipologia di musica poteva essere adattata alle immagini, purché servisse ad evitare il silenzio. I modelli che in questa prima fase venivano utilizzati da chi realizzava le musiche per il cinema erano gli stessi a cui attingevano gli spettacoli di varietà, i music hall, la musica da circo o che accompagnava gli spettacoli di piazza. È infatti soltanto intorno al 1907, 1908, che il cinema cerca di affrancarsi dalla sua condizione di spettacolo proletario per cominciare a mostrare intenti d’arte. Uno sviluppo che si compierà nell’arco di una decina d’anni. Già in questa fase, negli anni 20 e 30 e soprattutto in relazione alle produzioni hollywoodiane, sia tra gli autori che tra i primi teorici e critici che si occuparono da vicino di musica da film, era ben presente quale fosse il debito culturale, stilistico e teorico della musica per il cinema nei confronti dell’opera wagneriana, con la sua teorizzazione della funzione formale e stilistica del Leitmotiv; del melodramma italiano, con la struttura bipartita segnata dall’alternarsi di recitativi ed arie; e del poema sinfonico dell’800, con la caratterizzazione dei temi legati a momenti narrativi nodali o a personaggi più o meno “concreti”. Ma anche la musica di scena, quella che nelle lingue anglofone viene definita “incidental music”, ha ricoperto un ruolo importante di ispirazione e modello per le prime composizioni per il cinema come hanno avuto modo di rilevare Adorno/Eisler e Roger Manvell con Jhon Huntley (8).  Anche se oggi ci appare poco convincente il legame tra musica di scena e musica da film, ritengo che possa essere uno degli elementi cui la musica da film ancora oggi in qualche modo fa implicitamente riferimento soprattutto quando si tratta di musica extradiegetica o musica da buca utilizzata con una funzione di transizione temporale o di luogo. Esistono sicuramente delle differenze tra i due tipi di musica. Quella di scena spesso, a differenza della musica da film dichiaratamente presente, prevede anche l’intervento in sala dei musicisti, ma la sua funzione è frequentemente assimilabile a quella svolta dalla musica all’interno del testo filmico.
cinema_muto_caligari.jpgCertamente più forte è il legame con la musica di Wagner e con il melodramma italiano e il poema sinfonico, anche se l’utilizzo del Leitmotiv nel cinema è meno ricco in termini di estetica musicale e non diviene mai un principio strutturale fondamentale (si pensi ad esempio al sinfonismo hollywoodiano degli anni ’20 e ’30). Se Adorno criticava l’utilizzo del Leitmotiv nella musica da film definendolo “un cameriere musicale che, con aspetto compreso, presenta il suo signore, mentre tutti sanno chi è” (9), c’è stato chi, come la musicologa polacca Zofia Lissa ha ritenuto, invece, che il Leitmotiv, nella costruzione di una colonna sonora, risponda ad una esigenza di continuità e unità strutturale, e di integrazione delle informazioni nella caratterizzazione dei personaggi, suggerendo allo spettatore dettagli psicologici, legati al personaggio, che le immagini da sole non sono in grado di veicolare. Il musicologo svizzero Carlo Piccardi, che ha avuto tra l’altro il merito di recuperare diverse partiture scritte per il cinema muto che altrimenti sarebbero andate perdute, ha, in più occasioni, avuto modo di sottolineare invece come il Leitmotiv cinematografico più che da Wagner, come si usa spesso dare per scontato, provenga dal poema sinfonico (10), e in una analisi della partitura di Luigi Mancinelli per Fratello Sole di Mario Corsi e Ugo Falena, del 1918 (pubblicata in Muscia/Realtà, n°16, aprile 1985, pp.59-60), ha avuto modo di sottolineare come il compositore sia ritornato all’utilizzo del Leitmotiv, dopo che aveva abbandonato questa tecnica da più di vent’anni, nella realizzazione di tutti gli altri suoi lavori di genere diverso. Come a voler dar prova del fatto che questa tecnica sia in qualche modo inevitabile nel momento in cui il compositore si confronta con la necessità di rafforzare la componente narrativa del film. Al di là delle modalità di utilizzo del Leitmotiv comunque resta indubbio che la musica a programma, così come si era sviluppata nel 700 e nell’800, ha fornito ai compositori di musica per film una tavolozza di colori e cellule ritmico/melodiche ricchissima e adatta a soddisfare necessità narrative diverse.
Già negli anni ’20, Edith Lang e George West pubblicarono un vero e proprio manuale per l’accompagnamento musicale dei film destinato ai pianisti e agli organisti in cui spiegavano che “l’essenza dell’illustrazione musicale di un film è il tema principale [Main Theme]”, di come si dovesse adattare questo tema ai caratteri del racconto e del personaggio protagonista accompagnando l’ingresso in scena di quest’ultimo, ed enfatizzando le sue azioni con la musica. Weste e Lang spiegano con dovizia di esempi come adattare il tema alle diverse situazioni psicologiche del personaggio e come utilizzare i temi secondari in associazione agli altri personaggi del film riallacciandosi così ad una tradizione che risaliva a Logier e ai suoi studi, realizzati nella prima metà dell’800, sulle funzioni delle variabili tempo/ritmo nella determinazione di “situazioni” e “caratteri” musicali, all’interno del poema sinfonico.
In conclusione possiamo dire che il testo filmico è sempre un testo sincretico: la musica applicata alle immagini è una esigenza pre-estetica, ovvero prescinde da valutazioni di carattere estetico e la presenza della musica in associazione alle immagini è qualcosa di presente già all’interno del Dna artistico/espressivo del cinema. Allo stesso modo diviene evidente che l’utilizzo della musica è legato a problemi di carattere psicologico e fisiologico e  va quindi letto e analizzato utilizzando modelli che tengano conto anche di questi fattori. C’è chi utilizzando modelli interpretativi di tipo psicanalitico ha sostenuto che lo spettatore può essere avvicinato al bambino che, attraverso la musica, gestisce lo spazio e anima le immagini; un po’ come dire che  la musica, insieme ai suoni, contribuisce a mantenere in vita il patto finzionale tra autore e spettatore, contribuisce in modo importante a mantenere viva l’illusione di realtà e di fuga che le immagini proiettate su un grande schermo in una sala buia giocano con lo spettatore.

Note:
1.Cfr. “Verso una nuova arte. Il cinematografo”, Ausonia, Roma, 1920, pp. 46-47, cit. in Simeon, 2006
2.Op. Cit. in Simeon, 1995, p. 31
3.Cit. in Simeon,1995 p.32
4.K. London, “Film Music”, Faber & Faber Ltd., Londra 1936. Ristampa Arno Press, New York 1970, pp.33-39.
5.Cit. in S. Miceli, La musica nel film, pag. 49
6.Cit. in Manuale di storia della musica nel cinema” di Ennio Simeon, Rugginenti editore, 2006., p.19
7.Cfr. “Una falsa barriera, Conversazione con Michel Chion”, in AA.VV. “Audiofanie. Voci, rumori e musica del cinema”  , “ cinema & cinema”, Nuova Serie, n° 60, anno 18, gennaio-aprile 1991, p.39
8.Roger Manvell, Jhon Huntley, “Tecnica della musica nel film”, Edizioni di Bianco e Nero, Roma , 1959, pp.13 – 18; Theodor Wiesengrund Adorno e Hans Eisler, “La musica per film” Newton e Compton Editori, Roma 1975. p.75
9.Cfr. Adorno, Op. Cit. p.23
10.cfr. C. Piccardi, “Concrezioni mnemoniche della colonna sonora”, in Musica/Realtà , n°21, dicembre 1986, p.150   



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