"Horror Soundtrack": La musica e il cinema Horror - Parte 3

locandina_night_of_the_living_dead_1968.jpg"Horror Soundtrack": La musica e il cinema Horror - Parte 3

Cap.3 - Gli anni della svolta

La musica dovrebbe fare l’effetto di una mano gelida sulla nuca, una presenza fredda che non si rende mai riconoscibile se non nell’affermazione finale sui titoli di coda.
William Friedkin

1. Romero e la nuova visione

La notte dei morti viventi (1968) di George A. Romero chiude il periodo dei classici dell’horror gotico derivanti dalla tradizione letteraria romantica. Il film è il sessantotto dell’horror che permette al genere di penetrare a tutti gli effetti nella contemporaneità e di nutrirsi di metafore e significati di natura politico-sociale. L’orrore di Romero, secondo uno schema narrativo derivante dal romanzo di Richard Matheson I Am Legend, abbandona il soprannaturale per diventare “scientifico”, razionalmente spiegabile, per quanto assurdo e impensabile. Romero girò il film con scarsità di mezzi e un budget limitatissimo, utilizzando attori non professionisti e portando il genere fuori dagli studios. Il suo film inoltre risente delle nuove forme di visualità introdotte dal medium televisivo. Le riprese furono effettuate in un bianco e nero sgranato, con movimenti di macchina a spalla, in uno stile quasi documentario che ricordava l’automaticità televisiva delle inquadrature e rimandava ai reportage giornalistici e ai cinegiornali che in quello stesso periodo giungevano dal Vietnam.
Romero è il fautore di un nuovo tipo di immagine che inizia a risentire dell’orrore proveniente dal mondo reale, conosciuto e reso quotidiano dai media. La colonna sonora del film, costituita da musiche di repertorio ed effetti elettronici aggiunti di Karl Hardman, se da un lato risente di schemi e funzionamenti di tipo tradizionale e standardizzato, con un sinfonismo drammatico e tensivo, silenzi nei momenti di stasi dell’azione e di dialogo, crescendo dinamico e ritmico nelle scene di lotta fisica contro gli zombie, punti di sincronizzazione tra suono e immagine negli eventi improvvisi (risveglio dello zombie, apparizione dello zombie, corrente elettrica che salta), dall’altro subisce la nuova potenza delle immagini forti. La musica si mette da parte producendo uno spazio audiovisivo in cui l’immagine prevale: “i morti viventi di Romero rappresentano l’irrimediabile assuefazione all’immagine, anche sotto forma di immagine hard.” (26) La musica si abbassa, si placa, si assuefa anch’essa all’immagine, diventa uno sfondo sonoro cupo, ribattuto e inquietante, cedendo la scena ai morti viventi che si cibano tranquilli e ingordi di carne umana ed al loro famelico lamento.
Questa estetica visiva della carne mostrata sarà sviluppata ed estremizzata ancora di più da Romero negli episodi seguenti della sua quadrilogia degli zombie, grazie soprattutto agli effetti speciali al make-up di Tom Savini. Quest’ultimo non partecipò alla realizzazione di La notte dei morti viventi perché fu spedito in Vietnam come fotografo di guerra. Questa esperienza lo segnò per sempre e influenzò la sua attività di creatore di mostri. In un’intervista del 1982 affermò: «Ho visto fiumi di sangue laggiù. E il mio lavoro era fotografarli. Continuai a esercitarmi nel trucco lavorando sui soldati, tanto per ridere.» (27) D’altronde l’ostilità che Romero ha sempre manifestato nei confronti dell’esercito la si può ravvisare in un parallelismo tra il soldato, ignara pedina nelle mani di un potere più grande di lui, privato delle sue volontà di agire e della capacità di ragionare, e lo zombie, rozzo e incivile, dedito unicamente all’insensata ed indiscriminata eliminazione di esseri umani (in Day of the Dead lo scienziato “dottor Frankenstein” progetta di rieducare gli zombie, ma non è chiaro se le creature da civilizzare siano questi ultimi o alcuni arroganti e bruti militari). Savini aveva affermato che gran parte del suo lavoro per Zombi, il secondo film di Romero sui morti cover_night_living_dead.jpgviventi, consisteva in una serie di ritratti di quanto avevo visto dal vivo in Vietnam. Egli vide ciò che rappresentò artisticamente nei suoi lavori e ciò che in quegli anni il media televisivo riportava principalmente attraverso il resoconto cronistico, poiché il racconto per immagini di  un medium così pervasivo e diffuso non poteva spingersi oltre le aree del visibile consentite all’epoca. Nei film di Romero la televisione stessa gioca spesso un ruolo importante. Nel primo film della serie è attraverso di essa che la gente viene informata della tragedia in corso (tragedia che è già in atto fin dall’inizio del film, come avviene in genere nello stile romeriano). Ma ciò che Romero sembra volerci trasmettere è che la visione televisiva è sempre parziale e incompleta, che essa non può contribuire alla salvezza degli uomini e alla conoscenza della verità, che il suo apporto è sempre inadeguato. Quando nel film l’emittente televisiva trasmette un servizio su di una battuta di caccia allo zombie, notiamo che i morti che camminano non vengono mai mostrati sullo schermo, ma si trovano fuori campo o sono evocati dai discorsi dei poliziotti e del giornalista. Ad un certo punto il televisore si spegne per un guasto alla rete elettrica, ma è come se fosse stato lo stesso Romero a compiere il gesto, a non dare importanza a ciò che dice ed esibisce la televisione, per indirizzarci verso un nuovo sguardo, guidarci verso un nuovo tipo di visione e dimostrarci che gli zombie esistono davvero, che vivono tra noi, più vicini di quanto possiamo pensare, che (simbolicamente) l’uomo mangia l’uomo. Romero ritiene che lo sguardo dello spettatore sia ormai pronto per nuovi modi e forme del visibile orrorifico. “Tutta quella carne mostrata e spolpata (…) produce e richiede un occhio attonito, costretto a domandarsi cosa sto guardando, cosa è successo. Un occhio morale, suo malgrado altamente simbolico, quasi catatonico nel doversi costantemente cibare di tutto questo orrore.” (28) E ad un nuovo tipo di visione corrisponde necessariamente un nuovo tipo di ascolto, tra le due forme di ricezione vi è inevitabilmente un’influenza reciproca.  

cover_dawn_of_dead.jpgZombi – Dawn of the Dead (1979) comincia invece con i due protagonisti che per mettersi in salvo fuggono da uno studio televisivo in cui tutti discutono animatamente sul grave problema dei morti che stanno ritornando, senza giungere ad una conclusione ed a una soluzione, dove c’è ancora qualcuno che ha il coraggio di pensare agli ascolti televisivi e vuole proiettare sullo schermo gli indirizzi di centri di soccorso ormai inesistenti per lasciare gli spettatori attaccati allo schermo. Chiaramente significativa è la frase pronunciata da Karen (Gaylen Ross) che osserva avvilita lo spettacolo ignobile ed afferma: «Stiamo perdendo, ma non col nemico. Stiamo perdendo con noi stessi.» La comunicazione televisiva fallisce, perde, semmai l’ha avuta per Romero, la propria funzione di collante sociale e identificazione collettiva, non è in grado di rendersi utile all’umanità in crisi, è incapace di mostrare ciò che l’occhio spettatoriale richiede. Successivamente un cameraman incita Karen a fuggire col suo ragazzo Stephen (David Emge) tramite elicottero, affermando: «Va’ pure, tanto a mezzanotte entra in funzione la rete d’emergenza...Ormai la nostra responsabilità è finita.» E’ la morte della comunicazione televisiva. Alla visione limitata e mediata del cameraman televisivo si sostituisce simbolicamente quella cinematografica di Romero.
Le musiche del film furono composte dal gruppo rock italiano dei Goblin, con la collaborazione del co-produttore e co-sceneggiatore (assieme a Romero) Dario Argento. Per la versione italiana, Dario Argento tagliò delle scene (col consenso di Romero) e mantenne la musica in diverse parti, ad un volume molto alto. Romero, invece, per la versione americana, tolse la musica da alcune scene, lasciando il silenzio, e aggiunse musica non originale, affiancata a quella dei Goblin. Nella sequenza che segue quella all’interno dello studio televisivo, è in atto un’azione di polizia contro degli immigrati portoricani chiusi all’interno di un edificio. La musica di contorno, molto ritmica e movimentata, costruisce una situazione tipica di un qualsiasi film poliziesco o d’azione. E’ ancora un intento politico, quello mostrato da Romero, che si esibisce nella quasi mancanza di differenza tra immigrati e zombi e nel trattamento quasi uguale riservato loro da alcuni poliziotti.
Tuttavia, l’intervento musicale forse più significativo del film lo si ravvisa in un utilizzo di essa di tipo diegetico, o, secondo la terminologia utilizzata da Michel Chion, nell’utilizzo di musica da schermo. Se nel genere horror solitamente è prevalente l’utilizzo di musica da buca, ossia musica che “accompagna l’immagine da una posizione off, al di fuori del tempo e del luogo dell’azione” (29), detta anche musica non-diegetica o musica «commentativa», talvolta si ricorre anche ad utilizzi simbolici o espressivi di musica da schermo, ovvero musica che “proviene da una sorgente situata direttamente o indirettamente nel luogo e nel tempo dell’azione, anche se tale sorgente è una radio o uno strumento fuori campo” (30), detta anche musica diegetica o musica «attuale». Romero riempie un centro commerciale abbandonato di zombi antropofagi, su di una classica musichetta da supermercato che ha la funzione di disporre positivamente l’animo dei clienti ad un acquisto piacevole. E’ una forte satira sociale sul consumismo impazzito, un contrappunto visivo e sonoro che unisce il truculento all’ironico. I morti viventi si aggirano tra i reparti calpestandosi fra di loro, lo zombie si associa al corpo del consumatore che divora merce ed è divorato dalla merce. Nella sceneggiatura Romero descrisse il centro commerciale come un tempio della generazione materialistica ed egocentrica di quegli anni.  

cover_day_of_the_dead.jpgIl giorno degli Zombie (1985) è il terzo e forse il più politico film della saga, uno degli ultimi horror basati sull’effetto speciale artigianale, il quale giunge al suo limite, ancora grazie a Tom Savini. Romero arriva a mostrare intere scene splatter di squartamenti vivi di persone da parte di orde di morti viventi, con organi umani, sangue e carne spolpata apertamente, in piano totale, senza limite visivo. La musica del film è di John Harrison, e risente molto dello stile carpenteriano (di cui parleremo in seguito). Ciò che si vuole sottolineare è che durante le suddette scene la musica non muta minimamente, è sempre uguale a sé stessa, fatta di temi elettronici anonimi su un accompagnamento costante di batteria, non si preoccupa di sottolineare certi momenti di visione estrema, ma procede come se sullo schermo non accadesse nulla di eccezionale, quasi si rivolgesse ad uno spettatore abituato ed ormai pronto per un certo tipo di visione, ad uno sguardo assuefatto. Essa non ha più nulla da suggerire, non c’è una insufficienza visuale da compensare sensorialmente o accentuare sonoramente. Il film ha un ritmo molto veloce e Romero parlò di esso come di un video rock. Non c’è tragedia, né drammaticità in quello che accade. La musica asseconda l’“indifferenza” della telecamera a visioni tanto eccessive.

2. L’esorcista

locandina_esorcista.jpgSe La notte dei morti viventi ha rivoluzionato l’horror dal punto di vista visivo, L’esorcista (1973) di William Friedkin lo ha rivoluzionato dal punto di vista sonoro.
Un importante punto di contatto tra i due film lo si trova nella rappresentazione metaforica che entrambi danno, in modi differenti, dello scontro generazionale che in quegli anni caratterizzava le società dei paesi occidentali. A partire dal 1967, l’inadeguatezza e l’arretratezza delle strutture scolastiche e universitarie scatenarono ondate di rivolte studentesche, la guerra in Vietnam alimentò la contestazione pacifista e anti-americana, entrò in atto una rivoluzione del costume senza precedenti, nacquero nuovi comportamenti e stili di vita completamente estranei al mondo degli adulti, i giovani erano trasgressivi, rifiutavano l’autorità, portavano avanti slogan per il cambiamento, vestivano in maniera stravagante, dettero vita ad una «contro- cultura» alternativa al patrimonio di conoscenza dell’intero occidente, promulgavano un rigetto del sapere dominante e una critica della cultura codificata. Il mondo dei giovani diventò un universo sconosciuto agli adulti, con tendenze, miti, riti e stili di vita propri, che invase le piazze e affollò i cortei. Esplosero le conseguenze della differenza tra due esperienze di vita radicalmente diverse, tra chi ha vissuto la guerra e ha contribuito alla costruzione di un nuovo ordine sociale dotato di determinate regole, e chi non ha sofferto guerre né patito la fame o la disoccupazione ma è critico e scontento e appare molto più sensibile nel percepire le contraddizioni e le lacerazioni che mutamenti accelerati e radicali portano inevitabilmente con sé (31). Nel film di Romero il gap generazionale trova una sua messa in scena metaforica nella sequenza in cui una bambina tramutata in zombie divora il braccio del padre morto per poi uccidere la madre a colpi di paletta da giardiniere e cibarsene. Nel film di Friedkin, invece, il conflitto genitori-figli rappresenta una delle chiavi di lettura più convincenti e significative. Il film racconta di una madre che si accorge con terrore che la propria figlia sta cambiando e che la sta perdendo senza essere in grado di fermarla o di capire perché o come ciò stia accadendo. «Posso dirle che quella cosa là di sopra non è mia figlia», dirà la madre Chris MacNeil (Ellen Burstyn) al padre Damien Karras (Jason Miller). Non è un caso che lei sia un attrice in quel momento impegnata in un film che tratta di una rivolta studentesca. Regan MacNeil (Linda Blair) rappresentava il cambiamento subito dai giovani dell’epoca che arrivavano ad essere violenti e sboccati, assumevano droghe e mutavano le loro personalità, giovani che misero in discussione i valori dei loro genitori, i quali si ritrovarono impotenti di fronte alla ribellione dei propri figli, pieni di sentimenti confusi di colpa e di responsabilità per non aver saputo trasmettere loro i propri ideali.
Se questa interpretazione può apparire per certi tratti forzata, certa è la creazione, da parte dei due film, di un nuovo concetto di male, di mutazione dal di dentro, di cambiamenti di un corpo che diventa il primo oggetto dell’effetto speciale. La carne diviene protagonista, Romero documenta per primo “quel viaggio nella carne come contagio, desiderio e esperienza del mostruoso” (32) che Friedkin proseguirà. Il corpo non è più vittima del male proveniente dall’esterno, da oggetto aggredito diventa soggetto corrotto dal male dall’interno, involucro da cui il male stesso si sprigiona.
Forse il motivo principale per cui L’esorcista ebbe un forte impatto all’epoca, provocando negli spettatori malori, giramenti di testa, conati di vomito, insonnia, ed uno dei motivi per cui fa paura ancora oggi è questa nuova forma di vita che il male assume: non un mostro, un vampiro, un folle, ma un demone senza materia, invisibile e inconsistente, un entità senza corpo che si sottrae completamente alla vista dell’uomo, qualcosa su cui il controllo visivo non ha alcun potere, l’atto del vedere non ha più senso, perché il male si sottrae ad esso. Questo nuovo male occupa il corpo che ne è inconsapevole e lo spersonalizza. “Il demonio, come il cinema, non ha corpo, è in corpo, voce over, immagine alterata e alterante – quindi il corpo posseduto, dall’inizio alla fine, è quello dello spettatore.” (33) La musica scelta da William Friedkin possiede questa stessa immaterialità e invisibilità del rappresentante del nuovo male cinematografico, il demone Pazuzu, uno musica che è presente ma che resta nascosta, il cui ascolto è subliminale, arriva al cervello senza passare dalle orecchie, soffusa e inavvertitamente inquietante, Friedkin pensò a diversi compositori a cui affidare la composizione delle musiche per il film, tra i quali Bernard Herrmann. Alla fine ritornò all’idea iniziale e scelse di utilizzare brani di musica preesistenti di autori dell’avanguardia contemporanea: ricorse a cinque brani del compositore polacco Krzysztof Penderecki (“Kanon for orchestra and tape”, “Cello Concerto”,”String Quartet”, “Polymorphia” e “The devils of Loudon”) e a brani di Hans Werner Henze (“Fantasia for strings”), Gorge Crumb (“Threnody 1: night of the eletric insects”), Anton Webern (“Fliessend”, “Ausserst Zarte from five pieces for orchestra op. 10”) e David Borden (“Study No. 1” e “Study No. 2”). Friedkin poi commissionò al compositore Jack Nitzsche una musica addizionale che avesse una funzione di raccordo e legasse insieme i frammenti sparsi, come nel prologo ambientato in Iraq, in cui c’è un primo incontro tra il demone Pazuzu e padre Merrin (Max Von Sydow). Nitzsche aggiunse un brano intitolato “Christal Glass and Voices”, con sonorità sperimentali ottenute mediante bicchieri di cristallo. Ma la musica che viene comunemente associata al film è l’incipit di “Tubular Bells”, album d’esordio di Mike Oldfield uscito quello stesso anno con enorme successo mondiale, il cui utilizzo nel film contribuì ulteriormente alla notorietà. Friedkin trovò casualmente il brano mentre era alla ricerca di qualcosa che suonasse come una filastrocca infantile. Il brano consiste in un celebre tema al piano, alternante tempo dispari, composto e tempo pari, regolare (7/8 e 8/8), con infinite variazioni ed entrate di diversi cover_exorcist.jpgstrumenti. Tuttavia, durante il film si sente soltanto due volte: quando Chris MacNeil sta tornano a piedi verso casa e per la prima volta vede padre Karras, e sui titoli di coda. Nonostante l’impronta musicale contemporanea data al film, è come se il regista avesse voluto imprimergli un marchio sonoro che lo identificasse, un ricordo acustico che potesse rimanere impresso nella mente dello spettatore, facilmente riconoscibile e memorizzabile.
Il commento musicale di tutto il film si integra e si raccorda con l’intera concezione sonora su cui era basato. “Fin dall’inizio Friedkin aveva concepito il film come un’alternanza, perfettamente orchestrata e coreografata, di momenti di luce ad altri di oscurità, ai quali in campo sonoro corrispondevano rispettivamente sequenze calme e totalmente silenziose, e scene fragorose e caotiche, in cui le componenti acustiche dovevano avere il massimo di amplificazione.” (34) Gli interventi musicali diventano sempre più frequenti col crescere della possessione demoniaca. L’utilizzo innovativo della musica sta nella assoluta assenza di qualsiasi tema ricorrente, non esistono leitmotiv che ritornano; anzi, se si eccettua il caso particolare di “Tubular Bells”, non esistono temi veri e propri. La musica non ha alcun ruolo guida nei confronti della ricezione spettatoriale, né funzione di orientamento e scansione narrativa. E’ un sottofondo infernale che vuole simulare acusticamente l’azione del male e lo accompagna nel suo percorso di corruzione. Laddove il male si manifesta ecco che la musica interviene astuta e discreta come il demone. Solo nei momenti sonoramente già pieni e forti, in cui il diavolo si manifesta, la musica è assente. Ma quella de L’esorcista è la musica che suonerebbe il diavolo. Un fruscio sonoro nascosto e imprevedibile, come le tremende manifestazioni diaboliche.
La colonna sonora annulla le regole e il principio del sinfonismo classico hollywoodiano, si priva del carattere di elemento strutturale a sé stante definito e compiuto, e diventa un insieme ricercato di frammenti sparsi che creano un preciso e studiato contrappunto audiovisivo. Il regista non si limita ad essere coordinatore o indicatore delle direzioni musicali da assumere. Friedkin è il vero e proprio ideatore e costruttore del legame che la musica crea con le immagini, introduce nell’horror l’utilizzo di musiche preesistenti secondo un metodo già utilizzato, in altri generi, da maestri quali Stanley Kubrick, Pier Paolo Pasolini, Jean-Luc Godard, Luchino Visconti. La differenza è che qui sono assenti l’immedesimazione spettatoriale in una certa cultura musicale ed il riconoscimento di temi e musiche consolidate. In L’esorcista non c’è identificazione, né rimando, né citazione sonora, né distensione acustica in qualcosa di conosciuto e popolare. Né si può parlare di effetto straniante alla Kubrick, quanto piuttosto di un effetto disturbante, come l’immagine che ad essa si accompagna. Grazie a film come L’esorcista, inoltre, correnti artistiche come la musica contemporanea, elettronica e concreta del ‘900, le quali erano e sono tuttora destinate ad un consumo tipicamente elitario e riservato a classi e categorie ristrette di persone, trovano una efficace applicazione, ricca di significati espressivi e risvolti culturali, proprio nel cinema, il quale rappresenta il contesto naturale in cui tali tipologie musicali riescono a trovare una fruizione a livello di massa. L’elemento sonoro dei film diventa l’ambito appropriato in cui la nuova dimensione musicale d’ambiente del novecento trova espressione (35). Lo stile musicale del film, il suo flusso sonoro indeterminato, intangibile, incantabile e dall’ascolto imprecisato, quasi astratto e allo stesso tempo concretamente funzionale, influenzerà i modi di produzione di musica per film horror: sonorità senza confini identificabili e strutture riconoscibili, indistinte e quasi “attaccate” e incorporate dentro l’immagine, nei confronti della quale l’attenzione e la fruizione spettatoriale è quasi magnetizzata, ipnotizzata ad una audiovisione che ridimensiona la paura in uno stato di trance tensiva permanente.   

NOTE:

26.Lorenzo Esposito, Carpenter Romero Cronenberg, Roma, Editori Riuniti, 2004, p.57.
27.James Verniere, An interview with Tom Savini, The Aquarian, 24 novembre – 1 dicembre 1982.
28.Lorenzo Esposito, Carpenter Romero Cronenberg, Roma, Editori Riuniti, 2004, p. 57.
29.Michel Chion, L’audio-vision. Son et image au cinéma, Paris, Editions Nathan, 1990. (trad. it. di Dario Buzzolan, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Torino, Lindau, 1997, p.82).
30.Ibidem.
31.Cfr. Simona Colarizi, Storia del Novecento italiano, BUR Saggi, Milano, 2000, pp. 390-398.
32.Lorenzo Esposito, Carpenter Romero Cronenberg, Roma, Editori Riuniti, 2004, p. 58.
33.Simona Marani, Horror. Sedotti e abbandonati, in Gino Frezza (a cura di) Fino all’ultimo film, Roma, Editori Riuniti, 2001, p. 311.
34.Daniela Catelli, L’esorcista, 25 anni dopo, Bologna, Punto Zero, 1999.
35.Cfr. Andrea Lanza, Storia della musica. Il secondo Novecento, EDT, Torino, 1991, p. 19.

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