Intervista esclusiva al Maestro Franco Piersanti

foto franco piersanti new

Parlando di Musica Applicata: Intervista esclusiva al Maestro Franco Piersanti

Ho intervistato il compositore romano Franco Piersanti, impegnato presso il Conservatorio “P.L. Da Palestrina” di Cagliari, nella prima MasterClass “Sergio Miceli” di Tecnica di scrittura per il cinema, organizzata nell’ambito degli appuntamenti didattici del festival “Creuza De Mà – Musica per film” (leggi nostro dossier).

Colonne Sonore: Partirei da un ricordo della figura di Sergio Miceli, anche per presentarlo ai pochi che non ne hanno conoscenza.

Franco Piersanti: Sergio Miceli è stato, e continua ad essere attraverso i suoi studi e i libri che ha prodotto, una figura piuttosto importante nel panorama della Musicologia italiana, perchè è stato il primo, in pratica, ad interessarsi e ad applicare una metodologia, molto precisa e sempre più approfondita, proprio sulla storia della musica applicata, partendo dalle origini e arrivando fino ai nostri giorni, tanto che è diventato, tra gli anni Ottanta e il Duemila, il biografo ufficiale di Ennio Morricone, scrivendo un libro su tutta l’opera e la figura di Morricone e pubblicando anche sotto forma di libro dei quaderni, sunto delle loro lezioni all’Accademia Chigiana.

Proprio per il fatto che Sergio sia stato uno dei pionieri dello studio e dei corsi di musica applicata, la prestigiosa Accademia Chigiana li accolse, e lui e Morricone hanno tenuto corsi estivi li per anni. La mia conoscenza con Sergio avviene quasi alla fine di questa sua esperienza con Morricone: io l’avevo conosciuto casualmente, sapevo di lui; lui viveva a Firenze, io a Roma, ci siamo incontrati ed è sorta subito una grande simpatia.
Ovviamente avere il suo interesse in quegli anni li - negli anni Ottanta nei quali io mi stavo ancora affermando - per me non è stata poca cosa. Ancora di più mi ha onorato il fatto che, quando Morricone ha voluto chiudere il rapporto con la Chigiana, perchè era stanco dell’insegnamento dopo tanti anni, Sergio mi ha proposto di prendere il suo posto. E da li, dalla fine degli anni Ottanta, abbiamo iniziato insieme, ma non più alla Chigiana, che aveva deciso di cancellare i corsi di composizione di musica per il cinema, anche se poi sporadicamente ha ripreso.
Però certamente l’organizzazione di quel corso - che contemplava uno storico della musica applicata, un musicologo ed un compositore, che avesse sulle spalle una sua esperienza precisa e forte - lo contraddistingueva abbastanza come unico nel panorama generale.
Con Sergio, attraverso questa complicità nel lavoro, è nato un rapporto che negli anni è diventato una grandissima amicizia, molto stretta, piena di affetto e di stima reciproca; abbiamo fatto tanti corsi insieme, alcuni più brevi, altri più intensi, ed organizzato noi, cercando di differenziare l’articolazione da come era alla Chigiana, perchè ci rendevamo conto di quanto cambiassero i tempi e in qualche modo bisognava portare anche qualcosa di diverso all’interno del corso. Tutto questo è durato circa trent’anni e adesso, grazie al festival “Creuza De Mà”, con l’intento di non far cadere tutta questa mole di lavoro ed il patrimonio culturale accumulato, mi sembrava l’unica cosa possibile farlo – anche se da solo – con un’altra dinamica, ma sulla base dell’esperienza maturata con Sergio.
Veramente mi sento menomato ed orfano, senza la sua presenza, perchè mi rendo conto com’era strutturato con lui che copriva la mattina la parte storica e al pomeriggio entravo io, per poi interscambiarci i ruoli, intervenendo e così via: certamente un corso di quel genere era veramente formidabile, dal punto di vista della didattica e dei contenuti.

CS: Sicuramente, dunque, condurre questa MasterClass in suo nome, rappresenta per Lei un omaggio e un grande segno di amicizia, stima umana e professionale.

FP: Certamente, ma il corso risente della sua mancanza e quasi mi “costringe” a coprire tutta quella parte – di cui si occupava meravigliosamente Sergio - di storia della musica per il cinema, a trattare quell’evoluzione storica che questa parte importante del cinema, che è la musica, ha subito negli anni, partendo dalle origini di fine ‘800 per arrivare alle tecnologie più avanzate di oggi e alle applicazioni più imprevedibili. Quindi tutto quello che è suono e si muove “dentro” al film.

CS: A tal proposito, i cambiamenti tecnologici, quelli della società, gli stessi tempi che viviamo hanno portato anche ad un diverso ruolo del compositore nel cinema, e parliamo impropriamente, talvolta, di “compositori” anche quando questi autori non scrivono in partitura.
Ciò premesso, Le domando: è ancora utile un corso di questo tipo per i musicisti e compositori che vogliono dedicarsi alla professione del cinema, anche in un momento in cui dei “non -compositori”, inteso come musicisti sforniti di preparazione accademica, si dedicano alla musica applicata, ottenendo anche ottimi riscontri?

FP: Questo punto qui, devo dire sinceramente che, già dai corsi con Miceli, era un problema che affrontavamo noi da soli, soprattutto sul come si potesse muovere un insegnamento di tale tipo. Comunque diciamo che il corso non è che ha un assunto assoluto o un’idea a senso unico.
Io ho visto che, da un lato, i livelli di interesse sicuramente sono diversi e tanti, e ovviamente se io ho dei compositori “a tutto campo”, dei compositori fatti per così dire, con una loro fisionomia, con un loro bagaglio preciso di studi, cambia sicuramente il rapporto, perchè si può parlare di cose che con dei “principianti” o dilettanti, diciamo, li puoi solo informare, non colgono certe sfumature, anche se tu fai vedere degli esempi o altro.
Quindi dire che è un corso che è “cristallizzato” nel suo voler essere, direi no, assolutamente!
L’ultima volta che ho tenuto un corso in qualche modo significativo risale a due anni fa, dato che per quattro anni ho insegnato al Conservatorio di Milano, per sei mesi all’anno, con un insegnamento a tutto campo: loro facevamo i compiti e finiva con un saggio; io stesso ho visto, anche in quei quattro anni, come cambiavano proprio le osservazioni, le necessità, le richieste, l’atteggiamento degli studenti.
Io, come compositore che lavora in questo campo, trovo anche che questa cosa abbia modificato il gusto, le esigenze, quindi è una materia veramente così in movimento, così mobile, che un insegnamento, una didattica, si può stabilire per sommi capi, cioè ci sono delle cose che appartengono al passato e che ancora oggi si praticano in qualche modo. Il punto difficile è proprio quello dell’astrattezza della materia in questione, tanto è vero che quest’anno ho aperto il corso pensando: “ma forse l’unico modo per stare coi piedi per terra e non parlare di cose che poi appartengono all’aneddotica, alla storia, a materie che non hanno a che fare con una prassi quotidiana, è fare un corso ancorato al “principio di realtà”: un musicista, principiante o meno, che ha l’occasione di iniziare una professione seria, un mestiere con la musica, applicandola al cinema, alla televisione, a tutto quello che è comunque spettacolo, che non significa per forza una cosa volgare o disimpegnata, insomma”.

CS: In questi primi tre giorni di corso è emersa una cosa molto interessante, a parer mio: ferma la sua formazione classica, che emerge palesemente sia dalle sue parole che dalla sua musica, c’è stato un riferimento che mi ha colpito particolarmente: lei ha chiesto “ma voi i film li guardate?”, come a dire: va bene la preparazione tecnica e accademica, va benissimo studiare composizione, contrappunto e fuga, ma guardare tanto cinema, osservare i dettagli, vedere i film con occhio critico dal punto di vista anche della colonna sonora, sono operazioni fondamentali, se vuoi approcciarti alla professione del compositore per il cinema.

FP: Certo, assolutamente.
E’ come se uno scrittore avesse un gran talento e conoscesse poco la letteratura.
Può anche succedere, potrebbe dire qualcuno, ma di fatto non è così.
Così come un musicista o un compositore come fanno a ignorare la storia della musica?
Per un compositore di musica per il cinema, oltre al bagaglio culturale - musicale tout court, all’infuori di qualsiasi applicazione – c’è anche il peso di dover conoscere storicamente i film.
Uno dice Woody Allen come potrebbe dire Griffith oppure Hitchcock, perchè purtroppo è costretto a muoversi su più binari, perchè la comprensione o la conoscenza dei film di Hitchcock, ti dice si che c’era quella musica scritta per quel determinato film, ti dice di quel musicista, ti dice anche qual è il bagaglio di quel musicista in particolare, ma ti dice anche perchè la musica è stata scritta con quelle scelte particolari, e si va a finire sul linguaggio cnematografico puro, sui meccanismi che appartengono al cinema, al montaggio, alla messa in scena, allo stile del regista; tutte componenti fondamentali che, certamente, per un ventenne di oggi rappresentano un carico non indifferente, e questo è un dato lapalissiano.
Io ho cominciato a comporre a 25 anni, nel 1975 con Sono un autarchico (Nanni Moretti, ndr) che è stata una scommessa della Domenica con Nanni, ma in quel periodo io ero uno spettatore di cinema, non uno che ne sapeva, però nel momento in cui ho cominciato a vedere che era appassionante (perchè poi quello è il motore: ti appassioni!), ho cominciato a notare di più la musica nei film e per forza di cose ci sono entrato dentro, anche perchè parlando con un regista col quale lavori e questi procede per citazioni, allusioni e così via, come si fa a sopravvivere?
Mi ricordo di un mio professore del Liceo, veramente un grandissimo insegnante, intellettuale ed Ispanista - concedetemi questa parentesi – che ci raccontava che la gente che andava a casa sua rimaneva sconvolta dalla sua grandissima biblioteca, quasi spaventata da queste pareti di libri, e gli chiedevano “ma lei gli ha letti tutti?” e lui rispondeva, o pensava dentro di sè, “veramente spero di averne letti di più”. Così funziona anche per la musica o i film: lo fai perchè ti arricchisce, se non altro come curiosità personale, no?

CS: Se dovesse nominare dei musicisti italiani che sono stati importanti per la sua formazione, soprattutto nel momento in cui ha cominciato a scrivere per il cinema, a parte Ennio Morricone, chi citerebbe?

FP: Io ho avuto la grande fortuna, ancora studente, di incrociare per caso, proprio per motivi scolastici, Nino Rota, che mi ritrovai come esaminatore per un esame.
La fortuna grossa è stata che, dopo quattro anni, lui chiese al mio insegnante di composizione se ero disponibile per andare a lavorare con lui, a fargli da assistente, perchè si era ricordato di questo esame che evidentemente l’aveva colpito, non so bene perchè (si trattava di una composizione scritta liberamente per l’esame).
Quindi sono stato tre anni a finire gli studi con il mio insegnante, ma contemporaneamente andavo anche da Rota, che non aveva in realtà bisogno di alcun assistente. Però per me vederlo lavorare, poterlo seguire, stargli vicino – era il periodo che stava scrivendo la musica per Il Casanova di Federico Fellini ed altre opere – è stato meraviglioso. Sa, quelli erano anni in cui gli insegnanti erano davvero nomi grossi, al Conservatorio di Roma c’era ancora Petrassi, c’era Franco Ferrara, c’era appunto Nino Rota che era ancora direttore del conservatorio e scriveva quello che scriveva; quindi trovarsi sulla strada, in un momento di formazione, uomini del genere, ti portava alla necessità di cogliere al volo queste occasioni.
Infine la lezione che uno riesce ad apprendere osservando: tralasci le cose che ti sembrano poco interessanti e tieni quelle più preziose per te.

CS: Nel caso invece dei compositori stranieri, la formazione è avvenuta attraverso l’ascolto e l’analisi della partitura, immagino. Ad esempio, il suo amore per Bernard Herrmann o Miklos Rozsa.

FP: Si, mi interessa l’essenza di questi compositori.
Che facessero il cinema o scrivessero liberamente, il confine era molto labile perchè c’è sempre un “fatto” musicale di fondo, un pensiero musicale forte: non esiste realmente la musica per il cinema, nel senso che si scrive “per” il cinema, ma la matrice è sempre in quel discorso musicale che deve stare in piedi a sé stante, con dignità, non una sorta di “fenomeno” che prende vita soltanto con le immagini.

CS: Un ragionamento operato in maniera molto simile nell’ultima biografia di Morricone, nella quale, distinguendo tra musica applicata ed assoluta, la reale differenza sembra riscontrabile nella committenza dell’opera: una è al servizio di qualcosa, l’altra è completamente libera a livello compositivo.

FP: Certo, di fatti un metodo che a volte si può adottare – che io di solito uso, come d’altronde fa Morricone, essendo oramai insito nel suo modo di essere – è quello per cui per un film si può scrivere benissimo pensando alla propria musica come pre-esistente al film, quasi come una musica di repertorio, come un pezzo assoluto, classico, che poi adatti per delle esigenze di carattere economico, di tempo o di struttura e montaggio.

CS: Tra gli approfondimenti del corso si è parlato del film Drive (2011, Nicolas Winding Refn – ndr) con le musiche del compositore Cliff Martinez: abbiamo analizzato in particolare una sequenza in cui, anziché utilizzare musica originale, il regista sceglie di recuperare una musica di repertorio del Maestro Riz Ortolani (“Oh my love” cantata da Katyna Ranieri, dal film Addio Zio Tom, 1966, ndr), tratta da un altro film, di epoca completamente diversa, creando un effetto straniante e molto bello, combinato con la fotografia contrastata, l’uso della slow motion, etc.
Si tratta di un modus operandi abbastanza diffuso ormai, soprattutto negli Stati Uniti: Tarantino e tanti altri creano le loro colonne sonore quasi come un puzzle, utilizzando musiche di repertorio.
Cosa pensa di questa pratica?

FP: Penso che, a suo modo, funziona!
Quando è nelle mani di un autore come Tarantino, che ha portato avanti questo discorso – che gli faceva anche comodo – del recupero delle musiche e dei film sempre considerati di serie B; come ad esempio tanta musica scritta per i Western, applicandola ai suoi film con un effetto di spiazzamento, in qualche modo diventa interessante.
Piuttosto ti dirò che l’espediente viene usato, spesso e volentieri, non con quella stessa capacità!
E’ molto allettante come idea, anche perchè in quel modo li, un regista che sta lavorando, vede subito il risultato della scena con la musica e può immediatamente modificare il montaggio, anche perchè avere un compositore significa essere a ridosso di qualcun altro che media le tue esigenze.
Credo siano scelte che devono essere motivate in qualche modo: in Tarantino è assolutamente non casuale.

CS: Decisamente non casuale, tanto che lo stesso Tarantino ha raccontato spesso che certe scene le immagina direttamente con una certa musica o canzone, che appunta in sceneggiatura, per la quale è disposto a spendere qualsiasi cifra (il famoso caso di “Son of a preacher man” di Dusty Springfield in Pulp Fiction, 1994, ndr). Colpisce come Morricone abbia spesso dichiarato di non gradire questo tipo di operazioni post-moderne (salvo dire di si “per sfinimento” al regista americano per la colonna sonora del suo ultimo The Hateful Eight, Premio Oscar per Morricone, ndr), mentre altri illustri “recuperati” (si pensi a Luis Bacalov, Franco Micalizzi, Stelvio Cipriani, Nora Orlandi) hanno addirittura ringraziato Tarantino per questa “seconda giovinezza” regalata a brani che, magari, ai tempi erano passati (ingiustamente) inosservati.

FP: Beh, certo! Essere “ripescati” per un film di grande successo dopo tanti anni non è proprio una cosa da buttare via (ridiamo, ndr).
Però, in realtà, le indicazioni in sceneggiatura ci sono sempre state.
Gli sceneggiatori e i registi italiani hanno sempre indicato la musica in sceneggiatura, quasi sempre brani di musica classica o popolare; tra i film che ho fatto penso a quelli di Moretti che infilava sempre due o tre canzoni che rappresentavano le sue passioni: il Gino Paoli degli anni Sessanta, Franco Battiato, Renato Zero fino a Brian Eno.
Sono operazioni alle quali il regista tiene e che per lui non sono sostituibili, ed io lo capisco anche perchè certe volte si tratta di un’oggettivizzazione di un momento, di una scena che diventerebbe più intima con la musica di commento originale, e che diventa tutt’altro con una musica già conosciuta o molto popolare. E questa è la bellezza della musica applicata: che cambia costantemente le carte in tavola.

Stampa