Il musicista venuto dal tempo: conversazione con Marco Werba

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Alto ma non imponente; attraversato nel volto da una severità culturale stemperata nella voce sussurrata, meditativa, cordiale e conciliante. E una fisionomia che richiama all’intellettuale ottocentesco, quasi a somatizzare la predilezione del musicista per i film in costume, il dramma d’epoca. Ma ancora una volta l’apparenza inganna. Un incontro con Marco Werba ha poco a che fare con la tipica intervista all’elitario compositore specializzato, incentrata sull’arte del comporre per il cinema, e molto più con la felice scoperta di un appassionato genuino, un conoscitore attento del mondo della colonna sonora. Forse perché Werba, salito agli onori della critica con il suo esordio nel lungometraggio Zoo di Cristina Comencini (premio Colonna Sonora nel 1989) – cui sono seguiti progetti di vario genere, come il dramma A Dio piacendo (1994) e lo storico Il Conte di Melissa (2001) – è stato, ancor prima che sensibile compositore cinematografico (e non solo), un collega, collaboratore per testate storiche del settore come CinemaScore e Soundtrack in qualità di corrispondente estero. Numerose le amicizie strette con alcuni dei nomi più rilevanti della musica da film francese (Georges Delerue, Francis Lai, Philippe Sarde), le conoscenze di livello internazionale (Jerry Goldsmith, John Scott, Gabriel Yared) e i rapporti preferenziali con i nomi storici del panorama italiano, su tutti l’indimenticato Mario Nascimbene. Un bagaglio di esperienze che sottolinea la formazione accademica transculturale (nasce a Madrid nel 1963, poi gli studi in Francia, in America e a Roma) e determina la saggezza del suo sguardo al variegato universo della musica applicata, non di rado tradottosi in lezione per aspiranti compositori cinematografici durante i corsi di perfezionamento personalmente ideati e gestiti.

Reduce da una serie di concerti antologici omaggianti Lai, Rota, Horner, Shore e Morricone, la sua ultima fatica per il grande schermo, Masaniello - Amore e libertà, già premiata dalla Città di Caserta per gli “esaltanti brani inediti” e gli arrangiamenti del tema d’amore di Francis Lai, si appresta a debuttare nelle sale italiane.

Colonne Sonore: Vorrei iniziare questa intervista con un nome, quello di Jerry Goldsmith. Non solo per cogliere ancora una volta l’occasione di ricordarlo a pochi anni dalla scomparsa ma anche perché si tratta di un compositore che per Lei ha rappresentato molto, addirittura fondamentale per i suoi esordi.
Marco Werba: Seppi della morte di Goldsmith dall’amico Claudio Fuiano che mi chiamò e mi disse: “Ti devo dare una brutta notizia, è morto qualcuno che noi conoscevamo…”. In un primo momento pensai a Rustichelli che poi, purtroppo, morì poco dopo. Fuiano mi chiamò perché sapeva quanto per me fosse importante il nome di Jerry Goldsmith.
Ancor prima di studiare musica, vidi un film di fantascienza straordinario, La fuga di Logan – oggi un po’ dimenticato – che pur essendo una produzione importante della MGM non ricevette un seguito. Rimasi talmente colpito da questo film che lo andai a rivedere una seconda e una terza volta. A quel punto, conoscendo già la trama, iniziai a rendermi conto di questo particolare universo sonoro, che di solito viene percepito solo in maniera inconscia dal pubblico. Mi resi conto che c’era una musica straordinaria, a mio avviso rivoluzionaria: per le sequenze interne alla città del futuro Goldsmith usava musica elettronica, per l’esterno (quando i protagonisti riescono a capire che c’è qualcosa al di fuori della metropoli; il sole, la natura e che esiste la vecchiaia)  musica sinfonica, e in altri momenti  le due cose insieme.
In un negozio di New York trovai il disco e da quel momento in poi incominciai a studiare musica finalizzata al cinema, alle immagini.
In realtà da bambino il mio obiettivo era quello di diventare regista. Avevo girato anche alcuni cortometraggi…

CS: …tra cui I robot assassini
MW: Esatto. Poi però mi sono diretto verso la musica. Ma l’amore per il cinema era così forte che era inevitabile che le due cose fossero legate. Proprio in questo senso Goldsmith per me è stato importante. Lo conobbi quando venne a Roma ad incidere la musica di un film di fantascienza di George Pan Cosmatos, Leviathan, con l’Orchestra di Santa Cecilia, dove io ero presente. Poi lo rividi a Londra per un concerto con la London Symphony e credo in un’altra occasione, sempre qui a Roma, alla Forum, per un altro film… Certamente è stato un riferimento fondamentale. Alcune sue musiche sono straordinarie: a parte La fuga di Logan, mi vengono in mente quelle di Coma profondo – pochissima musica in quella pellicola, ma essenziale – poi quelle di Capricorn One e di Basic Instinct. Parlavo alcuni giorni fa con un amico chitarrista, che si è innamorato della composizione che Goldsmith ha scritto per Sotto tiro (Under Fire). Abbiamo intenzione di cercare un finanziatore che ci aiuti a noleggiare il materiale originale – se disponibile – oppure a riorchestrare le musiche il più fedelmente possibile per inserirle in un concerto di musica classica. Ci stiamo attivando in questa direzione e speriamo di riuscirci perché il brano è davvero bellissimo.

CS: Dopo l’ispirazione goldsmithiana qual è stato il corso della sua formazione musicale prima dell’approdo al cinema?
MW: Ho avuto degli studi musicali un po’ irregolari, come la mia vita scolastica, che è stata un po’ strana. Ho fatto una scuola francese qui a Roma, perché mia madre voleva che studiassi il francese, poi una scuola italiana, poi una di cinema dove mi sono diplomato come fonico mentre nel frattempo avevo già cominciato a studiare musica. Ho seguito i corsi di composizione in America, in una piccola scuola di New York che si chiama Mannes College of Music, dove c’era anche un corso di musica da film tenuto dal professore Jacob Stern. La cosa positiva è che c’era anche un’orchestra a nostra disposizione: una formazione jazz (senza archi). Era stupendo perché scrivevamo dei brani il giorno prima e in quello seguente venivano eseguiti da questo gruppo. Mi ricordo che un giorno il docente ci propose una sequenza tratta da un film di gangster, con una grossa sparatoria, senza però farcela vedere. Noi dovevamo scrivere il brano, che poi veniva suonato, registrato e infine commentato. Io avevo scritto un pezzo molto lento, con una tromba solista. Il trombettista disse a Stern: “Questo è un pezzo morto…a dead piece”. Morto perché era molto statico. Il professore disse: “Be’, è per una persona morta!”, perché effettivamente sullo schermo venivano tutti uccisi, quindi era giusto! Qualche tempo dopo mi sono ispirato a questo corso e cinque anni fa l’ho portato in Italia, con qualche modifica, e per quattro estati consecutive ho tenuto questo stage.
Tornato dall’America ho studiato privatamente armonia con dei docenti qui a Roma, ho fatto solo alcuni esami al conservatorio e poi un corso di direzione d’orchestra in Francia, con un direttore bravissimo che essenzialmente dirige musica classica: Jean Jacques Werner.

intervista_marco_werba2.jpgCS: La prima esperienza nella musica da film?
MW: In realtà è iniziato tutto con un piccolo film francese, una docu-fiction su Romeo e Giulietta; una pellicola sperimentale, il regista è conosciuto solo in una certa cerchia di intellettuali avanguardisti.
Il primo vero film è stato quello di Cristina Comencini, Zoo. In quel periodo avevo inciso una composizione per archi che si chiamava “Atomica: I sopravvissuti”, un adagio. Lessi di questo lungometraggio su una rivista che annunciava i film in preparazione e mandai il nastro con il mio pezzo. Di solito in quei casi la cassetta viene messa nel cestino senza nemmeno essere ascoltata. Invece Cristina Comencini la ascoltò e mi chiamò dicendomi: “Guardi, ho ascoltato la sua musica e non mi è dispiaciuta, se possiamo incontrarci forse un tema o due potrei farli fare a lei”. Infatti in un primo momento aveva in mente di musicare il film con un 70% di musica classica e un tema o due originali. Questa è stata la mia salvezza. Pur essendo agli esordi, era già stata sceneggiatrice e aveva scritto un romanzo, quindi senza difficoltà avrebbe potuto avere persone che avevano già scritto per il cinema, o comunque già affermate, come Fiorenzo Carpi che aveva già lavorato con il padre. Invece il fatto di voler usare musica classica mi ha dato la possibilità di entrare nel progetto e di rimanerci. Lei aveva scelto due brani classici, uno da Debussy, “Jeux”, e l’altro da Ravel, “Ma mère l’oye”. Il primo l’ho rieseguito, il secondo l’abbiamo preso dal repertorio della RAI di Napoli diretto da Sergiu Celibidache (e lo abbiamo utilizzato così com’era, apportando giusto un piccolo taglio; sembrava scritto apposta per l’ultima sequenza). Abbiamo lavorato a lungo assieme, in un modo parecchio interessante; Cristina è una donna molto intelligente. Purtroppo qualcosa è successo durante il montaggio definito. Io avevo preso i tempi e avevo orchestrato tre temi – lei aveva dato l’okay per andare in studio di registrazione ad incidere. Il primo giorno in studio, dove stavo registrando l’elettronica e il metronomo, mi chiama e mi dice: “Guarda Marco, all’ultimo momento ho deciso di tagliare qualche scena del film”; “Andiamo avanti, poi taglieremo”, ho detto io. Quando ci siamo visti in studio, mi ha fatto i complimenti per le musiche, ma poi in moviola i brani, naturalmente, non corrispondevano con i nuovi tagli e mi ha rimproverato: “Avresti dovuto fermare la registrazione…”. Io mi sono un pò arrabbiato e non abbiamo più lavorato insieme. Peccato perché è stata forse la collaborazione più importante finora, la più intelligente, tra persone che sanno dialogare, che sanno cercare le soluzioni giuste. Mi è dispiaciuto. Comunque sono contento di aver ricevuto il premio “Colonna Sonora” per questo film: all’epoca era un premio importante e poi ero in buona compagnia, perché i premi alla carriera erano andati ad Ennio Morricone e Francis Lai.

CS: Le scelte di repertorio hanno favorito in qualche modo la vena impressionistica del suo commento originale? La partitura è dominata da una scrittura sognante…
MW: È vero. Ermanno Comuzio, non tanto nel libro Colonna Sonora quanto in un volumetto che uscì per Trento Cinema, La colonna sonora, scrisse appunto che le musiche di Zoo erano atmosferiche, molto sognanti, tra il minimalismo e il neoromanticismo. In fondo, per quanto realista, era pur sempre una favola. C’è una sequenza di Zoo della quale sono particolarmente contento e che infatti mostro sempre nei corsi di musica da film. È la scena in cui Asia [Argento - n.d.i.] sente un suono mentre si sta addormentando; accende la lampada, si mette un impermeabile, esce fuori per capire cos’è questo suono indecifrabile, a metà tra un animale e uno strumento musicale. Da sola cammina nel giardino zoologico e lo segue. Questo suono, che ho realizzato mescolando il suono di un’ocarina (perché proveniente da un ragazzo che suona un’ocarina) con un flauto dolce basso “frullato” (cioè suonato come se si stesse sputando nello strumento) sembrerebbe essere un animale, un uccello che vola. La musica doveva essere molto discreta per non disturbare e allo stesso tempo c’erano anche i rumori degli animali del giardino. Questi tre elementi si fondono molto bene, quasi come fossero un tutt’uno, senza disturbarsi a vicenda.

CS: Pensa che con Zoo, essendo stato a tutti gli effetti il suo primo film, si siano impostate delle direttive stilistiche poi proseguite durante la Sua successiva filmografia?
MW: Roberto Zamori – lui ormai è un mio fan [ride] – con cui sono diventato molto amico, mi invitò a suonare in un concerto a Prato il tema di Zoo al pianoforte. Poi per circa 13 anni non ci siamo più sentiti. Dopo aver scritto le musiche per Il Conte di Melissa, cercavo qualcuno interessato a realizzare il CD e scoprii – grazie ad un suo collaboratore inglese, grande appassionato di colonne sonore, Lionel Woodman – che aveva una sua etichetta discografica. Quando poi gli mandai le musiche di Diario di un prete, mi disse: “Dalle prime note si riconosce il tuo stile”. Vuol dire che in qualche modo, alcuni elementi melodici o alcune idee di ‘progressioni armoniche’, sono delineate. Evidentemente questo è un elemento che crea, forse, uno stile.

CS: Si nota nei suoi lavori una preferenza per gruppi orchestrali molto raccolti, qualche volta addirittura cameristici, fondamentali nella restituzione dei suoi temi, sempre profondamente contenuti e dolenti.
MW: Si, è vero. Mi piacciono queste atmosfere un po’ profonde, private e personali. A dire la verità mi piacerebbe fare anche musica più spettacolare, magari per un film d’avventura. Però le occasioni sono poche.

CS: E immagino che molto spesso la scelta di ensemble ridotti derivi anche da costrizioni di budget…
MW: Naturamente. È già un miracolo, spesso, che si riesca ad avere un’orchestra da camera, perché con il budget dei film a cui ho lavorato qualcun altro avrebbe usato le tastiere elettroniche. Io ho fatto dei sacrifici, qualche volta guadagnando niente o quasi nulla; ho preferito avere un’orchestra vera, anche se piccola. Per Masaniello sono riuscito, con grandi sforzi, ad avere una formazione media.

CS: Subito dopo Zoo Lei si è dovuto imporre, cercando personalmente i progetti e pubblicizzandosi, fino a provvedere personalmente alla ricerca di un editore musicale. Che idea si è fatto dell’industria cine-musicale italiana da queste esperienze?
MW: Non lo so. Io sono andato avanti da solo. Mio padre, che è morto da qualche anno, era un giornalista e critico cinematografico stimato, però io non ho avuto favoritismi di alcun genere. Non oso pensare a quanti film avrei potuto fare in questi 15-16 anni con gli agganci giusti. Ne ho fatti pochi, pochi ma buoni. A volte sfortunati per via della poca distribuzione, ma perlomeno film d’autore che avevano delle qualità e che rispettavano la musica; che richiedevano una musica drammatica, con l’eccezione dell’unica commedia che ho fatto fino ad oggi (L’abbordaggio).

CS: Quali delle esperienze successive a Zoo ricorda con maggior soddisfazione?
MW: Premetto che per alcuni anni dopo Zoo non ho fatto cinema, dedicandomi alla musica da concerto con brani inseriti in concerti di musica classica. Comunque c’è un film del quale sono molto soddisfatto che si chiama A Dio piacendo, interpretato da attori molto bravi come Corinne Clery, Ivano Marescotti e Gigi Reder (in un ruolo drammatico). Il regista ha fatto solo questo film; con lui sono rimasto in ottimi rapporti. Ero contento del risultato. Poi c’è stato La preda, un thriller. In questa pellicola c’è una scena di delitto molto subdola che poi ho utilizzato anche nei miei corsi di musica da film. Il regista mi fece notare che mettendo una musica violenta sincronizzata con il coltello che era in campo avrei coperto il rumore della lama che tagliava l’aria (lo stesso errore che fecero gli allievi del corso a cui mandai il filmato) e quindi scrissi una musica apparentemente distaccata dalle immagini, ma che cresceva d’intensità dopo che il delitto era stato commesso.

CS: Giocando quindi in asincrono, “contro le immagini”…
MW: Esattamente.

CS: A proposito delle tecniche collaudate e della grammatica risaputa della musica da film, personalmente quale ritiene sia il modo migliore per entrare nel film?
MW: La prima cosa importante è capire in quali sequenze del film c’è veramente bisogno di musica, e questo lo si decide insieme al regista – è una cosa che va capita in due. Non sempre poi si può essere d’accordo su una sequenza, dove magari il compositore pensa che il silenzio sia sufficiente: (era una cosa che ripeteva tante volte Mario Nascimbene, il silenzio per lui era così importante che preferiva lasciare alcune scene senza musica, e proprio per questo con Rossellini era entrato in simbiosi. Entrambi erano d’accordo su questo elemento). Invece molti registi spesso hanno paura del silenzio e hanno bisogno di molto rumore per arricchire una scena che magari è un po’ vuota o perché non riesce a comunicare quello che vogliono e così hanno bisogno di complici – che sono il compositore e l’effettista – per far arrivare al pubblico una determinata emozione.
Ad esempio i gialli, dove la musica è così importante, si possono essenzialmente musicare in due modi, seguendo due scuole di pensiero. Una è quella di Bernard Herrmann, che ha fatto da maestro: una musica neoclassica, addirittura con una sola orchestra d’archi. L’altra è la maniera dei Goblin, che in qualche modo con i film di Argento hanno segnato una svolta nel modo di scrivere la colonna sonora di un film thriller; una musica più moderna, più commerciale, effettivamente diversa da quella che c’era stata in precedenza. Sono due punti di vista completamente differenti sulla stessa materia. C’è ad esempio un piccolo film dell’orrore (Patrick), australiano: in Australia le musiche sono di Brian May – molto bravo – mentre nella versione italiana sono dei Goblin. Ci sono due dischi per lo stesso film, due punti di vista differenti per la medesima pellicola. Probabilmente funzionano tutti e due, sia quello più classico di May, sia quello più immediato, di facile effetto dei Goblin.
Dunque il modo di lavorare ad un film può essere molto diverso. Le faccio altri due esempi, due compositori che ho conosciuto personalmente: Philippe Sarde e Gabriel Yared. Il primo, una persona molto interessante con un metodo di lavoro assai particolare. Si incontra con il regista e prima ancora di parlare di musica si vede il film in moviola con lui e gli dà dei consigli, magari proponendo di tagliare una scena: entra nella struttura del film. Una cosa non facile da accettare per un regista, perché alcuni sono molto gelosi del proprio lavoro e non accettano consigli. Alcuni dei registi più intelligenti con cui Sarde ha collaborato, come Polanski, invece accettano i suoi suggerimenti e questo va al di là del discorso musicale. Yared è l’esatto contrario: legge la sceneggiatura e su questa scrive la musica, invece che sul film. Dice infatti di non amare particolarmente la sincronizzazione della musica con le immagini, ci penseranno poi il regista e il montatore. Lui fa quest’esempio: una bella pietra è bella anche se il diamante è ancora grezzo, poi qualcun altro penserà a tagliarla e a metterla nell’anello. E infatti lui non si giudica un vero musicista cinematografico ma un musicista che è capitato nella musica da film.

intervista_marco_werba3.jpgCS: E Marco Werba come si pone rispetto a queste due scuole di pensiero?
MW: Questa è una buona domanda. Io sono forse più vicino a Philippe Sarde, è un mio difetto ma io amo sincronizzare la musica con l’immagine. A volte magari è un po’ eccessivo e riconosco che può diventare “cartone animato”, però è bello avere questa musica che calza a pennello, un po’ come fanno gli americani. Per Il Conte di Melissa ho fatto un lavoro incredibile; sono arrivato ad inserire in un brano di tre minuti senza sosta 20 punti di sincronizzazione. Mi ricordo che proprio Goldsmith, quando venne ad incidere le musiche di Leviathan a Santa Cecilia, si portò un assistente che con il computer riusciva a cogliere anche i decimi di secondo senza che si notasse una stonatura musicale. È anche vero che in alcuni casi la musica dovrebbe essere distaccata, un po’ come fa Morricone, che non è schiavo delle immagini e preferisce avere un discorso ampio. D’altronde ci sono anche sequenze che viste senza musica sembrano incoerenti. Lì c’è bisogno di una musica stabile, che inizia e chiude le sequenze legandole tra loro e donando alle immagini una certa coerenza. Mi è successo in un cortometraggio dal titolo 103; la ricostruzione delle ultime ore di vita di un condannato a morte in America. Ho scritto un adagio di cui sono molto contento, “Adagio per un condannato a morte” – che poi ho anche eseguito in concerto. Nel film c’era un ragazza che lottava per evitare l’esecuzione e quest’uomo che attendeva in carcere di essere giustiziato. Questo adagio dava un nesso logico ai due ambienti (interno ed esterno) e coerenza al montaggio alternato.

CS: Per quanto riguarda la sincronizzazione, generalmente utilizza i click?
MW: È inevitabile. Ho fatto impazzire alcuni orchestrali durante diverse registrazioni, perché adatto sempre il click all’esigenza di velocizzare o rallentare la musica, quindi loro sentono in cuffia dei rallentandi che a volte è difficile da fare insieme. Ma la cosa assurda delle orchestre qui in Italia non è la capacità di andare a tempo ma l’intonazione, a volte disastrosa, anche su brani facili. In Italia non c’è una scuola rigorosa per l’intonazione.

CS: Solitamente orchestra personalmente le sue partiture. Le capita comunque di ricorrere a dei collaboratori?
MW: Di solito no. Qualche rara volta mi è capitato per delle canzoni in francese che ho musicato, avevo un ragazzo che faceva gli arrangiamenti. Per Amore e libertà ho fatto orchestrare una versione del tema di Masaniello ad un mio amico che voleva collaborare con me.

CS: Alcune volte invece ha passato la bacchetta ad altri direttori…
MW: C’era sempre un motivo preciso. Per A Dio piacendo l’orchestra del Pantheon aveva già il suo direttore stabile, che era Cristina Cimagalli, a quell’epoca una delle poche donne direttrici d’orchestra qui in Italia. Lo stesso per La preda, l’orchestra aveva già il suo direttore, Giuseppe Galli. Per Il Conte di Melissa c’era un direttore amico del regista che aveva la sua associazione musicale e quindi ho lasciato dirigere a lui. Comunque non ho niente in contrario a prendere un direttore, alle volte, perché è un lavoro in meno e posso dedicarmi maggiormente ad altri aspetti tecnici.

CS: Ha citato molte volte la sua interessante colonna sonora per Il Conte di Melissa, un dramma storico in costume. A quali modelli musicali ha fatto riferimento nella stesura del commento?
MW: Ho avuto il piacere di conoscere un compositore che io reputo il più importante tra quelli francesi, Georges Delerue. L’ho conosciuto tanti anni fa e l’ho trovato una persona squisita, da giovane aveva sofferto e questo si rispecchiava nella sua personalità così umile e nella sua musica melodica, molto drammatica. Ecco io mi sono vagamente ispirato alla sua musica per I Borgia, anche se alla fine il riferimento è solo alla lontana. Forse c’è un modello che si sente ancora di più, quello di Zbigniew Preisner, il musicista di Kieslowski: mi sono ispirato alla bellissima cantata che ha scritto per La doppia vita di Veronica, soprattutto per la scena del parto.

intervista_marco_werba5.jpgCS: Cosa può dirci del suo ultimo film Amore e libertà - Masaniello?
MW: È curioso il modo in cui ho conosciuto il regista. Qualche hanno fa lessi che c’era un progetto di un film su Masaniello e siccome io amo molto le pellicole in costume mandai alcune mie musiche al regista. Un anno dopo mi chiamò e mi disse: “Io sto venendo a Roma, ci possiamo incontrare?”. Così conobbi Angelo Antonucci, del quale non avevo visto nessun film. Mi chiese se potevo intanto presentargli un editore che potesse co-finanziare le musiche del film. Proposi la CAM, con cui da tempo avevo desiderio di lavorare e che poi accettò di fare il film. Masaniello è stato il film più costoso al quale abbia mai partecipato. Vista la grandezza del progetto il regista mi chiese se potevo trovare un nome importante, magari un premio Oscar, che scrivesse il tema principale. Mi ricordai dell’amicizia con Francis Lai, che ero già andato a trovare a Parigi dopo il premio “Colonna Sonora” e con il quale ero rimasto in ottimi rapporti. Gli parlai di Masaniello e lui chiese di andarlo a trovare a Parigi insieme al regista. L’incontro andò benissimo, il regista rimase molto contento. Gli lasciammo una copia della sceneggiatura. Io nel frattempo avevo già scritto un tema che però fu bocciato dal regista, un tema che a mio avviso era giusto per il personaggio di Masaniello, molto melodico, sinfonico e virile. Invece il regista aveva questa visione dell’eroe romantico, così preparai un nuovo tema, di cui s’innamorò. E che è rimasto a tutti gli effetti il tema del film. Lai mi mandò poi due temi, a mio avviso belli entrambi; li ho orchestrati e il regista ha scelto quello che effettivamente era il più adatto come tema d’amore. Nel film quindi c’è molto materiale originale. Io ho poi scritto altri due temi; quello della rivolta e un altro della follia, che si integrano e si alternano con le altre musiche del film.

intervista_marco_werba4.jpgCS: Un’altra componente importante del suo lavoro è l’insegnamento della musica da film, un’attitudine di cui Lei ha già dato atto in diverse occasioni, come si è detto. È abbastanza interessante, inoltre, il fatto che Lei abbia voluto organizzare in passato un corso sulla musica per i film di fantascienza…
MW: In realtà poi quel corso non è stato mai tenuto. C’era però l’idea, un’idea direi inedita… A me comunque, piacerebbe che i corsi di musica da film venissero fatti anche per i registi, per capire come si collabora con un compositore, come si rispetta il suo punto di vista, come si ottengono i risultati migliori senza che si venga a creare un rapporto da padre-padrone, ma bensì una collaborazione onesta e sincera. In tutti i casi per il primo corso che organizzai avevo messo su un’orchestra d’archi che eseguiva il lavoro degli allievi e avevo inviato, un mese prima, una videocassetta con la sequenza da musicare. Era molto interessante vedere i risultati. Alla fine ci fu un saggio con l’orchestra diretta da un grande direttore, Gian Luigi Zampieri, allievo di Leonard Bernstein e Franco Ferrara. Ha diretto anche alcune mie composizioni in concerto e so che quando ho una musica importante, complessa e difficile da eseguire, posso contare su di lui.

CS: Lei è stato tra i fondatori del Premio Mario Nascimbene, oltre che amico del geniale compositore milanese. Come è nata questa amicizia e come è arrivato a rendergli omaggio attraverso un concorso per aspiranti musicisti di cinema?
MW: La mia prima composizione, “Atomica”, fu registrata negli studi di Mario Nascimbene, circa 19 anni fa. Lo avevo conosciuto, se non ricordo male, tramite Claudio Fuiano. Poi per alcuni anni ci siamo persi di vista, ed è stato un peccato. Quando l’ho rincontrato negli ultimi mesi della sua vita, riallacciando il rapporto, mi disse: “Marco, quanti anni sprecati, saremmo potuti essere grandi amici”. Aveva stima di me e io non potevo che esserne felicissimo. Negli ultimi giorni fece anche una telefonata per me, per raccomandarmi, e anche se non ebbe l’effetto desiderato apprezzai molto il tentativo. Mario ha vissuto gli ultimi mesi completamente isolato, dimenticato in maniera ignobile. Avrei voluto che tenesse dei corsi di musica da film e stavamo per realizzarli quando venne a mancare. Da qui nacque l’idea di celebrarlo attraverso il concorso, e devo dire che la prima edizione ha avuto un esito al di là delle aspettative: abbiamo ricevuto circa 90 partiture da ogni parte del mondo. Un’esperienza positiva, grazie alla quale Nascimbene viene ricordato di anno in anno.

CS: Cosa pensa dello stato attuale dell’arte della musica da film internazionale?
MW: Forse la cosa positiva della musica da film di oggi, americana, italiana e francese, è che se ne mette di meno rispetto ai tempi d’oro degli anni '30, '40 e '50, quando onestamente ce n’era troppa. Certo anche oggi ci sono musiche un po’ troppo melense (lo dico io che sono un compositore melodico!). La cosa negativa è che i prodotti musicali, almeno in Europa, sono più poveri a causa di budget molto modesti.

CS: C’è qualcosa che la musica da film d’oltreoceano e quella italiana potrebbero scambiarsi? Qualcosa dell’una che manca e che gioverebbe all’altra?
MW: Bella domanda. Dalla scuola americana bisognerebbe prendere il grande respiro, l’idea della musica sinfonica. Purtroppo nei film italiani, che sono spesso incentrati sul microcosmo quotidiano, non può esserci musica di grande respiro.
La musica italiana potrebbe dare l’intimità e l’artigianato, il fare un po’ tutto da soli senza ricorrere ai mezzi della grande industria americana (che propone almeno due orchestratori, l’assistente musicale, un supervisore alle musiche e via dicendo). Con i grandi mezzi l’italiano riesce a fare grandi cose perché è abituato a cavarsela con poco.

CS: Quali sono i suoi prossimi progetti?
MW: Per il  prossimo lavoro, Il caso Gentile di Ugo Frosi, scriverò un breve requiem per coro e orchestra che mi permetterà di coniugare una musica di grande respiro con elementi melodici intimisti e minimalisti.

 

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