Steven Spielberg & John Williams: 40 anni di un grande sodalizio!

foto_williams_spielberg_anniversario.jpgSteven Spielberg & John Williams: 40 anni di un grande sodalizio

L’8 febbraio prossimo John Towner Williams, newyorkese, compirà 80 anni. Ne ha trascorsi quasi la metà in stretto sodalizio con Steven Allan Spielberg, di Cincinnati, che è più giovane di lui di quasi un quindicennio: insieme hanno lavorato a ventisei lungometraggi, da Sugarland Express (1974) all’imminente Lincoln, in fase di ultimazione e la cui uscita è prevista per la fine del 2012. Un tandem che si è fermato solo in occasione di Il colore viola, nel 1985, la cui impostazione all-black ha suggerito a Spielberg l’utilizzo del grande jazzista afroamericano Quincy Jones.
Quanto dire, insomma, che da quarant’anni splende, nella storia del cinema e della sua musica, la collaborazione più lunga, esclusiva e fruttuosa che si sia mai verificata: collaborazione che lega il compositore americano più emblematico, rappresentativo e poliedrico a cavallo tra due secoli di Hollywood, e il cineasta che più e meglio di ogni altro ha saputo coniugare uno statuto indiscutibilmente autoriale (se pur altalenante negli esiti) con un’imperiosa serie di successi commerciali ed una popolarità sconosciute a qualsiasi suo collega.

L’arida elencazione dei dati biografici, delle cifre filmografiche, serve, nella sua oggettività, a rendersi ancora meglio conto delle caratteristiche uniche di questo rapporto, all’interno del quale Williams ha avuto nei decenni il modo di affermarsi come il più grande compositore vivente non solo del cinema hollywoodiano ma probabilmente dell’intera nostra contemporaneità. Un risultato raggiunto non solo attraverso l’imponente corpus delle partiture spielberghiane ma – varrà appena la pena di ricordarlo – attraverso numerosi lavori di musica extracinematografica, prettamente concertistica, ed un intero lunghissimo e frastagliato percorso che ha compreso anche la monumentale, wagneriana impresa della saga di Star Wars e capolavori come – tra gli altri - Superman, Fury, Dracula, JFK, Harry Potter, Memorie di una geisha, ma unitamente a questi anche straordinari excursus nel camerismo più intimista, minimalista e rarefatto come Lettere d’amore, Presunto innocente, Turista per caso, Missouri e molti altri.

Il prorompere quasi simultaneo sullo schermo (e nella musica per film) delle due recenti partiture per Le avventure di Tintin – Il segreto dell’unicorno e War Horse, conferma – ove ce ne fosse ulteriore necessità – le caratteristiche assolutamente uniche di questo matrimonio artistico (che nei decenni è divenuto anche, ovviamente, indissolubile rapporto personale). E ci offre l’occasione per ribadire una prima constatazione, un primo punto fermo ricorrente nella storia di questa collaborazione, che ne costituisce anche uno dei tratti artistici salienti: l’estrema ecletticità, la capacità di lavorare contemporaneamente sui registri espressivi, tecnici, strumentali, poetici più diversi se non antitetici (su film, ovviamente, altrettanto antipodici) raggiungendo in entrambe le direzioni e simultaneamente risultati di livello stupefacentemente alto. Il doppio caso più recente (un fantasy-avventuroso in motion capture tratto da un fumetto vintage in cui molti videro l’antesignano di Indiana Jones, e un dramma psicologico e storico al cui centro svetta il rapporto strettissimo tra un ragazzo e il suo cavallo sullo sfondo della Grande Guerra) non fa che sottolineare ancora una volta, attraverso le sue partiture, questa funambolica capacità di Williams nell’attingere a fonti e atmosfere diverse: dal dinamismo spigoloso, autoironico, adrenalinico e quasi protostravinskyano di Tintin, al sinfonismo paesaggistico, europeizzante, lirico, solare e struggente di War Horse. Conosciamo bene questi tratti distintivi del comporre williamsiano sia al servizio di Spielberg che di altri autori, la duttilità di quello che è stato chiamato il suo “politonalismo romantico”, la sua dimestichezza anche – all’occorrenza – con i canoni dell’avanguardia storica, l’infinita gamma di risorse orchestrali cui egli sa attingere unitamente ad un rigoglio leitmotivico e melodico che lascia ogni volta stupefatti, E ritroviamo, in questo aspetto, un requisito ricorrente della cooperazione tra i due artisti. Non è infatti la prima volta che Spielberg lavora pressochè in contemporanea a progetti diversissimi per argomento, stile e target di pubblico (pagando su questo a volte prezzi anche molto alti in termini di gradimento e di accoglienza critica), e di conseguenza non è la prima volta che Williams, il quale alla poetica e alle procedure creative spielberghiane aderisce ormai come una seconda pelle, lo segue strettamente con partiture altrettanto sorprendentemente modulate su registri radicalmente diversi.
Ricorderemo solo altre tre circostanze, con altrettanti significativi esempi: l’immenso, dolente racconto sulla Shoah di Schindler’s List, con uno score trasudante pietas e meticoloso lavoro sulla musica ebraica, girato praticamente durante la postproduzione del kolossal Jurassic Park, che è uno dei più squillanti forzieri musicali, in termini di colorismo e di fluire tematico, di Williams (1993); quattro anni dopo, il sequel di quest’ultimo Il mondo perduto, nuovo florilegio d’invenzioni sostanzialmente basate sul materiale del primo film ma arricchite da una strumentazione se possibile ancora più scatenata e fantasiosa, e Amistad, vibrante ricostruzione storico-libertaria, abolizionista e fortemente politica, nei quasi neonati Stati Uniti d’America, con uno score completamente “interno” all’epoca scelta (prima metà dell’Ottocento), ricco di suggestioni e scelte legate al patrimonio musicale africano; e infine, nel 2005, La guerra dei mondi, forse uno dei punti di caduta massima del cinema spielberghiano, stimolò in Williams una partitura aggressivamente sperimentale, moderna, con punte horror di radicalismo sonoro, così come il problematico, conflittuale Munich gli ispirò invece una musica severa e composta, di accasciato dolore, luttuosa e cupa, nuovamente di intenso sapore ebraico e foto_spielberg_williams_archivio.jpgintessuta di interventi asciutti, fortemente legati al travaglio dei personaggi.
Quest’ultima constatazione induce ad un ulteriore elemento di riflessione nell’analisi del rapporto Spielberg-Williams: ed è una riflessione che si connette strettamente alla natura stessa, ai ritmi interni della filmografia del regista di E.T. e Hook. Questa filmografia infatti non rappresenta assolutamente un percorso omogeneo e coerente sia dal punto di vista strettamente qualitativo che degli esiti commerciali: è viceversa un itinerario fatto di alti e bassi, di “incontri ravvicinati” tra successi al box office senza precedenti e fiaschi clamorosi, di pubblico e di critica, in un’altalena spesso vertiginosa tra film high-budget ma di nessun (o scarso) riscontro ai botteghini e capolavori di sintesi fra intrattenimento e raffinatezza di linguaggio. Uno iato che negli ultimi anni si è andato purtroppo livellando verso il basso, spingendo appunto il 66enne regista verso una deriva nostalgica e retrò che lo storicizza come punto di riferimento “mitologico” e produttivo più che ribadirne un ruolo attivo e innovativo nel panorama autoriale della postmodernità.

Ecco che allora inoltrarsi nell’infinita gallery di invenzioni e architetture musicali che Williams ha costruito, lungo un quarantennio, per l’immaginario spielberghiano ci permette anche di constatare la stimolante contraddizione spesso esistente fra esito cinematografico ed esito musicale: ovvero come Williams sia andato, a volte, ben più oltre Spielberg, rimanendo comunque sempre “organico” alla committenza ricevuta, ma eccedendo di gran lunga nei risultati il semplicismo spesso infantilistico o meramente nostalgico del regista (si pensi, per non fare che un solo esempio, a Indiana Jones e il regno del Teschio di cristallo) con le mostruose, inesauribili complessità e risorse della propria musica.
Ci par già di sentire gli strilli di protesta dei puristi della musica “applicata”, il mantra degli accigliati guardiani della coerenza suono-immagine, i rimbrotti dei riottosi teorici della “musica che deve scomparire nel film”, e le loro recriminazioni sul fatto che, così facendo, Williams “tradirebbe” il compito assegnatogli ponendosi al di sopra dell’immagine cinematografica e falsandone la reale entità (buona o cattiva, sublime o mediocre che essa sia), con un linguaggio sovrapposto e sovraesposto, che di fatto distrae lo spettatore-ascoltatore e snatura l’essenza medesima del prodotto-film nella sua interezza. A costoro, pur rischiando di essere un po’ sbrigativi, ci permetteremmo di rispondere semplicemente: e allora?
Non essendo mai stati cultori né teorici della Sacra-Indissolubilità-Della-Musica-Dalle-Immagini-Per-Cui-E’-Stata-Concepita non nutriamo alcuna perplessità nell’ammettere che, in migliaia di casi, film mediocri si avvalgono di partiture musicali leggendarie e da tramandare: di qui l’insopprimibile preziosità del documento discografico (non a caso malvisto dai soloni di cui sopra), che consente la gioia dell’ascolto puro svincolato dalla visione filmica, e di qui anche, nel caso Williams-Spielberg, la possibilità di analizzare liberamente uno sterminato patrimonio di invenzioni, temi, soluzioni, atmosfere, orchestrazioni, opzioni espressive, che rimarranno nella storia della musica (ci consentiamo qui di omettere la delimitazione “per film”…) magari in qualche caso anche oltre l’opera cinematografica di destinazione.

Spielberg e WilliamsNe consegue un dato di fatto fondamentale, per chiunque si accinga a studiare nel tempo l’ormai più che semisecolare opus complessivo williamsiano: spesso le sue partiture per i film spielberghiani di minor successo (sia questo dovuto ad un’effettiva mediocrità dei film, e potremmo citare The Terminal; oppure ad una clamorosa sottovalutazione da parte di pubblico e critica, e pensiamo al funambolico 1941 o al malinconico e mai ben compreso Always – Per sempre) possiedono caratteristiche di qualità e originalità che le pongono qualche scalino sopra altri score, sicuramente più celebri ma oberati da un certo effetto di ridondanza, magari per film di conclamato trionfo: e il pensiero non può non andare, in questo caso, alla sia pur irrinunciabile saga di Indiana Jones. Ciò non per dire che la partitura di Prova a prendermi sia oggettivamente più entusiasmante o musicologicamente stimolante di quella di I predatori dell’arca perduta, o che i labirinti di tensione e di suspense musicale di Minority report ci avvincano maggiormente delle struggenti campiture sinfoniche di E.T.; o che gli echi lirici di un dolore collettivo e incolmabile che promanano dagli assoli piangenti di Itzhak Perlman in Schindler’s List non ci catturino l’anima più dei tormentosi, pulsanti e peroranti percorsi sonori di Munich (e citiamo non a caso due film dove la condizione ebraica, centrale per Spielberg ebreo di terza generazione, è fondamentale). No, ciò che vogliamo dire è che se in due film poniamo come Incontri ravvicinati del terzo tipo o E.T. la coerenza fra gli esiti sommi delle sintesi musicali williamsiane e la felicità fanciullesca del regista-bambino Spielberg nel volgere lo sguardo al cielo è quasi immediata, spontaneistica, tradotta in un fluire leitmotivico (più aspro e moderno nel primo caso, più squisitamente ottocentesco, da vero tondichtung, poema sinfonico di stampo straussiano nel secondo), molto più complicato è interessante seguire i percorsi creativi di Williams in film meno lineari e dalla struttura più accidentata, anche per i diversi elementi di generi messi in campo (fantasy, horror, melò, thriller), come Hook – Capitan Uncino, Minority report (che per inciso riteniamo uno degli score in assoluto più alti di tutto il sodalizio, per pathos espressivo e travolgente intensità strumentale), Prova a prendermi e lo stesso Tintin.

Sintetizzando forse oltre il lecito, potremmo allora affermare che mai, ad un insuccesso commerciale di Spielberg, è corrisposto un insuccesso qualitativo di Williams: in quei casi – e come non tornare col pensiero alla Guerra dei mondi? – la sua musica si è staccata dal contesto, e il suo ascolto “puro” ha oggi l’effetto di proporsi come una sovrastruttura semantica della quale, se ci è chiara l’origine committente, ci rimane meravigliosamente misteriosa la destinazione interna, così lontana dalla prima. 
Se queste considerazioni valgono come cornice generale e, per il rapporto Williams-Spielberg, più che per qualunque altro sodalizio compositore-regista nella storia del cinema (ciò in ragione della durata nel tempo e della quantità di titoli di primo piano cui esso ha dato vita), quel che occorre successivamente annotare è la continuità stilistica e creativa del comporre williamsiano per il regista, soprattutto  (non esclusivamente, come si è visto) nelle occasioni di maggior respiro e richiamo. Per continuità non intendiamo, va da sé, omogeneità o ripetitività: a rendere grande questo tandem è proprio, come osservavamo all’inizio, la flessibilità con cui il maestro americano si adatta e adatta la propria fluviale ispirazione alle ambientazioni, ai climi, ai ritmi dei differenti contesti del cinema spielberghiano, magari all’interno anche di un percorso unitario ma concepito a tappe. Pensiamo ancora una volta al ciclo di Indiana Jones e alla sua straordinaria diversificazione musicale nei quattro capitoli, coesi dalla folgorante, nervosa e penetrante marcia delle trombe sul sincopato degli ottoni che – insieme ai titoli di Star Wars e a quelli di Superman – è probabilmente diventata una delle pagine musicali più simboliche e rappresentative dell’America moderna, quasi una sorta di inno nazionale alternativo. Ebbene proprio in questa serie si può apprezzare la varietà cangiante degli stilemi williamsiani pur in un contesto narrativo unico ed autoreferenziale: i toni mistici, misteriosi, di perturbante liquescenza sonora dei Predatori, l’eclettismo multietnico e la brillantezza sofisticata, umoristica del Tempio maledetto, il sinfonismo politonale e incalzante, quasi soffocante dell’Ultima crociata e l’aggressività armonica, la strumentazione tellurica del Teschio di cristallo. Evoluzioni, progressioni successive di uno stile in continuo movimento che, negli anni e nei decenni, ha creato autentici universi musicali paralleli all’interno dell’immaginario di un cineasta-principe della mitologia postmoderna.
La differenza che intercorre fra la brutale, quasi barbarica asciuttezza degli accordi de Lo squalo e alcune sequenze de Il mondo perduto, o tra la solenne, imperiosa nobiltà dei due temi portanti di Jurassic Park e quel monumento al dolore per i caduti di ogni guerra che è il corale di Salvate il soldato Ryan, è una differenza di mezzi, non di metodo. E la demenziale vena parodistica che ribolle in 1941, a cominciare dalla marcia portante, epitome beffarda di tutte le marce militari yankee, non è che l’antesignana della “lievità” mozartiana, sfuggente e follettistica, che anima la strumentazione quasi raveliana, trasparente di score come Prova e prendermi o Tintin. Così come gli smisurati orizzonti epici di un bildungsroman come L’impero del sole, sforzo tra i più grandi di Williams in termini di restituzione musicale di un intero travaglio storico e individuale, sono molto prossimi all’elegia sull’innocenza perduta, sulla disperata ricerca di un porto affettivo e sulla nostra ansia di eternità di cui sono intrisi i meravigliosi temi di A.I..

Spielberg e Williams al pianoforte

Nel 1974, quando Williams iniziava la propria collaborazione con il giovane autore di Sugarland Express (partitura giovanilistica e on-the-road, sapientemente modulata su canoni della musica americana popolare), il compositore aveva appena statuito il proprio identikit di musicista “kolossal-catastrofico” con due disaster movies acclamati al box-office quali L’inferno di cristallo e Terremoto: alle spalle aveva già prove incredibilmente varie e innovative, come il brillantissimo Come rubare un milione di dollari e vivere felici, il western sui generis I cowboys e soprattutto il fulminante manifesto di avanguardia di Images, per percussioni ed elettronica. E di lì a un triennio sarebbe iniziata la titanica impresa di Star Wars, progetto che implica opzioni leitmotiviche e metodologie assolutamente wagneriane nel raccordo – anche a distanza di tempo – dei temi, dei personaggi, dei rapporti (ma accade lo stesso nella saga di Indiana Jones, allorché nel Teschio di cristallo Williams recupera il tema di Marion che avevamo lasciato 27 anni prima nei Predatori!).
Il rapporto con Steven Spielberg, dunque, nasce e si consolida per Williams all’interno di una carriera tutta in salita, e lo accompagna sino ai giorni nostri come rapporto privilegiato ma coerente con una produttività e una fertilità creativa delle quali esso è solo una parte, per quanto nobile e fondativa. Partiture come Tintin, War Horse e – sicuramente – il prossimo Lincoln, attestano che al di là del trascorrere del tempo (una variabile molto fluida, come si sa, nell’immaginario spielberghiano) fra i due artisti si è stabilito un comune sentire che innesca nel compositore una torrenziale vena ispirativa e una irripetibile originalità e riconoscibilità stilistiche, sia in temi d’invenzioni melodiche (Tintin e War Horse ne traboccano), che di vulcanica irrequietezza strumentale: come abbiamo visto anche, forse soprattutto, quando si tratta di lavorare contemporaneamente su più piani. Ed è questo che spiega, ancora oggi, la solare, genuina sorpresa, la filiale gratitudine che caratterizzano lo stato d’animo di Spielberg di fronte alle partiture williamsiane, e che il regista spesso esterna nelle note di proprio pugno affidate ai booklet accompagnatori dei relativi cd: come un bambino che, divenuto ormai uomo molto maturo, sembra quasi stupirsi che un adulto tanto più anziano di lui possa ancora dimostrarsi, in fondo, più fanciullo di lui.

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