“Incontri Ravvicinati: John Williams & Steven Spielberg”

“Incontri Ravvicinati: John Williams & Steven Spielberg”
Reportage appassionato di un nostro lettore che ha assistito al concerto romano di questa Estate dedicato ad uno dei più grandi sodalizi cinemusicali della Storia del Cinema

Il 28 luglio, presso l’Auditorium Parco della Musica di Roma, si è tenuto il concerto per immagini e orchestra “Incontri Ravvicinati: Spielberg & Williams” per omaggiare il sodalizio ultraquarantennale tra il regista Steven Spielberg (4 premi Oscar di cui uno alla memoria - Irving G. Thalberg Memorial Award - su 11 nomination) e il suo compositore di fiducia John Williams (5 premi Oscar su 50 nomination), i quali assieme hanno realizzato alcuni dei capolavori cinematografici più importanti di sempre e che torneranno ad ammaliare il pubblico italiano con l’uscita nelle sale della pellicola Il Grande Gigante Gentile il 1° gennaio 2017, già presente nei circuiti cinematografici statunitensi e presentato fuori concorso al Festival di Cannes il 14 maggio 2016.

Il programma presentato è stato denso e ricco e diretto da Frank Strobel, direttore artistico del The European Film Philarmonic Institute di Berlino e direttore d’orchestra tedesco specializzatosi in musica da film: famoso per la ricostruzione del commento musicale a opera di Gottfried Huppertz per la pellicola Metropolis (1927) di Fritz Lang alla guida della Rundfunk-Sinfonieorchester Berlin, qui ha fatto il suo debutto con l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Il pubblico gremito e di tutte le età, affiancato alla passione che gli orchestrali hanno profuso nell’esecuzione delle musiche iconiche del maestro newyorchese, classe 1932, formatosi alla Juilliard School, dimostrano quanto questa tipologia di prodotto musicale, in Italia quanto nel resto del mondo, non sia più relegato alle nicchie di estimatori occasionali, ma a un pubblico sempre più vasto che ne riconosce e apprezza all’unanimità l’intrinseco valore artistico, senza contare l’entrata di numerosi brani del Maestro nel repertorio di orchestre rinomate a livello mondiale, come la London Symphony e la Boston Pops.
La scena si apre con un maxischermo su cui campeggia una fotografia della coppia di amici al lavoro durante la produzione di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), mentre dai corni rieccheggiano le note introduttive del Tema di Jurassic Park (1993), che avvolge e trasporta lo spettatore alla scoperta di un parco a tema in cui l’ingegneria genetica più sfrenata ha portato alla clonazione dei dinosauri, senza tener conto del disastro imminente cui porterà quest’azione sconsiderata.
I bassi di un pianoforte rutilante accompagnano due note suonate da violoncelli e contrabbassi e immediatamente gli spettatori vengono colti da un brivido: è l’incipit del Tema di Lo Squalo (1975) che, partendo da un inciso che ricorda l’inizio dell’”Allegro con fuoco” dalla “Sinfonia n° 9” “Dal Nuovo Mondo” di Dvořák, si sviluppa in un crescendo dagli echi primordiali e dissonanti che, egregiamente interpretato dagli ottoni e dalle percussioni, riprende gli elementi dello Stravinskij più fauvista (La Sagra della Primavera) mentre sullo schermo una folla di bagnanti impazziti per il terrore tenta una fuga miracolosa dalle acque dell’oceano verso la spiaggia. Ma questo non è l’unico pezzo estratto dal capolavoro campione d’incasso dell’estate 1975 che consacrò John Williams all’Olimpo dei compositori cinemusicali con il suo primo Premio Oscar vinto per un’opera originale (quello ricevuto nel 1972 è per il rimaneggiamento del musical Il violinista sul tetto): a esso infatti si accompagna “Out to Sea & The Shark Cage Fugue”, una suite che descrive la caccia al mostro marino intrapreso dai tre protagonisti interpretati da Richard Dreyfuss, Roy Scheider e Robert Shaw e tracciato da un primo ensemble di archi pizzicati, celesta, arpa, vibrafono, ottavino e campane di matrice dukasiana e prokofeviana, a cui si unisce tutta l’orchestra al momento della resa dei conti, con una serie di tritoni e glissandi ascendenti volti ad accrescere il senso di sgomento e suspense.



Quello proposto per il film War Horse (2011) è il brano “Dartmoor, 1912” che, assieme al “Finale”, costituisce un’elegia dedicata alla Gran Bretagna pre e post Prima Guerra Mondiale, ispirata a Williams dai paesaggi descritti dal poeta inglese romantico William Wordsworth nelle sue liriche: gli assoli di flauto si uniscono alla morbidezza degli archi e, su questa combinazione, si innestano ostinati di violoncelli e contrabbassi seguiti da stacchi di ottoni che portano a un tema estatico rappresentato dall’orchestra nel suo complesso e chiuso da un assolo di pianoforte dal sapore agrodolce. Il tutto accompagna le (dis)avventure del giovane Albert Narracot e del suo puledro Joy, venduto dal padre del ragazzo all’esercito britannico per poter tirare avanti la fattoria durante l’inverno.
Ancora una triste pagina di Storia, questa volta legata all’Olocausto: immancabile è l’appuntamento con Schindler’s List (1993), un tour de force emozionale che, accompagnato dalla sensazionale fotografia di Janusz Kaminski (suo il primo Oscar vinto proprio per questo film) scandaglia a fondo l’anima dell’uomo per tirar fuori un’amarezza che non porta ad alcun pianto, ma a una fredda riflessione da pelle d’oca sugli orrori che il genere umano ha compiuto nel corso dei secoli e che, ahimé, continua a protrarre con indicibile ferocia. Carlo Maria Parazzoli, primo violino dell’orchestra che qui interpreta gli interventi solisti dello strumento, non ha nulla da invidiare all’esecuzione storica di Itzhak Perlman, violinista di fama internazionale e assiduo collaboratore di Williams (secondo forse solo al trombettista Tim Morrison): la carica emotiva è qui perfettamente trasmessa attraverso un’esecuzione straziante e carica di sofferenza del Tema e del brano “Jewish Town (Krakow Ghetto – Winter 1941)”, entrambi di chiara matrice ebraica e carichi di riferimenti alla tradizione musical-popolare dell’Europa dell’Est.
La prima parte del concerto si chiude con una suite dedicata al più celebre degli archeologi della storia del cinema, quell’Indiana Jones il cui celeberrimo e magniloquente leitmotiv di taglio wagneriano è diventato vero e proprio sinonimo di avventura a partire dal primo titolo della serie, I Predatori dell’Arca Perduta (1981); ma anziché optare per la classica scelta di eseguire una sequenza dedicata a tutti e quattro i film che la compongono (per il 2019 è prevista l’uscita del quinto capitolo), Frank Strobel ha avuto l’originale, seppur discutibile, idea di fondare l’intera suite esclusivamente sul quarto episodio, Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo (2008), triste episodio nella carriera di Spielberg perché, oltre a essere stato poco apprezzato dai fan e dalla critica, ha portato nel 2009 alla rottura del regista con la casa di produzione Paramount a favore della compagnia indiana di Bollywood Reliance ADA Group. Ed ecco che i brani “The Adventures of Mutt”, “The Crystal Spell” e “A Whirl through Academe” accompagnano le peripezie spericolate dell’affascinante avventuriero mai come mero mickeymousing, bensì come ragionata e irriverente costruzione architettonica in cui la musica ha un carattere prettamente autoironico e sfacciato. A chiudere, l’inevitabile “The Raiders March” di cui si è già parlato e il cui apprezzamento da parte del pubblico è confermato da scrosci di applausi e brevi grida di ovazione.
Spielberg è un eterno fanciullo e il motto “Sogno per vivere” è l’idea di fondo su cui si basa ogni suo film. E il sogno sospeso con il mondo reale in bilico sull’orlo della fantasia più innocente è il tema che impermea il fiabesco Hook: Capitan Uncino (1991), dedicato al mito sempre attuale del Bambino-Che-Non-Vuole-Crescere-Mai, il Peter Pan inventato dalla fervida immaginazione dello scrittore scozzese James Matthew Barrie e qui ormai diventato adulto, un avvocato di una società assicurativa (un talentuoso Robin Williams che purtroppo non potremo mai più rivedere) che ha dimenticato gli anni dell’infanzia trascorsi sull’Isola-Che-Non-C’è. “Flight to Neverland” è un brano travolgente; con un impianto molto simile ai commenti dei balletti russi che hanno fatto la fortuna del Teatro Bol’šoj di Mosca durante il Romanticismo e i primi anni del XX Secolo, alterna momenti di elevata ricchezza timbrica a episodi di dolce languore nostalgico.
In La Guerra dei Mondi (2005), basato sull’omonimo romanzo di H.G. Wells che narra, appunto, di una guerra tra i marziani e gli abitanti del pianeta Terra, Williams ha adottato un linguaggio decisamente modernista che, oltre a essere debitore delle opere di Stravinskij (soprattutto per l’abile orchestrazione percussionistica), lo è particolarmente del “Requiem” di György Ligeti e della “Trenodia per le vittime di Hiroshima” di Krzysztof Penderecki. Grande merito va a Strobel per la coraggiosa scelta di questa partitura, la cui suite, costituita da sezioni estratte dai brani “The Confrontation with Ogilvy”, “The Intersection Scene”, “Reaching the Country” e “The Reunion”, non è certo di facile ascolto per chi non abbia mai affrontato quest’opera per poi averne dimestichezza dopo diversi ascolti. Infatti sono pochi o quasi assenti i temi iconici presenti in questo commento: a essi prendono posto atonalità graffianti, spigolosità timbriche e straniamento tematico a cui si alternano momenti introspettivi, ma di certo non meno angoscianti. Non a caso questo è stato il brano meno apprezzato della serata da parte dei più, ma al contrario elogiato da chi aveva paura che l’orchestra non riuscisse ad affrontare l’interpretazione con la giusta determinazione, muscolarità e freddezza che tale composizione richiede.
Ancora alieni in Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), questa volta tuttavia in un contatto decisamente pacifico dove la musica fa da legante tra le due razze e crea un’atmosfera rarefatta su cui spicca il tema costituito da cinque note che diviene parafrasi della parola inglese Hello (Ciao), Sol(4) - La(4) - Fa(4) - Fa(3) - Do(4), riprodotte nel finale nella tonalità di Do Maggiore: Re(4) - Mi(4) - Do(4) - Do(3) - Sol(3).
“Viktor’s Tale”, leitmotiv della commedia dell’assurdo The Terminal (2004), è forse il brano più americano del programma; in un connubio tra il Gershwin più jazzista e la tradizione yiddish, le traversie del rifugiato della Krakozhia (stato immaginario creatosi dallo sfaldamento dell’U.R.S.S.) Viktor Navorski, internato nell’aeroporto John F. Kennedy di New York e alla ricerca esasperata di un visto che gli consenta l’accesso agli Stati Uniti ma che sembra non arrivare mai (Aspettando Godot vi dice niente?), è perfettamente rappresentato dalle melodie sinuose del clarinetto solista, la cui interpretazione di Simone Sirugo è magistrale, come lo dimostra l’apprezzamento del pubblico, ancora una volta protagonista della serata.
Degna conclusione del concerto è la suite “Adventures on Earth”, tratta dal celeberrimo film E.T. l’Extra-Terrestre (1982): il tormentoso tentativo da parte del piccolo Elliot di ricongiungere il tenero alieno all’astronave che l’ha abbandonato involontariamente sulla Terra è un inno alla poetica del fanciullino di pascoliana memoria, in procinto di raffrontarsi con lo spietato mondo degli adulti e l’atroce idea della morte incombente. In un susseguirsi in crescendo di tonalità gioiose alternate a momenti di pathos adrenalinico, ecco finalmente la spettacolare sequenza della bicicletta volante incontro alla luna, commentata da un “Flying Theme” emozionante e sensazionale, che porta alla chiusura su un arcobaleno che accompagna il volo dell’astronave al momento del recupero di E.T. e a un finale trionfale degno debitore del sinfonismo di Šostakovič.



Ma le vere sorprese del concerto sono i fuoriprogramma.
Il primo, “A Prayer for Peace”, è tratto dal film Munich (2005), basato sugli attentati delle Olimpiadi di Monaco del 1972: dagli annuendo di Strobel, si comprende come questa è la prova di quanto il concerto sia stato concepito su un impianto propenso alla riflessione sulla questione politico-sociale in cui versa il mondo al momento: War Horse sull’incubo di una guerra imminente, Schindler’s List sulle atrocità condotte nei confronti delle minoranze, La Guerra dei Mondi sul sospetto di un terrorismo insabbiato in ogni città del pianeta, Incontri ravvicinati del terzo tipo ed E.T. l’Extra-Terrestre sull’accettazione interculturale del diverso, The Terminal sulla perdita dell’individualità dell’uomo contemporaneo e infine Munich come preghiera per un mondo migliore.
Il secondo fuoriprogramma che ha definitivamente chiuso la serata e sancito Strobel come uno dei migliori direttori degli ultimi tempi è l’inaspettato quanto eroico Tema dai titoli di testa di Star Wars, al cui inizio il pubblico è esploso in cori da stadio. Il motivo della presenza del brano è subito spiegato: Spielberg è un grande amico di George Lucas, il regista dell’epica space-opera, e fu proprio lui a proporgli John Williams come compositore della colonna sonora. Una scelta che ha riscontrato enorme successo sin dal lontano 1977 e ha portato alla nascita di un’opera dalle ricche valenze simboliche che ricalca il mito wagneriano di Sigfrido e dei Nibelunghi eguagliando e forse superando la dicotomia bene-male presente nelle opere di J.R.R. Tolkien. Tra richiami a Korngold e alla suite “I Pianeti” di Gustav Holst, Strobel è riuscito a catturare tutta l’attenzione del pubblico e trasportarlo nei meandri di una galassia lontana lontana che, forse, tanto lontana non è.
È terminato così quest’eccezionale simposio, con applausi scroscianti e una gigantografia del maestro Williams che osserva il pubblico dall’alto della sua veneranda età di 84 anni, ancora capace di sorprendere e pieno di voglia di continuare a mettersi alla prova per “essere capace di meritarsi tutto questo”, come ha affermato durante il ritiro del premio AFI alla carriera, forse il massimo riconoscimento per un personaggio del cinema americano e consegnato per la prima volta in assoluto a un compositore. Di certo, secondo il nostro parere, è meritevole di tutto il successo che la Vita gli ha donato.

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