Addio Bruno Canfora

Addio Bruno Canfora

Bruno Canfora, spentosi a 92 anni nella sua casa in Umbria, è stata una di quelle miracolose figure di direttori d'orchestra-arrangiatori-compositori-intrattenitori fiorite nella RAI degli anni '60 e ai quali si devono non solo alcune delle più belle e/o popolari canzoni del periodo, ma anche un'intensissima attività di divulgazione di quel tipo di musica che allora si chiamava "easy listening" ma che oggi, rispetto alla media corrente, sembra Bach o Puccini. Canfora poi, milanese di nascita, era anche uno showman, una presenza fisica spiritosa e duttile, autoironica e conversevole, dietro i baffoni e gli occhiali spessi, come lo erano i suoi colleghi Pino Calvi, pianista sublime, Enrico Simonetti, umorista geniale, Gianni Ferrio, dall'aplomb quasi british, e pochi altri.

Lo si ricorda presenza stabile in capisaldi del varietà televisivo d'antan come Studio Uno, Canzonissima, Sabato Sera, e innumerevoli Sanremo: celebre soprattutto per aver inventato tiritere virali (ma al tempo non si diceva così) come il "Dadaumpa" delle Kessler o il "Zum zum zum" della Carrà, gli si devono anche, tra le tantissime altre, quel pirotecnico esercizio di virtuosismo vocale che è "Brava", scritto per Mina, ma soprattutto due tra le più belle e struggenti canzoni italiane di sempre: "Vorrei che fosse amore", ancora per Mina, e " Fortissimo", per Rita Pavone. Come per Ferrio e Simonetti, anche per Canfora il contributo al cinema è stato limitato, circoscritto a generi popolari (pepla, musicarelli, farse parodistiche) e spesso a produzioni di serie B, in anni nei quali il campo era presidiato - oltre che dall'irresistibile ascesa morriconiana - da figure protagonistiche come Ortolani, Trovajoli, Piccioni e altri. Tuttavia, fra un Ultimo dei Mohicani e un James Tont, un Trucido e lo sbirro e un Super agente Flit, una Rita la zanzara e Le sedicenni, Canfora ci lascia almeno una partitura di assoluto rilievo, per La regina dei tartari (1960, Sergio Grieco): un drammone avventuroso in costume interpretato dalla cubana Chelo Alonso, avvenente e indiscussa star del sottogenere, per il quale il compositore poté attingere a tutta la propria cultura e perizia orchestrale in uno score fantasioso e corrusco, in parte debitore alla lezione del grande Lavagnino. Nel congedarci da lui oggi, più che abbandonarci al sentimento sempre improduttivo e spesso disdicevole della nostalgia, converrà salutare un protagonista assoluto della musica di consumo italiana, nonché di una stagione dell'intrattenimento che sapeva coniugare sapientemente leggerezza e professionalità, ironia e malinconia, immediatezza e raffinatezza.

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