Hostel

cover_hostel.jpgNathan Barr
Hostel (id. - 2006)
Colosseum VSD (CVS) 6710
23 brani - Durata: 42´56"

 


L´ennesima collaborazione tra il regista Eli Roth e il musicista Nathan Barr vanta un commento sonoro di rara bellezza. Hostel è una geniale partitura sinfonica dalle pagine dinamiche e ricche di contrasti. Lungo il disco Barr si dimostra abile cesellatore d’armonie e maestro del contrappunto: ostinati e frenetici movimenti degli archi "alla Giacchino", imponenti declamazioni degli ottoni, glissando d’arpa e percussioni da bucare i diffusori convergono in una corsa sinfonica mozzafiato. Il tono generale della partitura è perlopiù cupo e oscuro sebbene nella prima parte siano presenti alcuni momenti più solari: una pagina dal gusto hermanniano, un momento epico, l’atmosfera sospesa di un tema vocale e un breve frangente brioso. Costruito su un buon impianto tematico, lo score di Barr per Hostel è un’opera magistrale, un capolavoro di action scoring: un piatto sinfonico che non si finisce più di gustare!

 

Hostel, il crudo ed eccessivo slasher movie di Eli Roth, offre l’occasione di scoprire il vigoroso talento sinfonico di Nathan Barr, compositore pressochè esordiente. Barr dichiara subito (nelle note del disco) la sua sincera devozione per due grandi del passato, Bernard Herrmann e Georges Delerue (i musicisti di Truffaut, per dirla tutta). E poi, data l’ambientazione mitteleuropea del film (Praga, Bratislava), riconosce di aver voluto rifarsi ad una grande pagina musicale ispirata a quelle regioni, il Ma Vlast di Smetana. Il giovane autore è di una sincerità disarmante. Le sue fonti ispiratrici sono limitate a questo perimetro (quasi del tutto. Qua e là gli scappano non annunciati rimandi al Williams atonale di Incontri ravvicinati e Lo squalo), e sono presenti in misura lieve e controllata (la Moldava di Smetana, ad esempio, affiora in appena una manciata di accordi all’inizio del brano più solare del disco, “The Village”). Di questi tempi, una simile condotta è a dir poco virtuosa.
Ma non basta. Pur dovendo plasmare musiche adatte a umidi mattatoi sotterranei, a trapani che trivellano carni umane, a fughe disperate tra cadaveri dissanguati e arti mozzati, Barr non si cerca un comodo rifugio negli ormai abusati stereotipi del genere (dissonanze dissennate e altri clangori in libertà). Intendiamoci. Il cinema horror esige che vengano esplorati e stressati gli angoli più tenebrosi dell’orchestra sinfonica. Da questo non si scappa. Quindi anche in quest’opera le atmosfere sono ruggenti, claustrofobiche, folli e i lodevoli intenti melodici cui l’autore non rinuncia, sono destinati, prima o poi, a sbrindellarsi in cellule esplosive e caotiche. Ma anche se deve necessariamente percorrere i sentieri tracciati dai pionieri di questo genere (Goldsmith, Corigliano, Goldenthal, Young), il giovane Barr si costruisce oasi di inquietudine tutte personali, e non priva mai il testo di una precisa identità emotiva, basata su di un pur sottile ed evanescente fil rouge tonale. Gli accordi tenebrosi, le disperate meditazioni degli archi, le battute ghignanti del pianoforte (“Far from Home”, “Gallery”) preludono e intervallano percorsi ad ostacoli di insana virulenza (in “Achilles”, per una delle scene più vomitevoli della pellicola, o nella conclusione rabbiosa di “Mr. Serious American”, dove il suono orchestrale esplode come un bubbone, con urla furibonde di ottoni e colpi di gong). Più ci si addentra nella partitura, più le lucenti pagine iniziali sono un ricordo lontano: lo testimonia, a metà percorso, la malinconica apertura degli archi in “Dreams”, presto corrotta da nuove declamazioni degli ottoni. La fase conclusiva del disco segue con lucida trasparenza le corse disperate del giovane protagonista, alla ricerca di un’improbabile via di fuga dall’inferno in cui si è incautamente avventurato (come nella corsa senza respiro di “Escape”, con gli ostinati degli archi che si infrangono in un muro di dissonanze alla Alien, o in “Bugeye”). Barr gestisce bene pagine molto elaborate, e la Filarmonica di Praga, diretta da uno specialista in follie sinfoniche come Allan Wilson (il direttore di Chris Young), tiene dietro a questa partitura greve e faticosa, in cui si pretende molto dagli ottoni, dal pianoforte (il cui pestare perentorio è una sorta di landmark onnipresente), e naturalmente dagli archi, con tremoli di matrice herrmaniana che hanno lo scopo di fluidificare e tenere insieme tutta la sferragliante baraonda sonora. In qualche parte, questo pregevole lavoro fa pensare ad un Manfredini da Venerdì 13 evoluto, che abbia finalmente scelto da quale parte stare: quella della rabbia più incontrollata.
Un disco interessante, che ci consiglia di puntare una bandierina su questo autore per verificare il prosieguo del suo percorso creativo, nella speranza di poterne parlare ancora in futuro, con soddisfazione crescente.
 

 

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