25 Feb2011
Batman Returns
Danny Elfman
Batman il ritorno (Batman returns, 1992)
La-La Land Records LLLCD 1153
Cd 1: 21 brani – durata: 68’08”
Cd 2: 15 brani + 1 canzone + 1 bonus track – durata: 71’27”
Possiamo a buon diritto definire questo cofanetto in due cd distribuito in quantità di copie limitata (3.500) dalla infaticabile etichetta di Burbank come un’”edizione critica” della memorabile partitura con cui Danny Elfman, nel 1992, suggellò quello che forse rimane il capolavoro fra tutti i Batman del cinema, e sicuramente uno dei capitoli più perturbanti, oscillatori, “border line” e brillantemente “dark” della filmografia di Tim Burton. L’operazione consiste sostanzialmente nell’affiancare al già noto score edito a suo tempo dalla Warner tutta una serie di brani “alternativi”, di “bonus” integrativi”, di “cues” esclusi o sostituiti nel montaggio finale, a comporre così l’immenso mosaico di uno score frastagliato e delirante, neogotico e sbalzato come un bassorilievo impazzito, autentica epitome del talento elfmaniano nel rendere “visiva” la musica riallacciandosi ai propri numi tutelari sia nel repertorio classico (i russi, soprattutto, da Rimsky-Korsakov a Borodin sino a Stravinsky) sia in quello cinemusicale (Herrmann e Goldsmith, i suoi punti di riferimento centrali).
Partitura “visionaria”, si diceva, dove va da sé – ma si torna qui con più forza a constatare - che il ruolo di orchestratore di Steve Bartek e la perentoria direzione d’orchestra di Jonathan Sheffer, alla guida di un organico sterminato soprattutto nel settore fiati e percussioni (11 gli strumentisti addetti a queste ultime!), svolgono un compito determinante. L’analitico, meticoloso saggio di John Takis, che segue passo passo ogni track, contenuto nel ricco e illustratissimo booklet di 23 pagine, ne rende ottimamente conto, addentrandosi soprattutto nei meccanismi della strategia leitmotivica adottata da Elfman per connotare di volta in volta i temi di Batman, del Pinguino e della Donna-Gatto, e le loro complicatissime e sfavillanti interazioni e collisioni.
Batman Returns declina infatti sin da “Birth of a Penguin/Main title” due elementi decisivi della partitura: l’attenzione maniacale di Elfman all’elemento “cromatico”, coloristico, ottenuto attraverso le più svariate e imponderabili combinazioni, e l’utilizzo del leitmotiv enfatizzato attraverso lo schema della variazione e dell’intersezione con i materiali con esso drammaturgicamente conflittuali, L’organo, gli ottoni e coro che perorano ad esempio il Tema del Pinguino sottolineano, attraverso la perentoria e cupa drammaticità espositiva, anche il substrato tragico del character; con un esito psicologico che interagisce continuamente con il tema di Batman, a tutt’oggi uno dei più saettanti e dinamici “themes” associati ad un personaggio mai composti per il cinema. Se occorresse una conferma che è il Pinguino il vero protagonista del film, basta ascoltare il ruolo primario che al suo tema, spesso intarsiato in un climax sonoro violentemente parawagneriano (“Final confrontation/Finale”), è assegnato. Dei tre leitmotifs è quello più cangiante, mutante e invasivo, con echi del Dies Irae, capace di trascorrere dalla più minacciosa grandiosità a colori caricaturali sino alla struggente versione per corno inglese e archi del Finale. Il “Catwoman theme”, sinuoso e carillonante, occhieggia sin da “Penguin spies” preannunciato da quel “motto” degli archi in glissando che ne sarà per tutto lo score il tratto distintivo: si tratta di un effetto che Elfman utilizza (e di cui sicuramente è memore il Giacchino di Lost) per marchiare il personaggio nei suoi aspetti più dinamici senza sottrarsi al rischio di un autentico “mickeymousing” (il modello da imitare è senz’altro il miagolìo di un gatto), mentre l’esposizione aperta del vero e proprio tema (“Kitty Party/Selina transforms”) ne palesa invece tutto l’incontenibile e seducente lirismo. Il destino di questi due temi è quello di incontrarsi e intrecciarsi continuamente (”Bad, bad dog/Batman vs. Circus/Selina’s shopping free”) spesso attraverso l’enunciazione di semplici frammenti: qui Elfman e Bartek compiono autentici miracoli di scomposizione dei materiali, pur riuscendo nell’incredibile impresa di garantire un aspetto “unitario”, omogeneo ad uno score che viaggia intorno alle due ore di musica ininterrotta e che questa edizione riproduce (quasi) integralmente. Esempi, lampanti, se ne trovano in brani come “Cat chase”, dove i tre temi convergono in un assetto battagliero e corrusco nel quale trova tuttavia spazio anche un interludio romantico.
Ma la mutevolezza del talento elfmaniano non è asseverata solo dalla sapienza contrappuntistica o dal dichiarato omaggio ai modelli prediletti (“Clown attack”, nella sua strumentazione follemente percussionistica e sgangherata, dichiara evidenti debiti stravinskyani e “A shadow of doubt” declina, nella dolente progressione degli archi, tutto l’amore di Elfman per Herrmann) bensì anche e forse soprattutto dall’utilizzo intemerato di materiali eterogenei in una direzione quasi mai convenzionale: si pensi al misterioso vibrafono che precede la bizzarra processione in ¾ per organo e fiati di “The cemetery”, o al gioco tra pizzicati e xilofoni, e al minaccioso clarinetto basso di “Catwoman saves Joan/The new woman”, ma più in generale e su larga scala alla ripartizione mai rigida fra le diverse sezioni strumentali, che consente al musicista una libertà formale rasentante una (solo apparente) anarchia gioiosa e fertilissima. Governando il caos coloristico di una tavolozza orchestrale praticamente inesauribile, Elfman riesce invece a “ragionare” compiutamente sul ruolo degli interventi e dei temi, a cominciare da quello di Batman: che di rado viene utilizzato come epitaffio trionfalista ma più spesso (“Batman’s wild ride”) risulta parcellizzato in frammenti aggressivi e perentori, e scagliato con violenza dagli ottoni nelle situazioni dinamiche più convulse o contro i leitmotifs (degli) avversari.
Ne esce all’ascolto, ben più compiutamente rispetto alla pur encomiabile edizione Warner del ’92, la sensazione di un poema sinfonico denso di riferimenti interni ed esterni al cinema (“Fall from grace” offre anche una fanfara di sapore squisitamente ròzsiano), ma soprattutto capace di stare secondo per secondo addosso al campo “visivo” trasformandolo in campo di differenze e di incroci eminentemente “sonoro”. Tutt’altro che superflui, allora, i “cues” alternativi in coda al cd, previsti originariamente e poi sostituiti nella versione definitiva, dove alcune varianti denotano evidentemente l’attenzione reciproca – e le vedute probabilmente diverse – di Burton ed Elfman verso i reciproci lavori: un esempio per tutti, la chiosa alternativa finale, dissonante e dark, di “Fall from grace” rispetto allo stesso brano in versione definitiva.
In sintesi, un album che anche da un punto di vista filologico rappresenta una pietra miliare nella storia della musica per film degli anni ’90, e che permette di ricostruire capillarmente la genesi e la struttura profonda di una partitura tra le più multiformi e geniali del proprio tempo.