13 Mar2014
Stalingrad
Angelo Badalamenti
Stalingrad (Id., 2013)
MovieScore Media/Kronos Records MMS14001/KRONCD036
17 brani + 1 canzone – durata: 52’41”
Con sei mesi di assedio e di combattimenti, e due milioni di morti, la battaglia di Stalingrado (Agosto 1942), l’attuale Volgograd, è considerata uno dei punti di svolta della seconda guerra mondiale nonché una delle pagine più tragiche di tutto il conflitto. Un evento epico nel quale si fronteggiarono l’Armata Rossa sovietica e l’esercito nazista, che allo scopo aveva distolto molte truppe dal fronte occidentale, segnando così in qualche modo l’inizio della fine della guerra. Evento che nei decenni ha ovviamente molto sollecitato il cinema, con numerose ricostruzioni: anche se ne esistono almeno due di produzione tedesca, Stalingrad (1959) di Frank Wisbar, e Stalingrad (1993) di Joseph Vismaier, con musiche rispettivamente di Herbert Windt ed Enjott Schneider, la versione più celebre dell’evento rimane probabilmente quella di Jean-Jacques Annaud del 2001, Il nemico alle porte, che si avvaleva di una poderosa, sostakovichiana partitura di James Horner.
Ora è la volta di questa versione-kolossal russa, a firma di Fedor Bondarchuk (figlio di Sergej Bondarchuk, attore e regista di Waterloo, Guerra e pace, I dieci giorni che sconvolsero il mondo) e non si può nascondere che in un cast tecnico e artistico pressoché interamente russo desta una certa sorpresa la presenza di Angelo Badalamenti, il 76enne compositore italoamericano sodale di David Lynch. Eppure si tratta di uno dei lavori più impegnativi e partecipati del maestro, dal forte coinvolgimento emotivo e concepito quasi come un grande requiem orchestrale per vincitori e vinti. Il simbolo stesso di questa impostazione è lo “Stalingrad theme”, accorato e solenne nelle sue modulazioni, innalzato in apertura dalla voce del grande soprano russo Anna Netrebko su un accompagnamento pacato e intenso degli archi, e in particolare dei celli: un’autentica elegia funebre, che precede l’Ouverture, disegnata su un secondo tema, più affermativo e limpido, ma egualmente trattenuto in un fraseggio degli archi ampio, avvolgente e gravato di oscuri presagi. Le acque si agitano viceversa in “Desperate search for Masha”, con un ostinato staccato degli archi che richiama a sé brusche frasi degli ottoni seguite da una potente perorazione dei corni e delle trombe: anche il portato eroico si carica qui di sensazioni tragiche, complice un’orchestrazione classicamente sontuosa. Il “Kahn’s theme”, ossia il motivo dedicato al militare tedesco nei cui dubbi e tentennamenti sembra riassumersi un punto di vista condiviso dal film, è esposto da una malinconica tromba solista e successivamente raddoppiato dagli ottoni in un’atmosfera di predestinazione eroica drammaticamente contraddetta dal lavorìo degli archi e dagli accenti della percussione; a questo si oppone il calore doloroso del “Katya’s theme”, dove è riconoscibile tutto il lirismo di Badalamenti nel trattamento degli archi, chiamati a frasi lunghe, concentrate e intrecciate reciprocamente. Un nuovo “allegro marcato”, fondato sull’incalzare ritmico di archi e percussioni e sul ruolo invocante degli ottoni, è “Men on fire”, la cui cellula confluisce nel lungo “Execution and attack”, un ostinato sincopato trafitto dalla cupa pesantezza di tromboni e corni che prende presto le forme di una marcia dalla inesorabile progressione, placata solo per lasciare spazio ad una conclusiva, rapida riapparizione vocale dello “Stalingrad Theme”. Lo stesso materiale caratterizza “Sergei’s triumph”, dove la potenza di fuoco orchestrale della partitura si dispiega in tutta la sua vastità, mentre un semplice ma penetrante tema dei violoncelli attraversa “Russian ambush”, che si caratterizza nuovamente per l’inesorabilità del ritmo di base sull’ostinato di archi, a differenza del disteso, quasi accasciato “The rules of warfare”, un adagio mesto e riflessivo. La partitura infatti sembra nella seconda parte ripiegarsi sui materiali già esposti e rallentare l’incedere in direzione di una implorante, emozionata pacatezza, come avviene nel breve ma toccante “Lovers steal away”: e se un appunto si può muovere qui a Badalamenti è forse di riepilogare le idee leitmotiviche già esposte senza preoccuparsi troppo di farle interagire o di collegarle tra loro.
Ottoni furiosi e pesantezza ritmica si erigono ancora in “The panzer attack”, mentre il violoncello solo alza il suo canto sconsolato in “Masha and Kahn” in un adagio intimista, e “Tragic killing” si riaffida alla tensione di un ostinato degli archi con effetto di riverbero, sciolta poi nella solenne magniloquenza degli ottoni. Quasi un lied, quieto e dal fraseggio accorato, è “Childhood memories”, dove viene ripreso con impeto lirico il tema di Katya; è viceversa lo Stalingrad Theme a riproporsi negli archi in “Goodbye Brothers/Stalingrad Finale”, in un trattamento che ne arroventa la fisionomia patetica e ne dilata smisuratamente l’impatto espressivo.
La presenza di “Legenda”, toccante ballata del chitarrista e cantante Victor Tsoi, già leader della band Kino e scomparso a soli 28 anni nel ’90 in un incidente stradale, offre all’ascolto la calda voce di Zemfira, celebre cantante russa di origini bashkir (la popolazione di origine turca che vive in Russia), e precede un’ultima, distesa meditazione per archi sullo Stalingrad Theme che può a tutti gli effetti considerarsi l’epicedio della partitura e del film. Forse in questa meglio e più che altrove si ricapitola il valore anche morale di una partitura “in memoriam” di tutti i caduti sull’altare di quella follia collettiva che gli uomini hanno chiamato guerra.
Stalingrad (Id., 2013)
MovieScore Media/Kronos Records MMS14001/KRONCD036
17 brani + 1 canzone – durata: 52’41”
Con sei mesi di assedio e di combattimenti, e due milioni di morti, la battaglia di Stalingrado (Agosto 1942), l’attuale Volgograd, è considerata uno dei punti di svolta della seconda guerra mondiale nonché una delle pagine più tragiche di tutto il conflitto. Un evento epico nel quale si fronteggiarono l’Armata Rossa sovietica e l’esercito nazista, che allo scopo aveva distolto molte truppe dal fronte occidentale, segnando così in qualche modo l’inizio della fine della guerra. Evento che nei decenni ha ovviamente molto sollecitato il cinema, con numerose ricostruzioni: anche se ne esistono almeno due di produzione tedesca, Stalingrad (1959) di Frank Wisbar, e Stalingrad (1993) di Joseph Vismaier, con musiche rispettivamente di Herbert Windt ed Enjott Schneider, la versione più celebre dell’evento rimane probabilmente quella di Jean-Jacques Annaud del 2001, Il nemico alle porte, che si avvaleva di una poderosa, sostakovichiana partitura di James Horner.
Ora è la volta di questa versione-kolossal russa, a firma di Fedor Bondarchuk (figlio di Sergej Bondarchuk, attore e regista di Waterloo, Guerra e pace, I dieci giorni che sconvolsero il mondo) e non si può nascondere che in un cast tecnico e artistico pressoché interamente russo desta una certa sorpresa la presenza di Angelo Badalamenti, il 76enne compositore italoamericano sodale di David Lynch. Eppure si tratta di uno dei lavori più impegnativi e partecipati del maestro, dal forte coinvolgimento emotivo e concepito quasi come un grande requiem orchestrale per vincitori e vinti. Il simbolo stesso di questa impostazione è lo “Stalingrad theme”, accorato e solenne nelle sue modulazioni, innalzato in apertura dalla voce del grande soprano russo Anna Netrebko su un accompagnamento pacato e intenso degli archi, e in particolare dei celli: un’autentica elegia funebre, che precede l’Ouverture, disegnata su un secondo tema, più affermativo e limpido, ma egualmente trattenuto in un fraseggio degli archi ampio, avvolgente e gravato di oscuri presagi. Le acque si agitano viceversa in “Desperate search for Masha”, con un ostinato staccato degli archi che richiama a sé brusche frasi degli ottoni seguite da una potente perorazione dei corni e delle trombe: anche il portato eroico si carica qui di sensazioni tragiche, complice un’orchestrazione classicamente sontuosa. Il “Kahn’s theme”, ossia il motivo dedicato al militare tedesco nei cui dubbi e tentennamenti sembra riassumersi un punto di vista condiviso dal film, è esposto da una malinconica tromba solista e successivamente raddoppiato dagli ottoni in un’atmosfera di predestinazione eroica drammaticamente contraddetta dal lavorìo degli archi e dagli accenti della percussione; a questo si oppone il calore doloroso del “Katya’s theme”, dove è riconoscibile tutto il lirismo di Badalamenti nel trattamento degli archi, chiamati a frasi lunghe, concentrate e intrecciate reciprocamente. Un nuovo “allegro marcato”, fondato sull’incalzare ritmico di archi e percussioni e sul ruolo invocante degli ottoni, è “Men on fire”, la cui cellula confluisce nel lungo “Execution and attack”, un ostinato sincopato trafitto dalla cupa pesantezza di tromboni e corni che prende presto le forme di una marcia dalla inesorabile progressione, placata solo per lasciare spazio ad una conclusiva, rapida riapparizione vocale dello “Stalingrad Theme”. Lo stesso materiale caratterizza “Sergei’s triumph”, dove la potenza di fuoco orchestrale della partitura si dispiega in tutta la sua vastità, mentre un semplice ma penetrante tema dei violoncelli attraversa “Russian ambush”, che si caratterizza nuovamente per l’inesorabilità del ritmo di base sull’ostinato di archi, a differenza del disteso, quasi accasciato “The rules of warfare”, un adagio mesto e riflessivo. La partitura infatti sembra nella seconda parte ripiegarsi sui materiali già esposti e rallentare l’incedere in direzione di una implorante, emozionata pacatezza, come avviene nel breve ma toccante “Lovers steal away”: e se un appunto si può muovere qui a Badalamenti è forse di riepilogare le idee leitmotiviche già esposte senza preoccuparsi troppo di farle interagire o di collegarle tra loro.
Ottoni furiosi e pesantezza ritmica si erigono ancora in “The panzer attack”, mentre il violoncello solo alza il suo canto sconsolato in “Masha and Kahn” in un adagio intimista, e “Tragic killing” si riaffida alla tensione di un ostinato degli archi con effetto di riverbero, sciolta poi nella solenne magniloquenza degli ottoni. Quasi un lied, quieto e dal fraseggio accorato, è “Childhood memories”, dove viene ripreso con impeto lirico il tema di Katya; è viceversa lo Stalingrad Theme a riproporsi negli archi in “Goodbye Brothers/Stalingrad Finale”, in un trattamento che ne arroventa la fisionomia patetica e ne dilata smisuratamente l’impatto espressivo.
La presenza di “Legenda”, toccante ballata del chitarrista e cantante Victor Tsoi, già leader della band Kino e scomparso a soli 28 anni nel ’90 in un incidente stradale, offre all’ascolto la calda voce di Zemfira, celebre cantante russa di origini bashkir (la popolazione di origine turca che vive in Russia), e precede un’ultima, distesa meditazione per archi sullo Stalingrad Theme che può a tutti gli effetti considerarsi l’epicedio della partitura e del film. Forse in questa meglio e più che altrove si ricapitola il valore anche morale di una partitura “in memoriam” di tutti i caduti sull’altare di quella follia collettiva che gli uomini hanno chiamato guerra.