L’avventura, La notte, L’eclisse, Deserto rosso
Giovanni Fusco, Giorgio Gaslini
Antonioni – Suoni del silenzio (2015)
L’avventura, La notte, L’eclisse, Deserto rosso
Quartet Records QR192 – Edizione limitata 500 copie
CD 1, 18 brani + 15 bonus tracks – durata: 72’51”
CD 2, 10 brani + 7 bonus tracks – durata: 55’41”
CD 3, 18 brani + 3 bonus tracks – durata: 45’51”
CD 4, 11 brani – durata: 33’11”
Vi sono, nella storia del cinema, alcuni snodi, alcune svolte cruciali che coincidono felicemente con altrettanti, paralleli capitoli di innovazione nella musica cinematografica. Non accade spessissimo, ma quando accade il fenomeno è particolarmente vistoso, giacché storicamente si imputa alla musica per film il peccato originale di essere in clamoroso ritardo rispetto alle conquiste stilistiche e linguistiche operate dagli altri generi musicali del ‘900, in particolare con riferimento alle avanguardie storiche.
Per avere la prima, autentica ventata di novità, occorrerà aspettare l’ingresso di una figura decisiva come Michelangelo Antonioni, il più moderno, “europeo” e radicale dei nostri maestri, il cineasta che pur muovendo da iniziali esperienze tardoneorealiste e documentaristiche introduce tematiche, linguaggio e storie “assolute”, universali destinate a mettere in crisi il modello borghese felice e ottimistico della ricostruzione e, di lì a pochi anni, del “boom” economico. In perfetta sintonia con il cineasta ferrarese emerge fra tutti la figura di Giovanni Fusco (Sant’Agata dei Goti, Benevento, 1906 – Roma, 1968), il compositore che accompagnerà tutta la prima – nonché più felice – fase del cinema antonioniano attraverso nove collaborazioni, dal documentario N.U. (Nettezza urbana) del ’48 sino a Deserto rosso (1964). Fusco, che aveva studiato con Alfredo Casella e Fernando Germani, vantava una solidissima formazione accademica e tradizionale, ma coltivava anche dentro di sé una vocazione sperimentale che farà poi la differenza nel suo operato di musicista per il cinema (ruolo che lo vide impegnato in gioventù come pianista accompagnatore per film muti a dieci lire la serata). In questo, Fusco fu un pioniere che aprirà poi la strada a personalità come Piero Piccioni, Mario Nascimbene e infine Ennio Morricone: anche perché, come tutti costoro, egli assorbe e incorpora nelle sue partiture anche elementi della musica di consumo dell’epoca (le cosiddette “canzonette”) rielaborandole come materiale significante e intimamente costitutivo di una fase particolarmente delicata e sensibile nell’evoluzione del costume e della società italiani.
Ciò coincide alla perfezione con l’idea che Antonioni ha della musica nel cinema: un elemento non riempitivo o di enfatizzazione drammaturgica, ma al contrario di sottrazione, di ellissi ed eclissi, di allusioni, dove il silenzio – a volte – risulta più musicale del suono stesso. E non è un caso allora che la Quartet (l’etichetta forse oggi più attiva sia sul fronte delle novità che delle riscoperte) abbia licenziato questo preziosissimo cofanetto monografico di versioni originali e integrali intitolandolo “Suoni del silenzio”: laddove l’apparente ossimoro in realtà cela e insieme svela la profondità dialettica della concezione cinemusicale del regista unitamente alle intuizioni e al rigore stilistico dei compositori. L’uscita riassume anche in un unicum una discografia abbastanza altalenante e lacunosa per quanto riguarda i quattro titoli in esame (nei quali si può agevolmente individuare la stagione più alta del cinema antonioniano), composta sin qui da selezioni su vecchi vinili (alcuni in formato EP), nonché da numerosi 45 giri dovuti al fatto che alcuni brani, come “Trust me” da L’avventura (’59) o l’”Eclisse twist” da L’eclisse (’62), divennero altrettante fortunate hit per cantanti di successo come Nico Fidenco e Mina, sfruttando anche la popolarità di alcuni balli (il twist o il surf).
Ma proprio partendo da qui, da questi brani da hit parade, si ha una chiara idea degli elementi di novità contenuti nelle composizioni di Fusco. Come spiega bene nei ricchi libretti allegati ai CD Gergely Hubai (il trentenne studioso ungherese che più di chiunque altro oggi si sta dedicando all’approfondimento dell’immenso patrimonio cinemusicale del passato), l’utilizzo della canzone in Fusco non è mai esornativo o consumistico, ma diviene una cellula dalla e intorno alla quale si sviluppa l’intera partitura. Ciò è particolarmente evidente, ad esempio, ne L’eclisse, dove il twist cui si accennava viene scomposto, rallentato, radiografato e sezionato, divenendo un nucleo centripeto intorno al quale il compositore fa ruotare una serie di 13 sequenze variative, con una procedura che non si discosta molto da analoghe metodologie messe in campo pochi anni prima da maestri dell’avanguardia europea come Webern o Schoenberg. Colpisce subito la francescana, quasi ascetica “povertà” dei materiali sonori. L’organico dell’orchestra è ridottissimo, oscillando tra la musica da camera e il jazz (genere di cui Fusco fu, insieme a Piccioni e Trovajoli, un pioniere italiano), privilegiando i legni, la chitarra, la batteria; ed anche nei momenti meno distesi, come il “Tema drammatico” in L’avventura, il massimo dell’apprensione o della malinconia è ottenuto attraverso le pause, le note lunghe tenute, i filamenti melodici che non si risolvono mai in soluzioni armonicamente gratificanti. Si coglie insomma, in queste anticipazioni di quello che solo cinquant’anni dopo si sarebbe chiamato “design sonoro”, una progressione linguistica ansiosa e una radicalizzazione antinaturalistica e anticonvenzionale della musica per film che, per quanto riguarda Fusco e Antonioni, troverà il coronamento in Deserto rosso. Primo film a colori del regista ed ultimo in collaborazione con il musicista, il film è la summa stilistica del primo periodo antonioniano e della sua cosiddetta “poetica dell’incomunicabilità”, che vide la propria Musa ispiratrice e protagonista nella grande e bellissima Monica Vitti. Qui Fusco dà libero sfogo alla propria vocazione sperimentale in uno score che vede anche la collaborazione con la figlia Cecilia, soprano, con Carlo Savina e – per una cospicua e fondamentale parte elettronica – con Vittorio Gelmetti. Ne scaturisce un inquietante scenario acustico (“Astrale”, “Orgia”) dove suono e musica si confondono e si fondono, lasciando ad un celebre “Surf della luna” il compito di fungere da elemento conduttore di riconoscibilità: pagina, per inciso, che la riedizione Quartet ci offre in ben cinque versioni, oltre a quella diretta dall’autore, a firma di celeberrime orchestre “leggere” del tempo, come quelle di Piero Piccioni, Roby Poitevin, Gino Marinacci, Ralph Ferraro e Piero Umiliani.
La notte (1960) fa storia a sé essendo l’unica occasione di incontro fra Antonioni e Giorgio Gaslini, nonché l’esito più notevole del connubio non vastissimo fra il grande jazzista scomparso l’anno scorso e il cinema. Non è forse un caso che questa partitura, di adamantina, gelida e suggestiva bellezza, sia considerata un caposaldo anche dagli specialisti di jazz, e non solo all’interno della storia di questo genere in Italia o del suo utilizzo al cinema. Ancora una volta ci si trova dinanzi ad una sorta di esproprio, da parte di musicista e regista, dell’involucro esterno della musica a fini di narrazione interna e descrizione psicologica. Alternando tonalità più calde e internazionali (“Ballo di Lidia”) a momenti di immobilizzazione ritmica e di algide dissonanze tipiche del “free”, Gaslini costruisce intorno ai personaggi del film e ai loro tormenti esistenziali un clima davvero “notturno”, ma di una notte tutta interiore e psicologica, quindi ben difficile da diradare: il tutto non senza concedersi liberamente alla propria vena ispirativa più immediata, come nello splendido “Blues all’alba”. Partitura che, ricordiamolo, valse a Gaslini (così come L’avventura a Fusco) il Nastro d’argento per la miglior colonna sonora.
Eppure Hubai ha ragione nell’osservare che la partnership Fusco-Antonioni, così come il lavoro per La notte, rappresenta nella storia della musica cinematografica non solo italiana, uno dei capitoli più sottovalutati e meno celebrati. Anche per questo l’iniziativa editoriale della Quartet, ora, assume un merito e un’importanza assolutamente irrinunciabili.