The Boy / The Forest

cover the boy

Bear McCreary
The Boy (Id., 2016)
Lakeshore Records LKS 346182
12 brani + 1 canzone – Durata: 47’38”

voto4

 

cover the forest

Bear McCreary
The Forest (Id., 2016)
Sparks & Shadows SNS4019
10 brani – Durata: 40’48”

voto3

Occhio – anzi orecchio – a Julian “Bear” McCreary. Perché il non ancora 40enne compositore americano sta molto crescendo, e si sta ritagliando uno spazio autonomo e personale sulla scena della film music contemporanea. Non più e non solo, dunque, il musicista svelto ed efficace di Battlestar Galactica, The Walking Dead e di molta altra tv ma anche autore attento e capace per il grande schermo, dotato di non comuni qualità descrittive e psicologiche, oltre che prettamente musicali. Né stupisce che questa maturazione sia avvenuta all’interno del genere thriller- horror, che da sempre è un laboratorio di ricerca e sperimentazione privilegiato per il mondo delle colonne sonore. McCreary ci aveva già fatto intuire qualcosa in Wrong Turn 2 – Senza via d’uscita (2008), con uno score angoscioso più che terroristico, cosparso di sfumature e tensioni anziché di soprassalti e facili effettismi. E questa propensione al lavoro di cesello invece che di scure sembra ora confermata da un dittico di partiture collegate ad altrettanti esempi tipici di quel B-movie di genere Made in Usa spesso foriero di ottime sorprese sul piano della qualità, e all’interno del quale comunque i compositori si sentono particolarmente liberi e oggetto di fiducia.

Ad esempio The Boy di William Brent Bell (La metamorfosi del male, L’altra faccia del diavolo): un thriller psicologico a forti tinte in cui una “tata” americana prende servizio in una famiglia inglese per scoprire che il loro figlio Brahms (torneremo sul significato della scelta di questo nome) in realtà è una bambola a grandezza naturale… McCreary ammette apertamente e candidamente di essere rabbrividito dinanzi a questa spiazzante premessa alla prima visione del film: ma – aggiunge – di non aver mai sentito per questo il dovere di rifugiarsi in un facile terrorismo con la propria musica. Il che traspare sin dalle prime battute di “The Boy Main Title”, dove compare immediatamente l’idea centrale della partitura, sia nematicamente che strutturalmente, ossia quella della ninna nanna: tale è infatti la cantilena mesta che, su un flebile accordo di archi e un accompagnamento di terzine, il pianoforte alza in tonalità di mi minore, e che restituisce subito il clima sospeso, ambiguo e insinuante costruito da McCreary. Non diversamente, “Meeting Brahms” si muove lungo accordi disturbati, freddi degli archi che sembrano strisciare nell’ombra; anche “The Attic” gira intorno al tema iniziale con pacata inesorabilità, senza mai un’alzata di toni, e ciò malgrado qui – come pure in “Come Play Little Greta” – il compositore sappia distribuire egregiamente alcuni “tòpoi” dell’horror music, come pianoforti stonati, glissandi e tremolii; tuttavia ciò che si nota è un’operazione di strenuo, programmato contenimento dei volumi sonori (al contrario di quanto avviene nella stragrande maggioranza dei casi di partiture simili), che alla lunga sortisce un’efficacia straordinaria. Inoltre proprio nell’ultima traccia citata si affaccia, incerta ma perfettamente riconoscibile, una citazione che si rivelerà fondamentale e che riporta al nome del “bambino” cui accennavamo sopra, ossia Brahms. Ecco infatti un carillon suggerire le prime note della celeberrima “Ninna nanna” (per la precisione, il Wiegenlied op.49 n° 4 “Guten Abend, Gute Nacht”), che il compositore amburghese (peraltro presente nel soundtrack anche con la sua Danza ungherese n.5, insieme a pagine di Mozart ed Elgar) scrisse nel 1868, come parte di una raccolta di lieder per canto e pianoforte, e sulle cui note generazioni di bambini si sono addormentati fra le braccia della mamma. L’inquietante manipolazione cui McCreary la sottopone è ancor meglio apprezzabile in “The Phone Call and the Letter”, dove è esposta rallentata e integralmente ma sullo sfondo di un serpeggiante e cupo movimento degli archi, a intrecciarsi quasi necessariamente con la melodia iniziale. Melodia che torna, più desolata che mai, nel cello solo in “Following the Rules” e, in registro sovracuto degli archi, in “Rat Blood”, sempre gravata da un senso di terrore oscuro e invisibile, più che esplicito. Il lungo “Out of the Mirror” mette chiaramente le carte in tavola sul piano della paura in musica, soprattutto con un surplus di agitazione ritmica, ma ancora una volta è la cellula germinante del lied brahmsiano – ormai assurto a vero segnale di terribile quanto inespressa minaccia – a farsi udire con maggior rilievo. Inizialmente travolto dalle percussioni, “Goodnight Brahms” si ripiega poi nella riesposizione pianistica del tema d’inizio, agganciato alla “lullaby” brahmsiana nella parte finale. Quest’ultima tuttavia trova la sua più sconvolgente trascrizione in una versione “vocal” conclusiva, “In My Dream”, proposta dalla cantante Fyfe Monroe su una strumentazione in bilico fra atmosfere da incubo e ritmo incalzante.

The Forest è un lavoro più convenzionale (ma lo è anche il film di Jason Zada, storia di una ragazza che cerca la sorella gemella in una foresta giapponese dove finirà preda di forze soprannaturali), eppure anche qui McCreary trova il modo di non abdicare alla propria originalità: lo fa ad esempio campionando un coro di voci infantili in “The Forest Main Title”, o utilizzando strumenti del folklore nipponico e voci bianche bisbiglianti sullo sfondo (notevole il lavoro del compositore sui canti popolari di quel paese) in “Journey to Aokigahara”. Anche in questa circostanza pertanto McCreary dribbla i facili luoghi comuni di genere in virtù di un’accurata ricerca sulle fonti e di una raffinata distribuzione dei materiali sonori: manca forse un’idea portante forte, un “gancio” leitmotivico robusto, sostituiti da un climax morboso e insieme incantato, stupefatto (“The Tent”, “Follow the Rope”). Una certa deriva horror è poi ravvisabile in “The Reversing River”, fra accelerazioni percussive e trappole degli archi, ma sempre con la presenza inquietante delle voci umane: ciononostante lo stile rimane composto, sorvegliatissimo, raramente incline all’enfasi. Anche in “Alone in the Cave”, che è un po’ il clou dello score, lo scontro frontale fra suoni manipolati, archi, puri effetti sonori e l’intervento di Hiromitsu Nishikawa, noto percussionista d’avanguardia, produce non tanto un’antologia di repertorio quanto una intelligente commistione di stilemi: ben riconoscibile anche nella versione finale del “Theme from The Forest” tra sonorità techno-metallare e suggestioni orientaleggianti. Resta comunque il dato più evidente di questi lavori: ossia che nelle proprie partiture a Bear McCreary (di cui si ascolti anche il notevole 10 Cloverfield Lane, sequel di Cloverfield) più che una facile e presto dimenticabile “paura sonora” sta a cuore evocare un sentimento molto più sottile e devastante: il dolore dell’anima.

Stampa