Wonder Woman

cover wonder womanRupert Gregson-Williams
Wonder Woman (Id., 2017)
WaterTower Music WTM39896
14 brani + 1 canzone – Durata: 78’40”

Se Atene piange, Sparta non ride. Sostituite ad Atene la Marvel, e a Sparta la DC Comics e avrete il quadro di una situazione di mercato che si va facendo problematica per il filone dei “superhero movies”. Un filone giunto ormai, più che alla frutta, al digestivo e fors’anche al conto e alla mancia. Il florilegio di prequel-sequel-reboot-remake che proliferano da ambo le parti lascia infatti sempre più il tempo che trova: al netto delle stroncature critiche (che certo non affliggono i sonni dei produttori) vanno registrati anche ripetuti clamorosi flop commerciali (I fantastici quattro, il secondo Avengers) o rapide fiammate di pubblico che si spengono rapidamente nella noia e nel déjà-vu. Funzionano bene le parodie, ma devono essere estreme (Deadpool) e comunque anche lì il fiato è corto.

 Sceneggiature inesistenti o risibili, personaggi imbarazzanti e senza spessore, cast al minimo sindacale, registi svogliati, special effects da supermarket formano ormai un cocktail indigesto che produce assuefazione e ripetitività, con rarissime eccezioni (il primo Avengers, i Batman di Nolan). Servirebbe una moratoria, che non arriverà. E sembrano passati secoli da quando (correva l’anno 1978) il genere decollò sulle ali del primo Superman di Richard Donner, con relativo masterpiece williamsiano.
 Già, i compositori. Qual è il loro ruolo in questo declino? I più talentuosi (Silvestri, Elfman, Giacchino, Zimmer) prescindono dalla qualità dei prodotti e sfoderano comunque partiture di pregio, supplendo con il proprio fantasismo sinfonico alle abissali carenze narrative; del resto non fu Jerry Goldsmith a cesellare uno dei suoi lavori più sfolgoranti per uno dei più inguardabili capitoli del settore, la Supergirl di Jeannot Szwarc (1984)? Ma il grosso della torta è ormai stabilmente assegnato a cottimisti del soundtrack tipo Tyler, Ottman, Jackman, Jablonsky, Bates: dei quali non è in discussione l’abilità o la perizia e professionalità di confezione, bensì (e scusate se è poco) la capacità di lasciare un segno nella scrittura, di imprimersi nell’ascolto, insomma di fare la differenza. In un mix ormai indistinguibile di orchestrazione iperwagneriana e abuso dell’elettronica, costoro sfoderano score altisonanti e assordanti, appellandosi ad un’epica di facciata (che vorrebbe imitare senza riuscirvi il pathos tragico delle migliori prove del loro nume tutelare, Hans Zimmer) che diventa il più delle volte una plastificazione sonora algida e destinata a squagliarsi rapidamente.
 I Gregson-Williams Bros. sono un caso diverso. Entrambi non sembrano particolarmente attratti dal genere “super”; di Harry si ricorderà la partitura tutt’altro che scontata, anzi densa di drammaticità, per X-Men le origini: Wolverine (2009, Gavin Hood), mentre per Rupert questo è il primo impegnativo debutto di settore. Si poteva augurargli per l’occasione qualcosa di meglio dell’incredibile guazzabuglio fantasy-bellico confezionato dall’imprevedibile Patty Jenkins (sin qui nota per l’anomalo Monster, 2003, che valse l’Oscar ad un’irriconoscibile Charlize Theron nei panni della serial killer lesbica Aileen Wuornos). Ma tant’è.
 Il compositore inglese prende molto sul serio la faccenda, con un approccio corrucciato e nobilitante: un metodo che funziona più nei dettagli che nell’insieme (il tremolo lieve degli archi sulla celesta con cui inizia “Angel on the wing”), ma che denota comunque uno sforzo di complessità commendevole. Il punto però è che gli ordini di scuderia prevedono quel tipo di grandeur “da-fine-di-mondo” che ben  conosciamo, e che di norma non lascia traccia. Così, la lunghissima e articolata “Amazon of Themyscira” scorre, s’ingrossa e si avvolge in una strumentazione pomposa e solenne ma dalla quale stenta a emergere un’idea che sia una, e dove l’unica percepibile è di chiarissima matrice zimmeriana: prevale l’impianto scenografico dello score, in quell’horror vacui sonoro che è ormai una costante di questi prodotti. In realtà Gregson-Williams sarebbe più portato verso il lato oscuro di queste mitologie (purtroppo quasi inconsistente nella scrittura filmica), come dimostrano il bellicoso “Ludendorff, enough!”, horror music raffinata, intessuta di cromatismi minacciosi e contenuta nel suono, o “Lightning strikes”, un lamento intenso e per una volta intimamente sentito;  oppure verso un tono più spavaldamente e spudoratamente gaglioffo, come in “Wonder Woman’s wrath”, popeggiante e rompicollo.
 Ma sono oasi isolate. Fra ottoni ululanti e percussione che ti entra nelle budella, il musicista svolge coscienziosamente il proprio compito in classe, ossia rivestire di pulsioni apocalittiche un oggetto che sta insieme con la Coccoina: e allora ecco, per esempio, “Hell hath no fury”, rombante e tragico nell’atteggiamento, ma inesorabilmente banale. Va meglio con il romanticismo incandescente e ultimativo di “Trafalgar celebration”, la cui coda repentina rimanda a “Wonder Woman’s wrath” e ai suoi guizzi hard-rock; mentre la conclusiva “Action Reaction” è un’ulteriore sfoggio di muscolatura sonora tutta basata sull’ossessività ritmica. In congedo, la piacevole “To be human” della cantautrice australiana Sia, al secolo Sia Kate Isobelle Furler, offerta in tandem con il rapper e cantautore british Labrinth, al secolo Timothy McKenzie.
 Ora, è noto che qualità filmica e qualità musicale non sono affatto interconnesse: se così fosse, metà della storia della musica per film andrebbe al macero. Ma non si possono nemmeno pretendere capolavori in circostanze simili; per le quali basterebbe una playlist ricavata da una delle vecchie, gloriose libraries degli anni ’40 e ’50. Allora, però, i “bibliotecari” si chiamavano Rózsa, Herrmann, Waxman, Newman…

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