Opera

cover opera vinile bisClaudio Simonetti, Steel Grave
Opera (1987)
Rustblade Records RBL060
18 brani – Durata: 56’00”

Opera rappresenta un punto di snodo nella filmografia di Dario Argento, soprattutto perché il regista vi fa i conti per la prima volta con un mondo che lo affascina da sempre ma da quale fino a quel momento è stato respinto: quello, appunto, della musica lirica. A metà degli anni ’80 è infatti naufragato un suo progetto di regia del “Rigoletto” verdiano allo Sferisterio Macerata, dopo che la direzione artistica era venuta a sapere che Argento avrebbe rappresentato il Duca di Mantova come un vampiro. Dovranno passare quasi trent’anni prima che l’autore di Profondo rosso riesca a tornare su un palcoscenico operistico, come avverrà con il “Macbeth” sempre di Verdi e poi la “Lucia di Lammermoor” donizettiana (personalmente ci intrigherebbe assai vederlo alle prese con alcuni tra i capolavori più “neri” del ‘900, come “Lulu” o “Wozzeck” di Berg, oppure la “Lady Macbeth del distretto di Mzensk” di Shostakovich…).

Nel frattempo però Argento la sua rivincita in materia se l’è presa al cinema, dapprima appunto con Opera, che ruota proprio intorno alla messinscena ultra-dark di un “Macbeth” affidata ad una sorta di alter ego registico, con macchine di tortura e corvi svolazzanti, e più tardi con l’assai meno riuscito Il fantasma dell’Opera. Considerata la cura maniacale che il regista ha sempre posto nell’aspetto musicale dei propri film, intervenendo in prima persona in più d’un caso, la commistione fra elemento operistico, per di più afferente al melodramma italiano, e il suono “dark-progressive-metal” a lui tanto caro e così ben individuato nei lavori dei Goblin o nelle ospitate di gruppi storici come gli Iron Maiden e i Motorhead, costituisce qui un fattore di straordinario interesse.
 In realtà al tempo di Opera i Goblin erano in pausa dopo l’enorme successo di Phenomena (si sarebbero riuniti sotto le ali argentiane solo una volta, per Nonhosonno del 2000), in un rimescolamento di carte che avrebbe visto andare ciascuno dei componenti per la sua strada, in solitaria o alla testa di nuove band. Quindi la firma spettò al leader storico Claudio Simonetti, straordinaria e spettacolare figura di musicista completo e visionario che riesce a coniugare il rigore formale delle strutture bachiane con un fantasismo sonoro vulcanico e irrefrenabile, portando le coordinate del “rock progressive” ai massimi livelli qualitativi.
 E non è un caso che questa pregevole riedizione dell’italiana Rustblade Records, sfornata per i 30 anni del film, si apra proprio con il brano omonimo del film che costituisce anche il biglietto da visita della partitura: su un arpeggio melodico e accattivante di tastiere una voce sopranile esegue una simil-aria ipnotizzante, molto spinta sul registro acuto, che sembra quasi guardare al belcanto belliniano corretto da alcune turbative armoniche del Verdi più maturo: è un modo intelligente di declinare il contesto del film senza ricorrere – come sarebbe stata facile tentazione – alla proposta di brani preesistenti, che vengono invece lasciati al livello più interno del racconto. Ma il tocco rovente del compositore si fa subito strada nella travolgente “Crows”, affondata in un magma di percussioni ma con un disegno ritmico implacabile e un tematismo voluttuosamente barocco. Esemplare poi il ricorso espressivo, mai semplicisticamente ornamentale, all’elettronica ottenuto con “Impending danger”, creando un impasto di sonorità evocative e scenografiche ma sempre devote alle ragioni della musica, della forma, sino a inventare, in “Confusion”, un secondo tema carillonante, ossessivo e orecchiabilissimo, ancor più suggestivamente associato ad effetti di coro nella sua “Reprise”; o ad appellarsi, in “The mask” ai moduli caratteristici dell’avanguardia elettronica (battito cardiaco compreso), con un utilizzo spregiudicato e intelligente delle tecnologie nel quale – va detto – Simonetti e i Goblin erano in anticipo sui tempi e sulle mode di almeno trent’anni. Anche “The cinema show” coniuga l’efficacia emotiva, quasi viscerale di suoni primordiali con una pertinenza e una sobrietà di stile oggi rare; mentre in “Cosmo” si ha quasi un sobbalzo nei primissimi secondi, udendo affiorare una citazione dall’inizio orchestrale del pucciniano “Nessun dorma”, prima che si faccia luce un nuovo, delicato e quasi fanciullesco tema, di melodica delicatezza espressiva.
 Nel soundtrack di Opera c’era evidentemente molto altro: oltre alle arie di Maria Callas e Mirella Freni, sempre in una visione di conflitto sonoro dialettico e significante, figuravano il duo Brian e Roger Eno, l’ex-bassista degli Stones Bill Wyman e il suo sodale Terry Taylor; ma vi appariva soprattutto una band di giovani metallari torinesi, gli Steel Grave, chiaramente devoti ai numi tutelari del genere, dai Metallica ai Sepultura & Co., presente con due brani al calor bianco come “Steel Grave” e “Knight of the night”, la cui funzione dirompente e destabilizzante nel film – e nel soundtrack – è abbastanza evidente.
 Ma ad illustrare il metodo di lavoro e le tecniche di Simonetti provvedono poi nell’album una serie di “demo” e di esecuzioni live successive dei brani già citati, tutte estremamente interessanti, ma tra le quali ci piace citare in particolare la versione per solo piano di “Opera”, di struggente sensibilità, e – dello stesso brano – la versione live al Prog West Festival di Los Angeles del 2002, dove torna il soprano ma con il supporto di un pianoforte più classico che mai, di un sontuoso accompagnamento orchestrale e di un pirotecnico assolo di chitarra di Bruno Previtali, componente dei Daemonia, la nuova band fondata da Simonetti nel ‘99. A dimostrazione di quante anime convivano in questo compositore e di come il suo talento – libero e accademico insieme – abbia contribuito in modo decisivo alla costruzione dell’universo di Argento.

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