Murder on the Orient Express

cover murder on the orient expressPatrick Doyle
Assassinio sull’Orient Express (Murder on the Orient Express, 2017)
Sony Classical 546634.2
23 brani + 1 canzone – Durata: 56’45”   


     
Giunta al capitolo n.10 la collaborazione fra Kenneth Branagh e il compositore scozzese che da quasi un trentennio ne accompagna il cinema raffinatissimo, sontuosamente colto ed elaborato, ha acquistato un inconfondibile sapore retrò appena velato di umorismo molto british, ma più spesso avvolto in un neoromanticismo caloroso e fortemente comunicativo.

L’incontro con il notissimo (e più volte portato su schermo) romanzo di Agatha Christie è un’ulteriore, preziosa occasione per sviluppare queste caratteristiche, confermando anche che, per quanto riguarda la musica, le avventure dell’azzimato e infallibile Hercule Poirot a bordo del leggendario convoglio sono appannaggio quasi esclusivo di compositori inglesi, dal Richard Rodney Bennett della versione-Lumet del ’74 sino alla serie televisiva con David Suchet, musicata da Christopher Gunning: anche se incuriosirebbe molto l’adattamento del romanzo operato da una recente miniserie giapponese con partitura di Norihiro Sumimoto…
In Doyle, comunque, c’è poco spazio per nostalgie citazionistiche o ripiegamenti autocelebrativi. Le partiture del compositore vibrano infatti sempre di un’intatta e rinnovata freschezza d’ispirazione, felicità inventiva e trasparenza di stile. I riferimenti, semmai, guardano altrove: la “train music” che attraversa tutta la partitura, per esempio, a cominciare da “The mailing wall” e poi “The Orient Express”, “Departure”, non possono non ricordare il celebre pezzo futurista di Arthur Honegger “Pacific 231”, dedicato ad una locomotiva, o – al cinema – l’insuperabile fantasismo ritmico di Jerry Goldsmith in 1855: la grande rapina al treno. Ma già dal primo brano emerge un tema conduttore accattivante e nobile, alternato a rapide e movimentate soluzioni contrappuntistiche come in “Arrival”, dominato da sapienti movenze arabeggianti.
Si capisce ben presto che la cifra prevalente di questo lavoro sarà un descrittivismo immediato e scorrevole, di grande presa, miscelato con un inconfondibile ma garbato sense of humour ed una irresistibile vena malinconica (“Judgement”) ; naturalmente, visto che pur sempre in un “giallo” ci troviamo (anche se dall’epilogo ormai arcinoto) Doyle provvede anche ad una buona dose di suspense music (“Touch nothing else” o il tesissimo “Twelve stabs found”), anche questa però ottenuta secondo metodi tradizionalmente consolidati: armonie sospese, lunghi pedali degli archi (l’orchestra è di impianto rigorosamente classico), temi secondari brevi e obliqui... Inoltrandosi nella vicenda tuttavia, è proprio la vena pensosa, meditabonda sino alla dichiarata mestizia, che sembra prevalere (“McQueen”), magari trovando la composta e aristocratica forma di un preludio quasi bachiano, come nel bellissimo dialogo pianoforte-cello di “The Armstrong case”, o di un sommesso adagio per archi, come in “Keep everyone inside”.
Più spinti sul versante thriller, con l’irruzione di effetti apertamente “scary”, sono “Confession”, o la coda repentina di “Geography”, o ancora l’ostinato di celli e bassi che sostiene gli altri archi in “One sharp knife”: qui ci si rammenta del Doyle di oltre un quarto di secolo fa per L’altro delitto, il thriller di Branagh fondato sul tema del doppio e del “passato che non passa”. Interessante anche osservare come i toni non si surriscaldino mai, anzi: dominano i pianissimi e le immobilizzazioni dei pedali, come in “True identity” o nel misterioso, pulsante “Dr. Arbuthnot”, aperto da un infinito si bemolle dei violini acuti sopra una pulsazione regolare di percussioni, quasi a contrasto palese con il dinamismo irrefrenabile della prima parte. Anche il gioco di contrasti si fa più accentuato, in un climax sospeso fra minaccia e inesorabile affiorare della verità: sono elementi che sembrano confluire nel lungo (quasi dieci minuti) “Justice”, che riprende inizialmente “The Armstrong case” in un’enunciazione quasi da epitaffio, che affida all’intenso fraseggio degli archi una pagina tra le più alte e toccanti del compositore britannico.
Quanto a “Poirot”, esplicitamente dedicato al baffuto investigatore belga, colpisce non tanto la scrittura per pianoforte solo (strumento caro a Doyle) quanto il rifiuto di quelle tonalità grottesche e quasi caricaturali presenti nelle pagine di altri compositori dedicate al personaggio (si pensi al Gunning della serie tv con Suchet), a favore di un pezzo sobrio e gentilmente ironico. Dopo la disarmante “Never forget”, una canzone che diventa quasi un lied moderno, sensuale e triste insieme, grazie alla voce calda e ipnotizzante di Michelle Pfeiffer tornata al canto quasi trent’anni dopo I favolosi Baker, l’”Orient Express suite” ricapitola abilmente i temi della partitura riproponendo i colori e l’andatura  dinamica del suo incipit, con la riaffermazione del tema principale sapientemente giocato tra violini e celli. Un commiato circolare, dunque, che chiude simmetricamente uno score accuratamente vintage ma anche lucidamente moderno.

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