Wonder

cover wonderMarcelo Zarvos
Wonder (Id., 2017)
Milan Records M2-36881
14 brani + 7 canzoni – Durata: 51’33”

La brillante ma oculata carriera che il brasiliano Marcelo Zarvos ha intrapreso nel mondo della musica cinematografica testimonia una personalità sensibile e attenta, che dagli studi svolti in America (al Berklee College of Music di Boston) ha appreso i segreti del mestiere, tralasciando le banalità della routine. Si tratta infatti di un compositore dallo stile rilassato, sobrio ma all’occorrenza penetrante, che si dimostra particolarmente a proprio agio in storie private, intime, anche fantastiche (Beastly) o cupamente poliziesche (Brooklyn’s Finest) ma costantemente caratterizzate da uno sguardo introspettivo e psicologicamente complesso.

 Quindi si deve proprio a lui se Wonder, storia potenzialmente strappalacrime di un bambino affetto da una grave malformazione facciale, esula da tonalità prevedibilmente patetiche o di commiserazione, e si mantiene piuttosto nei toni di una commedia adolescenziale dal sapore agrodolce, pedagogica nel senso migliore del termine ma sempre sorvegliata in direzione sdrammatizzante. Come se la musica puntasse a quella dimensione di normalità, di quotidianità dovute anche al piccolo protagonista: in questo senso brani come “Ordinary kid” o “The first day”, con un pianoforte conversevole impegnato in evoluzioni di brillante semplicità su un’orchestrazione leggera e saltellante, sono esemplari. Una giocosità, quella di Zarvos, non semplicistica o ingenua, ma accuratamente costruita per sottrazione, tra venature pop (“Shoes”, “Pop quiz”) e tentazioni minimaliste (“Halloween”) negli arabeschi ripetuti e ipnotizzanti del piano.
 L’impronta malinconica, che corre evidentemente lungo tutto lo score, emerge in pagine come “Winter”, dove il piano tesse una fragile tela di note acute contrapposte ad un denso pedale di archi gravi per poi dirigersi verso un intervento leggermente agitato di chitarre; si prosegue così, con discorsiva naturalezza, anche in “Wonder” e “Via”, senza superflue eccentricità o scivoloni lacrimevoli: disincanto e – malgrado tutto – sorriso sembrano essere le parole d’ordine che Zarvos qui si è imposto, ottemperate soprattutto grazie alla costante presenza del pianoforte come “voce” rasserenante (“Coney Island”), capace di evocare melodie innocentemente carezzevoli ma non per questo meno coinvolte e coinvolgenti emotivamente. Ad aperture più ariose ed orchestralmente ricche corrispondono poi “Letters” e “Spring”, mentre la sorprendente “Canera obscura” impegna il piano in movenze bachiane che s’intuiscono influenzate direttamente dal “Clavicembalo ben temperato” (in particolare dal Preludio e Fuga n.1); non è una sorpresa, perché Zarvos in realtà è anche un colto e raffinato autore di musica classica non meno che appassionato cultore di jazz. Il suo è dunque un avveduto polistilismo che gli permette sofisticate operazioni di contaminazione linguistica, oltre a consentirgli di applicarsi a generi narrativi molto diversi tra loro.
Né, in questo contesto, stupisce l’intelligente scelta delle canzoni che accompagnano lo score originale, scelte sia come elementi di collocazione narrativa sia come ulteriori momenti di alleggerimento: dai White Stripes a Hannah Faye, da Bobby Boris Pickett & The Crypt Kickers a Caroiline Pennell sino a quella “Wonder” cantata da Natalie Merchant il cui testo (“Le persone mi vedono, io sono una sfida al tuo equilibrio, sono troppo al di fuori della vostra portata come vi confondo, e come vi stupisco!”) è forse il più eloquente dei numerosi messaggi positivi e di speranza che il film trasmette.

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