The Commuter

Roque Baños
L’uomo sul treno (The Commuter, 2018)
Varese Sarabande 302 067 557 8 
16 brani – Durata: 71’46”


     
La carriera di Roque Baños ha assunto una traiettoria sempre più altalenante, oscillando tra inconfutabili prove del suo grande, visionario talento (soprattutto per film di registi suoi compatrioti, e soprattutto nel genere horror-thriller), ed esiti assai meno convincenti per quanto riguarda il suo “appeal” ormai internazionale, che lo vede sempre più coinvolto in produzioni impegnative verso le quali il cinquantenne compositore spagnolo sembra mostrare un certo disagio.

 Il film di Jaume Collet-Serra si trova nel guado fra queste due tendenze, trattandosi di un thriller serrato di produzione statunitense firmato dal talentuoso regista catalano di Orphan e Unknown e interpretato da colui che è ormai divenuto un suo attore-feticcio, Liam Neeson. E la stessa score di Baños pare situarsi e galleggiare in una zona franca abbastanza indeterminata, sospesa tra un’indubbia eleganza formale, di efficace tensione, e una certa routine assorbita probabilmente nel confronto con la prassi compositiva attuale di oltreoceano. Il tema principale di “A commuter’s trip” è sicuramente l’idea più forte: un incalzante moto perpetuo di piano e archi di lineare tematismo, sorretto da una ritmica che si aggiunge al repertorio di quella “train music” di cui è un esempio recente anche La ragazza del treno di Elfman. Questo dinamismo ritmico abita un po’ tutta la score (per esempio nel teso “Murdered for help”), giovandosi di un ampio ricorso all’elettronica e di un’impostazione che tende in modo piuttosto radicale al “sound design”, privilegiandolo sull’inventiva. Proprio l’elettronica insieme al pianoforte e al sostegno degli archi si rivelano alla lunga i protagonisti del paesaggio sonoro, a volte separatamente altre – più efficacemente, come in “They’re watching on you” – interagendo. La suspense, dunque, dovrebbe scaturire più da un impasto timbrico tutto sommato omogeneo, che non dall’emersione di idee o episodi isolati. Ma il condizionale è d’obbligo perché quel che forse difetta alla partitura è un guizzo, uno sbalzo di originalità, una zampata insomma di quelle cui il compositore iberico ci ha più volte abituato. In altre parole, tutto scorre fluidamente, con precisione e robusto mestiere, ma in un certo senso sottotono, sottotraccia. Gli archi emettono glissandi stridenti o mormorii inquietanti (“Zone 7 tickets”), picchettando e saltellando (“A suspicious man”), sibilando sugli armonici (“The seek starts”), e l’insieme orchestrale ha momenti di arroventata drammaticità, come in “A beautiful family”, provvisto di un tema eroico ribattuto che ricorda alcune delle pagine migliori del musicista.
 Il fatto è, però, che Baños si muove meglio o in territori apertamente “scary”, nei quali il suo virtuosismo orchestrale può dilagare sfrenatamente (il remake de La casa resta in tal senso insuperabile), o comunque in percorsi da una drammaturgia aperta, palese, esplicita; meno convincente è quando deve fare appello a soluzioni ambigue, indeterminate, interrogative, avvolte nel mistero. Qui egli tende a rifugiarsi nelle convenzioni, che peraltro maneggia magistralmente (“Moving vagons”), ma senza poter dispiegare appieno la propria ribollente creatività: ecco allora i “loop” della percussione, i rimbombi dell’elettronica, le pulsazioni indifferenziate, il pianoforte martellato, i crescendi costruiti per algoritmi: a volte con stringente adeguatezza, come nell’attanagliante “Don’t stop the train”, altre (“Finding the fitness”) in modo più banale.
 La statura del compositore si fa pur sempre largo nel respiro travolgente di “The train wreck”, anche se l’episodio dei corni si fa rimpiangere per la sua brevità, ma ad esempio l’insistenza, sprovvista di variazioni, nell’ostinato degli archi per accompagnare la marcia del treno, finisce col farsi monotona e prevedibile (la lunga “I won’t let them hurt you” così come la successiva “Who is Prince?”), e si accoglie con sollievo l’epilogo di “The end of the line”, con il severo lavoro degli archi, la morbida risposta in lontananza dei corni, le delicate terzine del piano e lo sfumare ritmico verso un orizzonte che rievoca il tema dell’inizio.
 La sensazione complessiva è che Baños, a differenza di altri colleghi della sua area come Velazquez, Cases o Navarrete, abbia particolarmente bisogno di un forte e originale input narrativo e registico per dare il meglio di sé. E come sappiamo non sono queste doti che abbondano nella corrente produzione hollywoodiana.

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