Hacksaw Ridge

cover hacksaw ridgeRupert Gregson-Williams
La battaglia di Hacksaw Ridge (Hacksaw Ridge, 2016)
Varese Sarabande 302 067 458 8
16 brani – Durata: 54’20”

Siamo davvero sicuri che La battaglia di Hacksaw Ridge sia un film “pacifista”? Solo perché racconta le eroiche gesta di Desmond Doss (interpretato da Andrew Garfield), il soldato-obiettore che nel ’45 a Okinawa salvò la vita a 75 suoi commilitoni senza sparare un sol colpo?
 Tutta la storia personale e artistica di Mel Gibson ci dice il contrario: personaggio dalle posizioni private per nulla tolleranti o “pacifiche”, l’attore e regista americano ma educato in Australia mescola in realtà la forte vena masochistica e sacrificale dei propri protagonisti (da L’uomo senza volto a Braveheart, dal Riggs di Arma letale al transfert sulla figura del Cristo in The Passion) ad un fondamentalismo religioso con punte di autentico fanatismo; ed è soprattutto irresistibilmente attratto dalla violenza, in un atteggiamento tra fascinazione e ripugnanza che suscita senz’altro interessi di tipo psicoanalitico.

 La storia di Doss è quindi un terreno perfetto per coltivare sul piano puramente spettacolare tutte queste contraddizioni, di cui è inevitabilmente chiamata a far parte anche la score di Rupert Gregson-Williams. Perché non v’è dubbio che nella lussureggiante partitura del compositore britannico spiri un’atmosfera rasserenante, distensiva e quasi idilliaca, soprattutto nella prima parte. Già a partire da “Okinawa battlefield” ad esempio si alza, nel suono stentato di due violini su un morbido tappeto di archi e elettronica, un tema conduttore che ricorrerà spessissimo e che nella sua andatura ha un sapore quasi mistico, sicuramente liturgico (vista la fede indefettibile del protagonista), addirittura ispirato al canto gregoriano. E la sua lentissima parafrasi nei legni e archi di “A calling”, contrappuntata dal canto dei celli, procede lungo il crinale di un lirismo contemplativo che in pagine come “Climbing for a kiss” tocca punte davvero emozionanti, soprattutto nell’utilizzo degli strumenti solisti, in prevalenza fiati. Le variazioni, sempre più allusive e sempre meno dirette, sul tema principale proseguono in “Throw hell at him”, mentre l’orizzonte della partitura si va via via rabbuiando, ma ancora senza esagerazioni o cedimenti all’enfasi; piuttosto c’è una specie di manto profeticamente funebre, intensamente elegiaco, che avvolge “Sleep”, con celesta, archi e legni a turnarsi in evoluzioni pacate e soffuse di tenerezza (”Dorothy pleads”).
 Ma le cose cambiano radicalmente a partire da “Hackasaw Ridge”: cominciano a soffiare i venti di guerra, e Gregson-Williams mobilita il proprio esercito hi-tech chiamando in causa cupi effetti corali, percussioni ossessive e profonde, esplosioni sonore metalliche e soffocanti (”Japanese retake the Ridge”), ottoni wagneriani raddoppiati, progressioni ritmiche travolgenti e sonorità da “fine-di-mondo”. Qui ovviamente si fa strada “l’ombra di Banco” chiamata Hans Zimmer, soprattutto nella costruzione di un’epica sonora totalizzante e senza appello, anche se aver inventato quella idea tematica “religiosa”, arcaicizzante iniziale consente al musicista di prodursi in apoteosi davvero suggestive (“One man at time”, “Rescue continues”) che hanno la potenza di un epicedio e insieme di un inno salvifico. Peraltro le pagine più impetuose ed esaltate sono abbastanza circoscritte, lasciando presto il posto ad amplissime aperture orchestrali e al dilagare di sonorità maestose (“Praying”), che però si risolvono in “Historical footage”, una ricapitolazione – sulle istantanee del vero Desmond Doss – dai toni inizialmente di nuovo sommessi e quasi cameristici, e che dopo un breve interludio luminoso si conclude tra severi e raccolti accordi di archi.
 Inutile, ovviamente, soffermarsi su quel tanto di retorico e di apologetico che una simile musica contiene: è evidente che per il regista e il suo musicista qui si trattava di nobilitare al calor bianco il valore e insieme “i valori” spirituali del loro protagonista, per cui non si tratta tanto di “battle music” quanto di vera e propria – a suo modo – “musica sacra”.

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