Isle of Dogs

cover isle of dogsAlexandre Desplat
L’isola dei cani (Isle of Dogs, 2018)
ABKO Music & Records 84932
15 brani + 7 extra – Durata: 43’30”

Nel suo scoppiettante e onnivoro attivismo, Alexandre Desplat sembra aver sviluppato alcune “specializzazioni” che si configurano come altrettanti capitoli all’interno di una filmografia che ormai viaggia oltre i 170 titoli in poco più di un trentennio. Uno di questi capitoli riguarda ad esempio il cinema d’animazione, che il compositore parigino declina sia sul versante puramente fantastico-avventuroso (Le 5 leggende, tanto per dire), sia su quello più leggero (Pets – Vita da animali, un altro cartoon “canino” come quello di cui qui ci occupiamo). Un ulteriore capitolo concerne il sodalizio particolare con alcuni registi, preferibilmente indipendenti e un po’ stravaganti, fra i quali può a buon diritto essere annoverato il surreale e stralunato Wes Anderson, con cui Desplat giunge qui alla quarta collaborazione dopo Fantastic Mr. Fox, Moonrise Kingdom e Grand Budapest Hotel.

 A volte questi percorsi s’intersecano. Anderson è ad esempio l’autore di questo nuovo film di animazione con cani parlanti, le cui atmosfere e il cui stile sono tuttavia diametralmente opposti all’ottimismo convenzionale, infantile e postdisneyano di Pets. Questa è piuttosto una parabola filosofica e quasi grottesca sull’emarginazione e sulle diversità, realizzata per di più con l’apparentemente obsoleta tecnica della “stop motion”, che conferisce all’animazione un’andatura spezzettata, marionettistica e a tratti volutamente sgradevole.
 Tutte caratteristiche che si riscontrano puntualmente nella score desplatiana, asciutta, anzi essiccata, pauperistica e a tratti respingente come poche altre. Vi si riscontra infatti, sin da ”Shinto Shrine” o “Second crash landing”, una perfetta corrispondenza con le dinamiche segmentate, meccanicistiche e innaturali dell’immagine, e più in generale con il clima piuttosto cupo e depresso che si respira nel film: prevale un ritmo di marcia burattinesca (viene in mente il Petruška di Igor Stravinsky o se preferite la “Sleigh ride” di Herrmann da L’oro del demonio, 1941, di William Dieterle), con rapidi e corti stacchi dei fiati in sordina, note ribattute dei legni, cori di bassi a mezza via tra la musica etnica giapponese (largamente presente , vista l’ambientazione) e i pope russi. Fortissima la prevalenza delle percussioni, affidate anche a compositori estremo orientali celebri per il loro lavoro in questo settore con strumenti quali il taiko o i flauti nipponici, come Kaoru Watanabe (“Taiko drumming” e “Tv drumming”). Questa andatura ossessiva e martellante che si ripete in forme più stemperate in brani come “The municipal dome” o si sospende in spettrali giochi ad eco come in “Six months later”, imprime alla partitura un’andatura vagamente funerea ma artificiale e parodistica nelle sue velleità marzialeggianti (“Toshiro”). I frammenti di musica, a volte brevissimi, si collegano così in una struttura coerente e – per ammissione stessa di Desplat – costantemente sorvegliata e organizzata dal regista in persona: in altre parole è come se qui il maestro francese ritrovasse parti di quella vena “minimalista” che ne aveva caratterizzato le prime prove fuori dai confini nativi (ricordate Birth – Io sono Sean?), ma estremizzata e ancor più rarefatta in un sound legnoso e aristocraticamente scostante, che paradossalmente però contribuisce ad “alleggerire” nel proprio innaturale andamento anche i temi tutt’altro che lievi del film.
 In una struttura musicale siffatta, i brani “extra” finiscono col diventare, a contrasto o a complemento, parte integrante del lavoro originale. Oltre ai già citati pezzi di Watanabe, spiccano due brani prelevati da partiture cinemusicali del cinema giapponese classico ossia “Kesame no oka” languidamente offerto dalla chitarra di David Mansfield e proveniente da L’angelo ubriaco (1948) di Akira Kurosawa, e “Kanbei & Kasushiro – Kikuchiyo’s Mambo” che la Tokyo Symphony Orchestra esegue dalla score di Fumio Hayasaka per I sette samurai (’54), sempre di Kurosawa; a questi si aggiunge una versione jazzistica anni ’50, cui provvede la storica band americana di swing The Sauter-Finegan Orchestra, della “Midnight sleighride” di Sergej Prokofiev per Il luogotenente Kijè (1934), classico del cinema sovietico di Alexsandr Fejnzimmer.
 Inoltre sfilano brani altrettanto d’epoca come l’ipnotica “I won’t hurt you” del gruppo rock psichedelico californiano The West Coast Pop Art Experimental Band, attivo negli anni ’60, e – più indietro ancora – un gioiellino di swing giapponese anni ’40 come “Tokyo Shoe Shine Boy”, dalla voce spigliata e sottile di Teruko Akatsuki, attrice e cantante popolarissima del periodo.
 Non sono sfoggi di erudizione ma, come si diceva, tasselli di un altro dei puzzle musicali cui il cinema di Wes Anderson ci ha abituati, e del quale il contributo di Desplat è senz’altro una componente bizzarra e decisiva.

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