Thank You for Your Service

cover thank for your srviceThomas Newman
Thank You for Your Service (Id., 2017)
Sony Classical 88985484172
19 brani – Durata: 35’29’’



Forse non tutti sanno che Thomas Newman, prima del lavoro di cui andremo a parlare, aveva già musicato una pellicola sui postumi della guerra. Trattasi di Brothers (2009, di Jim Sheridan), melodramma con Tobey Maguire e Natalie Portman, a sua volta remake di un film di Susanne Bier: un racconto sbilanciato sul versante sentimentale, a dire il vero. Thank You for Your Service (prodotto dalla Dreamworks di Spielberg e purtroppo inedito da noi) si concentra invece con più convinzione sul disturbo da stress post-traumatico che colpisce i soldati di ritorno dalla guerra: vengono infatti narrate le vicissitudini di tre giovani veterani che, tornati dai propri cari in Kansas dopo una spedizione in Iraq, mostrano segni inequivocabili di grande disagio. E la società non li aiuta molto: uno di loro si suicida.

Non è Il Cacciatore di Cimino, per carità, ma certi spunti narrativi, specialmente nella prima parte, consentono al compositore di rinvigorire la propria scrittura, per piccolo ensemble orchestrale ed elettronica secondo coordinate stilistiche ben note, con sfumature più interessanti rispetto alla score per il sopracitato film di Sheridan. Così, se il tema alla chitarra di “Jax” e i tappeti synt di “Kansas River” e “Robbed Blind” ricordano ancora da vicino quel lavoro e non brillano per potere evocativo, tracce come “Gunmetal Clatter” o “April 28” sfoggiano una componente acustica (piano e archi nella prima, solo archi nella seconda) abilmente declinata, per evoluzioni armoniche insieme placide e fortemente suggestive: il primo di quei brani, in particolare, assume quasi i contorni di un estenuato inno giovanilistico. È grazie a momenti come questi che Thomas Newman risulta oggi uno dei cantori più convincenti dell’americanità al cinema (per questo aspetto si ascolti anche Il ponte delle spie); ma ha svolto (e svolge) un ruolo significativo in tal senso anche il profilo armonicamente fermo, trasparente del suo comporre, evidente qui in una traccia come “Come to bed” (pervasa da malinconici interventi di chitarra elettrica) che evoca una pace tanto agognata quanto irraggiungibile. Il resto di questa partitura contempla un’elettronica a volte miracolosamente efficace (il crescendo implacabile di “You Have to Go Away”), altre pericolosamente monotona (la pulsante “Rain Little Solo”); specialmente per le scene raffiguranti gli orrori della guerra (“I Can Still Taste His Blood”, “Doster Scream”, “None Of This Would Have Happened”), si insiste su sonorità ambient sgradevoli e alla lunga ripetitive, con un solo vero culmine rumoristico – l’incipit di “April 28” – a riprova della predilezione del musicista per la riflessione e il dramma rispetto all’azione.
La score giunge ad un finale catartico – i rintocchi gravi e definitivi del piano nella coda di “Dog Tag (Ending)” – ma l’impressione complessiva rimane quella di una musica livida, semplice solo in apparenza – la nutrita lista di “instrumental soloists”, posta nei credits, lo comprova – e capace di affacciarsi, fin dove la poetica del suo autore lo consente, sull’insondabile baratro del trauma.

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