120 battements par minute & Eastern Boys

Arnaud Rebotini
120 battiti al minuto (120 battements par minute, 2017)
Because Music Records
17 brani – Durata: 56’26”

Arnaud Rebotini
Eastern Boys (2013)
Blackstrobe Records
13 brani – Durata: 23’13”

Si discute molto, e legittimamente, se sia lecito e corretto parlare di “cinema gay” come un cinema “di genere” (e l’accezione assumerebbe qui valore ambivalente). Ovvero, se esista una specificità linguistica, estetica e stilistica del cinema su tematiche legate all’omosessualità. Da un lato il rischio è semplicemente quello di ribadire e consolidare una ghettizzazione, sia pure con ottimi intenti (dei quali, com’è noto, sono lastricate le vie dell’inferno…); dall’altro però se esistono festival, rassegne, pubblicazioni dedicate a questi film qualcosa vorrà pur dire. La questione tra l’altro si fa ancora più spinosa se al suo interno distinguiamo tra maschile e femminile. Il cinema di area “lesbo”, ad esempio, oltre a virare spesso sul fronte lirico-melò-sentimentale (si pensi a film recenti come Io e lei o Freeheld), ha tutta l’aria di rivolgersi ad un pubblico maschile, sfruttandone le innegabili vocazioni voyeuristiche (come spiegare altrimenti il clamore intorno allo stucchevole La vita di Adèle di Abdellatif Kechiche?), raramente trovando il rigore e l’asciuttezza necessarie per raccontare storie “dall’interno” (si pensi a Go Fish di Rose Troche, 1994).

 Il cinema di area maschile invece è più battagliero e aspro, nonché disperato ma anche – a volte – ardentemente romantico: i suoi autori sanno probabilmente che non possono contare fra il pubblico femminile sui medesimi meccanismi voyeuristici innescati viceversa fra i maschi dal cinema “lesbo”. Ma è stato soprattutto il flagello dell’Aids a cambiare la prospettiva e a far uscire queste cinematografie dai recinti della metafora o dell’allusione per affrontare direttamente personaggi, corpi, anime e sentimenti.
 Il dibattito potrebbe agevolmente spostarsi sulla musica: esiste una musica per film “gay”? Sul fronte-donna i compositori (quasi sempre maschi) fanno sovente appello a tonalità intenerite e sobriamente romantiche, declinate ovviamente secondo le rispettive predilezioni (si pensi ad esempio al Carter Burwell di Carol), mentre su quello maschile c’è forse maggior disinvoltura ed eclettismo, oltre che una certa dose di aggressività rockettara. Un terreno, quest’ultimo, su cui si muove come un pesce nell’oceano il francese Arnaud Rebotini, popolarissimo disc-jockey, collezionista e polistrumentista, componente di numerose band di death metal, particolarmente affezionato al sound degli anni Novanta e specialista nel genere cosiddetto “electro house”, caratterizzato da una linea di bassi invariata e costante che segna il ritmo in una forbice che va dalle 125 alle 135 pulsazioni al minuto. Donde il titolo del film di Robin Campillo, ambientato proprio nei ’90 e incentrato sulle vicende di un gruppo di attivisti parigini impegnati nella battaglia contro le discriminazioni e la criminalizzazione dell’omosessualità.
 Dunque rabbia e nostalgia, in questo suggestivo pot-pourri musicale, ma non solo: le conoscenze enciclopediche di Rebotini in materia di underground e sound anni ’90 sono utilizzate in maniera culturalmente intelligente e non meramente citazionistica.  E su tutto domina un vitalismo nervoso, ostinato, compulsivo (“Sean & Nathan la nuit”) che però si fonda su un semplice e ricorrente tema accordale re minore-mi minore-si minore, dal sapore quasi ieratico (“120 battements par minute”, “Jeremie est mort de Sida”) e decisamente anomalo in una score di questo tipo: tanto più se elaborato per severi accordi pianistici, come nel secondo brano; o addirittura confinato in un fantasmatico dialogo flauto-violoncello, come in “AZT DDI DDC”.
 C’è insomma un’anima classicheggiante in questo lavoro, che convive serenamente con quella techno (“Minority swing, “Housing committee”) all’insegna di un vitalismo “ambient” disincantato e sapientemente dosato sul fronte tecnologico, che Rebotini ripercorre non con sterile rimpianto ma come scenografia sonora fondamentale per la rievocazione di un’epoca, delle sue battaglie e delle sue sconfitte, anche attraverso il recupero di brani d’epoca come ad esempio “What About This Love” di Mr. Fingers, (al secolo Layy Heard, produttore e musicista afroamericano), riproposta in chiave house dal remix dei KenLou (un duo di produttori e remixer statunitensi noti anche come Masters at Work).
 Diversamente dall’impronta combattiva e “militante” di 120 battiti al minuto, in Eastern Boys, di quattro anni precedente, Campillo inserisce la tematica gay in una struttura di torbido e coinvolgente “noir”; e non a caso lo stile di Rebotini si dimostra qui radicalmente differente. L’impianto della breve partitura è decisamente più classico, strumentale, ma anche più asciutto e filiforme, quasi sottrattivo. Intervengono pochi strumenti, in veste di solisti (flauto, clarinetto, arpa, violoncello, xilofono), in un gioco di raffinati contrappunti e intersezioni basati su cellule elementari e ripetute, che ricorda un po’ i lavori del nostro Teho Teardo. Così, pagine come “Arrestation” o “Couloir boss”, con i loro temi cortissimi (in realtà “idee” motrici”) e il tintinnare iterato dell’arpa, creano un clima di sospensione e di tensione sotterranea, che cresce con il ripetersi di coppie di note da una sezione all’altra (“Negociation”) intervallato da lunghi, smorti interventi di cello o flauto o clarinetto basso.
 L’intelaiatura della score appare dunque schiettamente cameristica ed estremamente moderna nel lessico, con l’abiura preventiva di tranquillizzanti melismi o facili appigli tonali: e con risultati a volte sublimi, come la lunga frase del cello sostenuta dal disegnino ostinato di xilofono e pianoforte di “Eastern boys”. Le influenze “techno” o “house” che dilagheranno nel film successivo lasciano qui lo spazio ad una loro scarnificazione semantica, che le riduce a mera pulsazione cardiaca (“Un peu de verre cassé”, “Who’s gonna play this old machine?”) mentre ricompare spettrale e insistente quella piccola, tintinnante idea centrale (“Le doute”, “Encore un doute”) alla lunga rivelatasi di straordinaria efficacia psicologica. L’intarsio bucolico, frizzante dei legni di “La chambre” e la filigrana notturna, popolata di lunghissime pause/silenzio, lungo cui si muovono clarinetto basso e arpa in “La nuit” sembrano infine quasi un manifesto poetico di Rebotini, evidentemente capace come pochi altri di guardarsi indietro ma anche di abitare il presente. Non a caso, per due film che ci dicono come ci si possa e debba battere per l’uguaglianza pur amando le differenze.

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