Eva

cover evaBruno Coulais
Eva (Id., 2018)
EuropaCorp
12 brani – Durata: 18’05”

Alla sua quarta collaborazione con l'eclettico regista Benoît Jacquot (dopo Addio mia regina, Journal d'une femme de chambre e Tre cuori), Bruno Coulais abbandona i panni rassicuranti del compositore francese più richiesto (dopo Alexandre Desplat, ça va sans dire...), in un ventaglio di stili che va dal naturalismo documentaristico al fantasy al noir, e sceglie per questo torbido melò a due tra Gaspard Ulliel e Isabelle Huppert la strada di un radicalismo elettronico che sinora non gli conoscevamo: applicato, per di più, per frammenti sparsi, a volte brevissimi, in una delle partiture più stringate mai ascoltate.

 Si sarebbe tentati anzi di coniare il neologismo “elettroimpressionismo” per descrivere la misteriosa volatilità, l'inafferrabile, onirica sostanza di queste pagine, spesso brevi come un sospiro e portatrici di un clima rarefatto e sospeso, quasi intorpidito dall'assenza di spigolosità ritmiche o di impennate dinamiche. I due “Génériques” ad esempio, il fulmineo, lapidario “Début” e il più disteso “Fin”, si snodano in forma di corale con effetti lugubri di ottoni su volute nebbiose di sonorità fantascientifiche, mentre “Vers le chalet” ha sonorità più profonde, cupe, sulle quali rintocca una specie di tema sinistro costruito su ampi intervalli. Ancora più inquietanti si rivelano i 41 secondi di  “Dans le taxi”, che ripropone questo accenno tematico in una luce particolarmente ostile, sottolineandone la valenza politonale e minacciosa, mentre “Eva et Bertrand” si fonda su un sound meccanicistico, materico, da scenario cyberpunk.
 Tonalità solenni, contemplative emergono invece da “À la montagne”, ricordandoci quasi il Vangelis di Blade Runner a conferma di quell'intenzione astratta, atemporale e antinaturalistica che è alla base della partitura di Coulais; lo stesso dicasi per i cluster avviluppanti di “Un coup de fil”, sempre però attraversati da un effetto “barattoli rotolanti” che si ascolta un po' ovunque. Anche “Le rêve” si dipana tra vibrazioni sommesse, riverberi lontani e pennellate politonali, così come “Bertrand seul” evapora in una serie di accordi sempre più distanti e sperduti, confermando l'aura metafisica e impalpabile dell'intera OST. Una blanda scansione ritmica percorre “Je me tuerai”, fondato ancora sul ripetersi di idee accordali su un lieve saliscendi dinamico dei synt, mentre “Trop noir” naviga lungo un flusso indistinto di bassi sul quale fluttuano pochi, solitari cenni di quello che potrebbe essere niente più che l'embrione di una seconda idea tematica.
 La silloge di un simile, totalmente spiazzante lavoro, è “Le temps passe”, una nenia di trenta secondi che si spegne prima ancora di essere nata. In realtà questa score ha tutta l'aria di un esperimento tecnico, quasi una sfida laboratoriale per un compositore altrove molto comunicativo e “classico”: rimane però il fatto che la sequela di suoni campionati, indeterminati e alieni che ne scaturisce fornisce anche la chiave di lettura per una vicenda autodistruttiva di amore e morte che proprio Coulais contribuisce in maniera determinante a rendere emblematica e radicale: oltretutto, e forse soprattutto, con un'economia di mezzi e di dimensioni che ha ben pochi precedenti.

Stampa