The Miracle Season

cover the miracle seasonRoque Baños
The Miracle Season (2018)
Meliam Music
15 brani – Durata: 40’14”

La fase “americana” della carriera di Roque Baños segna qui un capitolo che suonerà senz’altro originale alle orecchie di chi ama questo compositore soprattutto per le sue travolgenti e telluriche architetture sinfoniche horror/fantasy: e si tratta di un notevole passo avanti anche rispetto ad alcune prove recenti francamente un po’ deludenti come L’uomo sul treno.

D’altronde, lo stesso genere cui appartiene il film di Sean McNamara, biografico-sportivo con una forte componente melodrammatica, attesta la portata di questa svolta e spiega le scelte stilistiche del compositore: The Miracle Season è infatti la storia della squadra di volley femminile della West High School, nell’Utah, colpita nel 2011 dalla tragica scomparsa in un incidente di moto, ad appena 17 anni, della propria “front leader” Caroline Found, alla quale il team dedicherà da lì in poi ogni propria partita e vittoria. Dunque una vicenda potenzialmente assai lacrimevole e altrettanto edificante: entrambe categorie abbastanza estranee al DNA creativo del maestro spagnolo.
 Tuttavia a sorprendere qui è proprio la perfetta aderenza di Baños a quel clima e a quei toni, almeno sul piano prettamente formale, cui però egli aggiunge di suo quella intatta e straordinaria inventiva tematica e quella varietà di colori che appartengono alle sue prove più alte. A tale proposito converrà togliersi subito il pensiero: è evidente, sin dalle prime note di “The best friends”, che c’è un’ombra di Banco grande come una casa ad incombere su questa partitura, e quell’ombra si chiama James Horner. Orchestrazione leggera e rapida, linee melodiche fluenti sostenute da profondi rintocchi dei bassi, un pianoforte svelto e mormorante, ed in generale il climax pastorale e intimista della score ricordano in modo impressionante il linguaggio del mai abbastanza rimpianto compositore americano, magari in prove di argomento consimile come L’uomo dei sogni o Bobby Jones – Il genio del golf. Forse è autentico citazionismo, forse solo una coincidenza (anche se alle coincidenze, in arte, è difficile credere): tuttavia c’è in questa partitura anche una profondità introspettiva, una felicità di soluzioni e soprattutto una struttura rigorosamente classica, si direbbe “vintage” (soprattutto nella scelta di un’orchestrazione rigorosamente tradizionale) che ne fanno qualcosa di assai più rilevante che non un semplice ricalco.
 Il brano iniziale succitato, ad esempio, esibisce subito un tema principale tanto lieve quanto vivace e adolescenziale, nello staccato dei violini poi ripreso dal piano, che è un’idea semplice ma penetrante; del pari, “Found family” arriva direttamente al cuore ma senza il minimo eccesso strappalacrime, nel fraseggio morbido del piano ripreso dal clarinetto e dal flauto, in un dialogo di sommesso, vibrante e struggente camerismo. Ed egualmente “The terrible news” si muove lungo una progressione degli archi che sfocia in due lunghi pedali sui quali tromba prima e corno poi, da soli, alzano un secondo tema, che si rivelerà poi preponderante, una sorta di epicedio contrappuntato da funerei rintocchi bassi, in un’atmosfera questa sì davvero horneriana. Sarà proprio quest’ultimo leit-motif a ricomparire, come preludio ad una ritrovata, ottimistica mobilità degli archi, in “Back to training”: particolarmente raffinato qui il reticolo e l’interscambio fra le sezioni, dagli archi ai legni agli ottoni, il tutto con un fraseggio attento e modulato ed una costante tensione contrappuntistica, in un gioco di sfumature e di contrasti dal tocco sapiente, sino a quel breve ma indimenticabile scambio di battute tra violino e violoncello, un vero apice emotivo oltre che esempio di scrittura d’altri tempi.
 Si sbaglierebbe però a valutare questo lavoro unicamente dal versante commemorativo: “Coach goal” per esempio, con il suo tambureggiare e la sua saltellante ritmica, testimonia la voglia di reagire e l’insopprimibile vitalità delle componenti della squadra, aprendo la via alla parte più “edificante” e positiva della score (“Home coming game”), che si vale di atmosfere quasi da western, con ritmi galoppanti e corni svettanti in un nuovo tema imperiosamente scolpito. Lo stesso secondo tema inaugurato così mestamente in “The terrible news” è centrale, ma ben diversamente declinato, in “Win for line”: dove sul rullare dei tamburi e l’ostinato degli archi ad esporlo perentoriamente sono prima i corni, poi trombe e tromboni in sordina, infine i legni. Il che dimostra la capacità del compositore di lavorare sui materiali senza mai darli come assunti una volta per tutte ma modellandoli e variandoli continuamente in base alle esigenze e alla mutevole, imprevedibile ricchezza della propria ispirazione.
 Ne è un altro esempio “Redemption”, che riprende il tema di “Found family” ma abbassandolo di tonalità e facendone seguire l’esposizione pianistica dall’intervento congiunto di archi e tromba sola, sul rintocco evocativo e spirituale di una campana. Qui si ha la netta impressione che Baños sia perfettamente consapevole anche degli stereotipi con cui è alle prese, e decida di affrontarli non aggirandoli o distanziandosene, bensì parafrasandoli direttamente e sviluppandoli attingendo al proprio pressoché inesauribile tematismo: si ascoltino le variazioni spiritate, brusche del secondo tema , interrotte poi dalle movenze western già citate, in “State finals”, in uno scenario sonoro che assorbe persino fanfare williamsiane e ipermobilità alla Silvestri.
 Ma c’è ancora tempo per i momenti del ricordo e del rimpianto nel delicato “Missing Caroline”, tra volute pastose di archi e cenni del tema di “The terrible news”, con una coda più dinamica che rinvia al tema d’apertura. Nuove, appena accennate e lentissime variazioni ci attendono in “Play with joy”, con lunghi pedali di violini e timide note del pianoforte, sino ad un’improvvisa, affermativa ed energica accensione ritmica del tema principale. D’altronde, preparati dal cantabile dispiegato degli archi e dalle sonorità epiche quantunque contenute dei corni di “A tribute”, ci si avvia alla conclusione sotto il segno di un vitalismo funky e sfavillante, tra squilli di ottoni e rulli di tamburo, in “Final game starts”: ma sono soluzioni infinitamente meno interessanti dell’attenzione con cui viene costruito passo dopo passo il crescendo emotivo di “Win for ourselves”, dove il proverbiale trionfalismo yankee è convogliato in un sinfonismo marziale di geometrica potenza e precisione: e il clou giunge giustamente con “The victory”, in una adrenalinico scatenarsi di batteria e percussioni cui segue un interludio meditativo fondato sul tema conduttore per riproporci poi l’iniziale motivo di “The best friends”. Chiudendo senza strepiti né sfoggi muscolari, ma anzi tra le tenui note del solito pianoforte sorretto con dolcezza dai violini, una partitura nella quale si celebra sì la voglia di vincere e di vivere, ma anche l’insopprimibile malinconia che pervade l’animo umano dinanzi alle spietate scelte del destino.

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