The Lord of the Rings: The Fellowship of the Ring

Howard Shore
Il Signore degli Anelli – La Compagnia dell’Anello (The Lord of the Rings: The Fellowship of the Ring, 2001)
The Complete Recordings
Rhino Records 49454CD
CD 1: 14 brani – Durata: 58’39’’
CD 2: 14 brani – Durata: 59’11’’
CD 3: 9 brani – Durata: 63’05’’
Disco Blu-Ray – Durata: 180’37’’

Tutto ci si sarebbe potuto aspettare da Peter Jackson, dopo lo splatter degli esordi e l’approdo autoriale di Creature del cielo – senza dimenticare la summa comedy-horror di Sospesi nel tempo –, fuorché un kolossal tratto dal capolavoro fantasy in tre parti di J. R. R. Tolkien: Il Signore degli Anelli. Oggi, a 17 anni di distanza, il trittico del regista neozelandese è invece l’opera con cui – a torto o a ragione – si identifica maggiormente la sua personalità artistica; e analoga sorte, anche grazie alla più recente trilogia de Lo Hobbit, spetta alla figura del compositore Howard Shore, di cui si finisce spesso per dimenticare, ad esempio, l’insostituibile contributo per il cinema di David Cronenberg. Proprio a partire dal rapporto con quest’ultimo, si potranno enucleare alcune delle caratteristiche fondamentali della titanica operazione di Jackson.

Entrambi nati artisticamente al di fuori dell’establishment hollywoodiano, Cronenberg e Jackson sono riusciti a creare nel tempo un rapporto fruttuoso con le grandi case di produzione – grazie anche alla frequentazione, soprattutto agli inizi, di generi “popolari” quali l’horror e la fantascienza – attraverso cui la loro visionarietà ha potuto disporre di ampia distribuzione (e del necessario appoggio produttivo). E se nei primi film Jackson sembrava far propria la lezione di Sam Raimi e del “cinema dell’eccesso”, la maturità artistica lo ha portato a una condensazione stilistica in cui risulta superato, esattamente come in Cronenberg, ogni barocchismo visivo – dall’esaltazione dell’effetto speciale raccapricciante all’ostentazione del virtuosismo tecnico – in vista di una sintesi estremamente composta, ma dove le pulsioni originarie non vengono annullate, bensì poste a fondamenta di una più sofisticata “poetica del disfacimento”. Così, quale autentica prova di tale maturità, Il signore degli anelli risulta “barocco” nel senso di altamente metaforico, polisemantico. Il tema dell’eterno scontro tra il Bene e il Male, ad esempio, lascia spesso spazio al racconto di formazione, zeppo di allusioni sessuali (come spesso nel fantastico cinematografico, si veda ancora Sospesi nel tempo o Spider-man di Raimi) – l’anello come oggetto/fardello di potere e seduzione – e in cui le visioni allucinate e celestiali del fantasy tradiscono sempre una derivazione terrena, dolorosamente carnale. Non stupisce dunque la scelta di Howard Shore come compositore della colonna sonora; è difficile anzi immaginare musicista più adatto a tradurre questa dicotomia – alla ricerca di una vera e propria “terra di mezzo”, tra visioni di eterea bellezza e immagini di devastante brutalità – di lui che fu già cantore delle apocalissi interiori di tanto cinema degli anni ’80 e ’90 (non scordiamoci de Il silenzio degli innocenti). Ancora più evidente, in retrospettiva, appare la comunione d’intenti del progetto cinematografico e di quello musicale, nella dimensione in cui entrambi sono volti a un ritorno alle origini – rispettivamente alle grandi produzioni del cinema muto e al tematismo fluviale della cosiddetta “Golden Age” della musica da film – che non è frutto di nostalgia ma di un instancabile sperimentalismo.
 Così come abbiamo desunto alcune caratteristiche del film partendo dal rapporto col cinema di David Cronenberg, descriveremo il tratto distintivo delle musiche dal confronto con il lavoro del precedente collaboratore di Jackson: Danny Elfman. Per il suo unico contributo all’opera del regista, ovvero il già menzionato Sospesi nel tempo (The Frighteners), Elfman ha interpretato la suddetta dicotomia, ovvero quella tra una dimensione terrena e una soprannaturale (ossessione Jacksoniana dai tempi di Creature del cielo), con un processo soprattutto di sovrapposizione – conformemente alla propria poetica – tra visioni angelicali (l’utilizzo del coro femminile) e sonorità di scabrosa violenza (il trionfo di dissonanze e scontri timbrici). Al contrario, Shore ha scelto – guidato dal manicheismo insito nel racconto epico-fantasy – una struttura a compartimenti stagni, dove quelle due anime rimangono sostanzialmente divise. È ciò che si evince già dal primo brano: “Prologue: One Ring To Rule Them All”, dove un pedale di archi e il suono del monocordo preludono l’entrata del coro femminile che enuncia uno dei temi dedicati agli Elfi (per la descrizione precisa dei motivi e delle loro interrelazioni si rimanda al saggio di Doug Adams all’interno della confezione), a cui segue subito, agli archi, quello celeberrimo relativo all’Anello; già due motivi di folgorante immediatezza, stillanti rispettivamente distacco ultraterreno e tragico fatalismo. Ma ecco che giungono, su note staccate e dissonanze, le sonorità più palesemente richiamanti le Forze del Male, immortalate in una serie di indimenticabili identità musicali: un ostinato di terze discendenti; un motivo omoritmico e accordale, affidato ora agli ottoni ora al coro misto; una linea nervosa e accentata, caratterizzata da un luciferino salto di seconda aumentata; il tutto disposto sul tuonare della percussione e organizzato in una serie di insostenibili crescendo; spicca sempre, nella scrittura complessiva e in particolar modo nella parte conclusiva di questa traccia, il ruolo degli archi, pastosi e penetranti nel susseguirsi di tonalità minori, fortemente evocanti un nerissimo senso di rovina imminente. Nel brano compare per la prima volta anche il tema, subdolo e supplichevole, dedicato alla figura di Gollum; e la modulazione in maggiore che termina questo primo pezzo preannuncia la presentazione di altri temi, ovvero quello per le creature degli hobbit, che si svolge in una serie di variazioni dall’inconfondibile sapore celtico, e quello, introdotto dagli ottoni e di carattere spavaldamente eroico, per la “Compagnia” del titolo. Il primo di questi – forse meno godibile di quelli già incontrati per chi non condivide la joie de vivre degli hobbit – domina i brani “The Shire”, “Bag End” e “Very Old Friends”, in cui, oltre alla summenzionata varietà di enunciazione tematica, spicca l’utilizzo di strumenti etnici, dal bodhrán al dulcimer (anche per questo aspetto si rimanda al libretto di Doug Adams). Al termine di questo lotto si segnala un’appoggiatura risolutiva di semitono ascendente in tonalità maggiore, analoga (entrambe risolvono sul quinto grado delle rispettive scale) a quella, su armonia minore, che apre il tema principale dell’anello: forse a voler presagire l’imminente e gravoso rapporto che i festosi hobbit avranno con l’Anello? Se è così, non è l’unico elemento musicale atto a tale scopo: solo nel primo di quei brani sono totalmente assenti l’instabilità delle armonie e l’aggravamento dei toni, poi preponderanti a partire da “Keep It Secret, Keep It Safe”, dove compaiono nuovamente alcune identità del Prologo, circondate da grovigli e glissandi di violini. Suggestiva non meno della straordinaria messa in scena di Jackson, la musica di Shore prosegue su questo metodo di accostamento e contrapposizione: arriva così la livida “A Cospiracy Unmasked”, gli ultimi secondi della quale introducono un altro ostinato, anch’esso (come quello, già citato, di terze discendenti) volto a sottolineare la minaccia inesorabile del Male; e poi la cupamente avventurosa “Three Is Company”, che segna nelle prime battute la comparsa di quello che le note del libretto identificano come tema della “Seduzione dell’Anello”, immobile su un lungo pedale di archi ed enunciato dal coro per una resa evocativa di quieta ineluttabilità, lontanissima dalla sinuosità drammatica del suo gemello più noto. “Saruman the White” e “The Nazgûl” (che chiude il primo CD) sono pure pagine terribili, devastate dalle incursioni titaniche del coro, così come lo è lo stupefacente brano d’azione che apre il secondo disco, “Weathertop”, con il coro ancor più minaccioso, un tagliente glissando dei violini e un insostenibile crescendo finale. La linea drammatica del film porta, in questa seconda parte del commento musicale, all’introduzione di altri temi: in “The Caverns of Isengard” esordiscono quello per gli Orchi, su pattern dispari, e quello per la Natura, per voce bianca e caratterizzato da modulazioni per semitoni ascendenti. È poi la volta di Arwen (l’elfa interpretata da Liv Tyler), cui è dedicato un motivo che è un vero apice di ultraterrena bellezza, ancora affidato al coro femminile (“Give Up The Halfling”, la cui parte centrale è un’altra esplosione del caratteristico “stile concitato” del compositore). L’inventiva torrenziale di Shore non si ferma qui: il tema di “Rivendell” e la principale identità musicale per i Nani, basata su quinte parallele ascendenti (“The Doors Of Durin”), ne sono solo alcune prove; ma questa non è la sede per fare un elenco esaustivo dei temi – già stilato da Adams, come detto sopra – e basterà rilevare come il potere evocativo della musica di Shore, frutto di un’ispirazione eccezionale che regge miracolosamente l’urto della lunga durata (oltre 3 ore), non conosca praticamente pause: i toni cupissimi degli ottoni di “The Sword That Was Broken” e quelli squillanti di “Orthanc”; le modulazioni rischiaranti e i tetri crescendo spezzati degli archi in “The Council Of Elrond Assembles; i toni elegiaci di “The Great Eye”; la melodia al contralto nell’incipit di “Gilrean’s Memorial” – che sembra uscita da un madrigale monteverdiano –, cui seguono minacciose incursioni del coro, giochi tensivi e trascoloranti degli archi, nonché un crescendo che sfocia nella resa più trionfalistica del tema della “Compagnia”; e poi i picchi avanguardistici – in cui si fa uso di tecniche della “musica aleatoria” – dell’ultimo minuto di “The Doors Of Durin”.
A partire dal terzo CD, la scrittura sembra non mostrare particolari sorprese, e tuttavia è difficile resistere al climax inarrestabile della struttura complessiva: dalle tonitruanti “Khazad-dûm” (dove spicca un coro maschile di cantanti non professionisti, evocante le figure rudi dei Nani) e “The Fighting Uruk-Hai”, fino all’accorata “The Departure Of Boromir” e alle magistrali “The Road Goes Ever On…, Pt.1” e “The Road Goes Ever On…, Pt. 2” – inframezzate da “May It Be”, cantata da Enya – basate principalmente sul materiale tematico relativo agli hobbit e vibranti in egual misura di malinconia e speranza. Il tema principale degli hobbit, affidato di volta in volta al flauto, al coro di bambini o alla voce bianca sola, lascia poi il posto al motivo di Gran Burrone e, in fine ultimo, a quello della “Compagnia”, che termina questa prima parte della trilogia sulla nota di un eroismo spettacolare.
La grandezza dell’operazione è chiara già adesso – anzi sarebbe bastato, a constatarla, l’ascolto del prologo o della parimenti emblematica “The Mirror of Galadriel” – ma per tirare le somme attendiamo di rispolverare i prossimi due segmenti in versione completa…

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