Dances with Wolves

cover dances with wolves expandedJohn Barry
Balla coi lupi (Dances with Wolves, 1990)
La-La Land Records LLLCD 1350 – Edizione limitata 5000 copie
CD 1, 31 brani – Durata: 69’11”
CD 2, 14 brani + 15 di additional music – Durata: 75’33”


     
Quinto e ultimo Oscar vinto nella sua splendida carriera, Balla coi lupi rappresentò a tutti gli effetti per John Barry una rinascita, non solo artistica. Il compositore inglese, all’epoca 57enne, usciva infatti da due anni di forzata inattività, dopo un gravissimo, potenzialmente letale problema di salute (la sindrome di Boerhaave, in pratica la rottura dell’esofago): tanto che la partitura venne dedicata ai tre medici che gli avevano salvato la vita e consentito un altro decennio di attività.

Queste ed altre preziose informazioni ci sono fornite da Randall D. Larson nel suo vero e proprio saggio intitolato “The Rhytms of Simplicity”, pubblicato sul booklet di 24 pagine a corredo di questa monumentale riedizione estesa in 2 CD della partitura con cui Barry – dopo un iniziale assignment a Basil Poledouris, che dovette però declinare l’offerta perché contemporaneamente impegnato in un film dell’amico e sodale John Milius – accompagnò l’ambizioso e blasonatissimo (sette Oscar) esordio nella regia di Kevin Costner.
Il western, almeno nella sua forma tradizionale, non è un genere che Barry abbia frequentato con grandi riscontri: la sua “The man in the mask” per La leggenda di Lone Ranger vinse addirittura un “Razzie” (l’anti-Oscar) nell’81 per la peggior canzone (giudizio ingeneroso, anche perché la score è notevole e sincera), ma da ricordare sono altre due partiture per titoli oggi semidimenticati come Monty Walsh un uomo duro a morire e soprattutto Sfida a White Buffalo. Certo, il clima della Frontiera non era familiarissimo a questo suddito di Sua Maestà nato a York e formatosi negli anni più fulgidi della swinging London: in ogni caso, di sicuro non quello del western classico alla “arrivano i nostri”. Per dare il meglio di sé gli serviva appunto una lettura diversa, storicamente critica (oggi diremmo “revisionista”, se il termine non fosse stato ormai sequestrato dalla peggior destra politico-culturale), della conquista del West e della cancellazione violenta delle civiltà pellirosse: secondo una linea di riabilitazione della storia e cultura indigene iniziata al cinema molti anni prima, in aperto dissenso con l’impostazione “patriottica” di maestri quali John Ford o Howard Hawks, e cominciata forse con L’amante indiana di Delmer Daves (1950) per affermarsi prepotentemente nel 1970 con ben due film, Piccolo grande uomo di Arthur Penn e Soldato blu di Ralph Nelson.
Il progetto di Costner esaltava appunto lo spessore autocritico ed insieme epico di quel periodo storico, attraverso la figura dell’ufficiale unionista John Dunbar, che le circostanze spingono a stretto contatto sia con la tribù dei Sioux sia con una dimensione della natura che gli farà scoprire il vero significato dell’esistenza. Un messaggio dunque universale, nelle intenzioni del regista-protagonista, sottratto a stereotipi, esotismi e folklorismi, convenzioni anche musicali. Di qui la prima e più importante richiesta formulata a Barry: comporre qualcosa su larga scala sinfonica, che restituisse sia la grandiosità dei paesaggi naturali in Cinemascope sia l’intensità, la conflittualità e specialmente l’universalità delle passioni descritte. L’elemento localistico sarebbe così stato confinato ad un pugno di brani di pubblico dominio, source music del periodo nettamente differenziata dal rimanente del soundtrack.
Su queste linee-guida il musicista creò la sua più lunga partitura di sempre, quasi un’ora e mezza di musica per un organico di un centinaio di elementi, ripartita in una decina di temi principali, puntualmente individuati e catalogati da Larson in una “mappa” dell’ascolto che è da consigliare vivamente come bussola alla riscoperta di questo imponente lavoro.
Balla coi lupi è una sorta di sontuoso manifesto del metodo compositivo di Barry. I temi, anche quelli più secondari, si snodano con maestosa lentezza, quasi tutti affidati ai prediletti ottoni (in particolare ai corni), e si sviluppano secondo quella struttura binaria che è caratteristica del compositore. Ciascuna idea viene dunque ripetuta due volte (talora la seconda dagli archi) in una frase complessiva che spesso viene a sua volta replicata, creando quel respiro arioso e monumentale, e nel contempo quella visione architettonica dell’insieme che ci fa supporre come Barry dovesse conoscere e amare molto le sinfonie di Anton Bruckner, come si evince anche dalla sua esemplare direzione d’orchestra, volta ad assaporare ed espandere ogni frase, ogni passaggio per restituire una complessiva, fastosa visione d’insieme.
La score è prepotentemente dominata dal “John Dunbar theme”, declinato in ogni possibile variante e la cui marzialità d’impianto si accompagna ad una nobiltà melodica e ad un’intima energia che lo espropria di qualsiasi valenza retorica: al punto che questo leit-motif può diventare sia pagina sentimentale e intima (“I love her”), rallentato e teneramente offerto dall’armonica, sia – affidato alla tromba e poi ai violini -  tormentato momento introspettivo. C’è poi un “tema del viaggio”, movimentato ed espansivo (“Journey to Fort Sedgewick”), che ricorre come anello di congiunzione tra i vari momenti di quello che è anche un “road movie” a pedinare il destino del protagonista; il “tema dei Sioux”, di accentuata forma politonale (“Rescue of Dances with Wolves”, “Only a Sioux”) non ha evidentemente nulla di “selvaggio” o tribale, ma si avvale al contrario di una scrittura rigorosamente contrappuntistica, con una prima sezione melodica d’impianto lirico, ed una seconda discendente lungo un arpeggio; ancora più semplice, quasi elementare, il “Buffalo theme”, che si sviluppa lungo due note a salire, in una figurazione di poderosa icasticità (“Journey to the Buffalo killing ground”, “Spotting the herd”, “Farewell and end title”) a restituire l’inesprimibile imponenza e immanenza di una natura e una civiltà davanti alle quali si può e si deve solo fare silenzio.
Ma ci sono poi numerose idee collaterali, non meno forti ed evocative, a cominciare da quelle dedicate a due animali: il tema del lupo soprannominato Due Calzini, ad esempio (“Two Socks at play”, “Goodbye Two Socks”), è connotato di un’amabilità confidenziale attraverso la linea degli archi contrappuntata da un violoncello solo; mentre quello di Cisco, il cavallo di Dunbar (“Sioux steal Cisco”, “The death of Cisco”), possiede una dolorosa, intensa drammaticità accentuata dal rullo di tamburi e dal fraseggio particolarmente penetrante degli archi. Né si può dimenticare il tema d’amore – per la verità utilizzato con grande parsimonia – dedicato al legame tra Dunbar e la pellerossa adottiva Alzata Con Pugno (interpretata dalla magnifica Mary McDonnell): una melodia gentile e pudica per flauto e archi (“”Falling in love”, “The loss of the journal and the return to winter camp”).
Dopodiché ci sarebbe da render conto della musica di battaglia e d’azione, come “Pawnee are coming” e soprattutto l’impressionante “Pawnee attack”, un trionfo di politonalismo arroventato e travolgente, scandito dalla ritmica irregolare e aggressiva della percussione e scolpito michelangiolescamente dagli ottoni; oppure “The Buffalo hunt”, che è forse la sola concessione di Barry ad una “western music” tradizionalmente riconoscibile, in stile I magnifici sette o Il grande paese per intenderci (la pagina è non a caso orchestrata da Mark McKenzie, che insieme a Greig McRitchie ha contribuito alla strumentazione di alcune tracce), ma pur sempre circondata dalla formidabile, perentoria presenza dei solennissimi ottoni; o infine “Second suicide attempt” e “Stands with a fist remembers”, dove si crea un effetto irreale e metafisico grazie alla combinazione tra un coro riverberato e la tromba solista.
Ma solo l’ascolto guidato può rendere davvero giustizia ad una partitura che potrà non essere forse “il” capolavoro assoluto di John Barry (La mia Africa, Nata libera, Quiller memorandum, Robin e Marian, per non parlare di tutto il capitolo 007, si contendono seriamente questo primato) ma che rappresenta comunque un punto altissimo della sua ispirazione ed una sintesi superlativa di umanesimo, naturalismo e sinfonismo moderno; l’edizione La-La Land, corredata da ben quindici bonus tracks di versioni alternative, indispensabili per uno studio più approfondito, ce ne consente una riscoperta pregevole e commovente, nel ricordo di uno dei più grandi compositori del cinema mai esistiti.

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