Lady Lucifera & Speed Driver & Queen’s Messenger

 

Stelvio Cipriani
Lady Lucifera (1980)
Quartet Records QR 269
15 brani – durata: 39’26”

Stelvio Cipriani
Speed Driver (1980)
Beat Records DDJ018
24 brani – durata: 53’54’’

Stelvio Cipriani
Queen’s Messenger (2000)
Kronos Records KRONCD085
16 brani – durata: 43’43’’

Dei compositori cinematografici italiani operanti dalla seconda metà degli anni Sessanta Stelvio Cipriani è uno dei pochissimi ancora in vita e parzialmente all’opera, accanto al decano (e non solo per età) Ennio Morricone, Pino Donaggio e Nicola Piovani (emersi invero qualche anno dopo e tuttavia ascrivibili per formazione e poetica alla “scuola italica” di quel periodo – una concentrazione d’ingegni che, abbinata ad una cinematografia rigogliosa, esuberante per quantità e qualità, ha realizzato un’esperienza unica, un miracolo di sinergie cinemusicali che il mondo ci invidia e il presente al ribasso fa rimpiangere).

Le sue note ben riconoscibili, pur nel debito verso illustri modelli, hanno ammantato di melodie sognanti commedie e film d’amore, vestito di ritmi forti generi altrettanto forti quali i western, l’horror, il poliziottesco. Non ha disdegnato, intorno agli anni Ottanta, il ricorso a sonorità sintetiche e disco (con esiti non sempre felici). Rispetto a compositori più sperimentali, la sua musica suona facile e non impegnativa ma non per ciò manca di fascino. Definito “il Francis Lai italiano” (1) (ma nel suo arsenale si trovano insospettate risorse alternative), si lega ad un periodo ben preciso, ne cattura lo spirito che oggi rivive nei suoi spartiti, autentiche madeleines.

Dalla sua estesa musicofilmografia, solo in parte edita, emergono talvolta ignote preziose perle che ci parlano di un cinema, e di una musica, distanti anni luce. E’ il caso di Lady Lucifera (Polvos magicos), girato nel 1980 da José Ramὁn Larraz, probabilmente mai uscito in Italia, interpretato da Carmen Villani e, tra gli altri, da Eduardo Fajardo, ben noto caratterista di tanti western italo-spagnoli. Si tratta di un curioso e non proprio riuscito tentativo di miscelare commedia, erotismo (invero assai blando, le grazie della Villani si limitano a fugaci seminudità e rimangono consegnate alla fantasia dello spettatore) e horror. In sintesi, Lady Lucifera ha stretto un patto col diavolo, che le garantirà l’eterna giovinezza purché lei gli sacrifichi i propri mariti; al termine, infranto l’accordo grazie ad un libro magico, Lucifera-Villani abbozza uno strip ma subito si trasforma in uno scheletro. Il film risulta scombiccherato quanto mai, non trova una strada, l’orrore parodiato e reso comico produce effetti di surreale idiozia. I momenti più riusciti sono quelli in cui il regista recupera la sua vena macabra e raccapricciante (una donna impiccata che penzola dal soffitto, un servitore ripetutamente accoltellato, un omicidio a martellate, un sabba) e sfrutta l’effetto claustrofobico di interni in penombra – la vicenda è tutta girata entro spazi chiusi. Del resto, al regista si addicono i climi torbidi, il mistero e l’attesa, come attesta gran parte della sua filmografia.
Il compositore aveva già lavorato con Larraz nel 1970 per Whirpool e l’anno successivo per Deviation, fornendo due buone prove, e con questo Lady Lucifera rinterza egregiamente. Rispetto agli squilibri del film, la score si mostra ben più compatta e definita: si focalizza sugli aspetti neri e sulla dimensione erotica – entrambi esposti in chiave musicalmente “seria”, trascurando le componenti burlesche e gli intenti parodici della regia. Si possono individuare tre momenti, due tematici ed uno atematico per un totale di 40’02’’ distribuiti in quindici tracce senza titolo (la dizione “Sequenza 1, 2…” è a nostro avviso preferibile ai titoli espliciti, questi ultimi spesso banali e in sé e nei riguardi della musica la quale, finalmente evasa dal ghetto della pellicola, torna ad essere ingabbiata in categorie univoche che ne limitano il potenziale espressivo e condizionano le attese di chi si appresta all’ascolto) (2). Il primo tema, presente per esteso in “Seq. 1” e replicato con minime varianti e più che altro di durata nelle “Seqq. 5, 9, 15”, dovrebbe corrispondere al motivo conduttore. Svolto in tonalità minore, introdotto da pianoforte e chitarra acustica prima dell’avvento dell’organo (almeno tale pare, forse qualche particolare timbro di organo elettrico), è un fraseggio progressivo per scale discendenti, di ampio respiro melodico, teso a creare un clima onirico e vagamente liturgico – d’un misticismo beninteso profano evocatore di paradisi molto terreni –, un poco misterioso. La vena sentimentale del compositore si esplica senza le bordate romantico-languorose (l’ipercelebrato e sopravvalutato Anonimo veneziano, il mellifluo Dedicato a una stella) che lo hanno reso di successo in tutto il mondo e oggetto di non sempre avveduto culto. Il brano è piacevole, sinuoso, avvolgente come una carezza muliebre materna/erotica/sororale, carico d’una dolcezza ambigua ed arcana. “Seq. 2” e “Seq. 13” propongono il secondo momento cantabile in due differenti versioni. In “Seq. 2” abbiamo basso elettrico e sfondo sintetico sul quale si fa strada un motivo delicato eseguito dal flauto basso e che evolve in clima inquieto e teso per poi riprendere melodico col pianoforte che conclude brusco. “Seq. 13” ripropone il tutto in modalità più lineare, senza pause ansiogene; pianoforte in accompagnamento e solista dominano la scena, dolcezza pacata e senza ridondanze, melodia ben riconoscibile proprio a la Cipriani. Completa la sezione tematica “Seq. 11”, intermezzo pianistico classicheggiante e salottiero, brioso e manieristico, legato verosimilmente ad esigenze di copione.
Il resto è musica in varia misura disturbante (per quanto lontana da radicalismi ed aliena da asprezze: il che può essere considerato un pregio ovvero un limite a seconda dei punti di vista). Per sottolineare suspense, mistero ed esoterismo si ricorre ad un ben calibrato armamentario che annovera basso elettrico, batteria, ampie fasce sospese sintetiche, borbottii, note solitarie del pianoforte ed echeggianti del flauto. “Seq. 7” fornisce un’idea esauriente del magma sonoro ricco di strano fascino creato dal compositore: inizio molto teso con base sintetica immota, basso e confusi suoni sordi, evolve poi in rarefazione astratta con tre note isolate e replicate del pianoforte; il ritmo è scandito dall’accumulo di elementi percussivi – anche bonghi – e di effetti rumoristici, il tutto evoca cerimonie e riti occulti, il clima è di turbamento latente. “Seqq. 8 e 12” sono tracce percussive assai dinamiche su sfondi sintetici che mimano le sospensioni degli archi. Interessanti le “Seqq. 3 e 6”: nella prima abbiamo contrabbasso elettrico in evidenza, accenni tematici elettronici e un organo sintetico richiamante sotterranee paraliturgie; nel secondo il basso è in sdoppiata successione ternaria sulla quale volteggiano fraseggi incompiuti del flauto, poi subentra il similorgano già udito in “Seq. 3”. Atmosfera tesa e “in bilico” anche in “Seq. 4” con percussioni tachicardiche in accelerata sul solito fondale del synt. Frastagliato e vario “Seq. 14”: brontolii su basso in ritmo, temperie irrisolta e buia, note solinghe del piano come in “Seq. 7”, effetti sparsi dell’organo.
Un’aura incantatrice e misterica avvolge la partitura (di certo ben poco goblinesque, come pure si legge nelle linear notes stilate dalla Quartet Records – spiace non aver potuto invece leggere il commento di Gergely Hubai, nome che è una garanzia): languida ed amorevole quando si tratta di “commentare” la beltà della protagonista, perturbante quando occorre mettere in musica i risvolti stregoneschi della vicenda, sempre comunque all’insegna di una non banale piacevolezza, anche quando le note si affacciano sull’Abisso pur evitando di fissarne il fondo.

Speed Driver è uno dei numerosi capitoli della collaborazione tra Cipriani e Stelvio Massi, iniziata nel 1974 con Squadra volante e conclusasi con L’urlo della verità nel 1991 e che annovera la saga di Mark il poliziotto, Poliziotto solitudine e rabbia e altri titoli ascrivibili al “poliziottesco” e filmati dal regista con quel gusto per il movimento, l’azione, l’acrobatico-spettacolare che individuano la cifra autoriale del suo cinema e rimangono ancor oggi – oggi più che mai verrebbe da dire – insuperati e che hanno trovato nelle note del musicista la ritmica e la timbrica giuste, al punto da contrassegnare in maniera inequivocabile tutta una stagione della cinematografia italiana.
La pellicola in oggetto non pare invero tra le più riuscite, né cinematograficamente né musicalmente. La storia di un pilota di Formula 1 (Fabio Testi) ingaggiato per correre in Germania e che scopre di essere stato usato come corriere della droga, origina un ibrido incongruente di sportivo e di criminale che per di più non si stacca dal formato di un fumettone medio-basso. La musica offre una certa varietà di soluzioni, asseconda la tonalità fotoromanzesca del copione e delle immagini e si caratterizza per la banalità piacevole, la superficialità accattivante, la strizzatina d’occhio alle sonorità di moda nei primi Ottanta, nonché qualche ambizione più alta che rasenta il kitsch. Tre registri si incrociano nelle ventiquattro tracce occupanti il CD: romantico-sentimentale, disco, tensivo, più un paio di brani fintoclassicheggianti. L’OST integrale è stata edita dalla Beat Records nel 2012 e colma la lacuna lasciata dal singolo C.A.M. AMP 230 pubblicato in contemporanea con l’uscita del film. Il versante romantico è quello più sviluppato ed apre il disco con “Seq.1-Titoli”: piano e batteria introducono un breve fraseggio del flauto, segue coda del pianoforte su due accordi iterati di settima diminuita; il tutto compone una melodia aggraziata ma anche un poco fragile e tuttavia di buona presa. Il tema è recuperato in “Seq. 13”, assai breve (1’17’’) e con l’aggiunta di arpeggi del basso elettrico. Una ulteriore variante è “Seq. 21” che presenta una ritmica più accentuata e il ricorso agli archi. Infine, “Seq. 23” sviluppa il breve segmento (le varie tracce sono tutte inferiori ai 2’) in forma di canzone, la melodia si amplia e però non ci guadagna sia perché banaluccia e carente di spessore musicale e di profondità, sia per la voce davvero infelice di Douglas Meakin la quale, dopo gli accordi sognanti del pianoforte in apertura, “sporca” tutto con la sua timbrica dolciastra, fastidiosa sempre ed imbarazzante nella melassa finale. Sarebbe occorsa una voce femminile, un timbro vellutato e suadente (pensiamo a Edda Dell’Orso, capace di riscattare con i suoi gorgheggi sensuali e mai volgari anche le melodie più scontate; ma poteva giovare anche qualcun’altra: è la voce maschile a stonare). E c’è anche la piena orchestra, davvero troppa grazia… Un altro tema romantico è “Seq. 3”: anche qui si gioca su due accordi, ritmo lento, basso elettrico, clima languoroso e superficialmente malinconico, replicato in “Seq. 18” con più netti arpeggi del pianoforte e aggiunta del sax con fioriture. Più azzeccata “Seq. 9”, ripresa con lievi variazioni in “Seq. 24”, ove il compositore sfodera la sua vena migliore: ritmo lento scandito dal basso, piano elettrico in funzione leitmotivica e rinforzo degli archi con belle aperture sul versante malinconico, efficace timbro di archi e pianoforte, buon respiro melodico ed orchestrale, suoni morbidi e avvolgenti, perfetto per ipotetici “titoli di coda”. Anche “Seq. 7” orienta la musica nella direzione dell’interiorità con quel piano splenico su bassi e fascia elettronica più archi: a tratti smanceroso, complessivamente gradevole. Meno bene “Seq. 20”: piano, orchestra sullo sfondo, percussioni in ritmo; ineccepibile come love theme ma un poco dolcigno (il piano ricorda Richard Clayderman, e non è un complimento). Per dovere di completezza (essendo il recensire, etimologicamente, “passare in rassegna”) accenniamo alle “Seqq. 5 e 16” che sono poi la medesima cosa: sax e organo elettrico illudono un’atmosfera spensierata, di intrattenimento vacanziero e frivolo; momento musicale “d’occasione” che poteva meglio essere surrogato da pezzi di repertorio (ma come ben noto costa meno pagare a forfait il compositore che sborsare ingenti somme di diritti). Va detto che nella seconda parte del brano (la prima è un ballabile facile facile) il musicista mette qualcosa di suo, un aereo presentimento di mestizia che tuttavia non è sufficiente a conferire spessore.
Se la sezione melodica tra alti e bassi tiene, insalvabile appare il tema scritto per la componente “dinamica” della storia (l’agonismo automobilistico). Si strizza l’occhio alla discomusic più commerciale del periodo e, da cinico artigiano, il compositore imbandisce un ballabile veloce (basso, suoni elettronici, qualche inserzione degli archi) dalla ritmica accentuata, stordente e ripetitiva (l’effetto “discorotto” è garantito), privo peraltro della durezza e dell’adrenalina necessarie, un rock addomesticato e povero.
Non poteva né doveva mancare la parte legata all’attesa e alla tensione, per le quali il musicista ha scritto due brani non eccelsi ma dignitosi. “Seqq. 4, 12, 17”, che chiameremo “Tensivo 1”, suggeriscono un’aura vagamente notturna soprattutto grazie al sax che fiorisce su accordi del basso e suoni elettronici iterati in “Seq. 4”; più nervoso e con fraseggi accentuati del piano in “Seq. 12”, con echi jazz assai ammorbiditi, sospeso ma senza vera inquietudine (ed anche molto in linea con gli stereotipi riconoscibili: quanta ne abbiamo sentita nel cinema di musica così?). “Tensivo 2” denominiamo “Seqq. 6 e 15”, più incisive: basso su tappeto synt, accordi del pianoforte, teso e in crescendo (“Seq. 6”); registro più cupo, ritmo attardato, accordi sospesi del piano su fascia sintetica, minaccioso ed incombente (“Seq. 15”).
Da ultimo, una inattesa apertura verso il classicismo, per quanto subito arginata da cospicue ed un poco corrive iniezioni di modernità. “Seq. 11” offre 1’36” scoppiettanti, di suoni e ritmi corposi. Esordisce con trombe solenni cui seguono archi del pari grandiosi, parecchio sincopati e propensi all’enfasi barocca; la timbrica è in effetti veneto-settecentesca, vivaldiana si parva licet (a meno di non voler scomodare il meno impegnativo Rondò Veneziano: tuttavia Cipriani se la cava meglio); il tutto corroborato dalla batteria, molto secca, che conferisce una ritmica accentuata ed un cromatismo trascinante: da far storcere il naso al critico ortodosso e all’uditore schifiltoso, godibile per gli ascoltatori emotivi, poco preparati e dalla stupefazione facile. “Seq. 14” è un ibrido semplicemente curioso, o mostruoso, o affascinante in base al gusto e alla consapevolezza musicale di ciascuno. Si compone di due parti davvero diverse per quanto ben raccordate. La prima, assai pomposa, è una corretta parafrasi (plagio?) di “Also sprach Zarathustra”, op. 30, di Richard Strauss: una versione scorciata e resa fruibile dell’ouverture del celebre poema sinfonico. Un pedale d’organo da concerto funge da trait d’union tra la sezione “classica” e quella moderna, momento sospeso prima dell’attacco energico della batteria corroborata da archi smaltati e squillanti in amabilissimo crescendo. Tale seconda sezione viene riproposta da sola e ancora più turgida in “Seq. 22”; tuttavia l’equivoco charme della composizione è nella sua duplicità irriducibile e che pure alla fine origina un paradossale e fragile equilibrio fra opposti. Da ascoltare, per amarlo e/o odiarlo.
In conclusione, riesce la musica di Speed Driver (talora anche con una certa eleganza, talora attraverso soluzioni disimpegnate) a mostrare solo la superficie di quello che accade (nel cinema come nella vita, ammesso che la distinzione sia possibile e legittima): non si colora di profondità, non illumina dimensioni autre, non diviene veggenza, rimane confinata entro l’ambito di un’epidermica gradevolezza.

Di ben diversa caratura la score composta per Queen’s Messenger, sconosciuta coproduzione anglo-canadese del 2001 diretta da Mark Roper, vicenda di guerra e spionaggio ambientata in Kazakhstan. Molto presente sino alla prima metà degli Ottanta, l’apporto del compositore al cinema si riduce nei decenni successivi; tuttavia rimane una presenza, saltuaria e occasionale quanto si vuole, che giunge sino al 2013, anno in cui musica The Boy and the Lion, ignota miniserie televisiva, disponibile presso la maltese Kronos Records come anche il presente Queen’s Messenger ed altri titoli malnoti (e basta scorrerne il catalogo per trovarsi dinanzi ad una archeologia del profondo di titoli italiani e stranieri). Una presenza, aggiungiamo, non trascurata all’estero come dimostrano l’OST in oggetto ed altri lavori come Death, Deceit & Destiny Aboard the Orient Express e She, e neppure da noi (Prigioniero di un segreto, 2010; Mediterran Diet Example to the World, docu-fiction del 2016 (3); e pazienza se – in Italia – non sono più i Bmovies, quanto mai laboratoriali per i compositori).
Abbandonate le sirene di un’elettronica a buon mercato, Cipriani opta in questa seconda fase del suo percorso musicale per un ritorno all’orchestra, come dimostra anche She: ampio organico senza pompierismi, suoni puliti ma non accademici, impronta personale nell’alveo della tradizione, nessuna concessione modaiola. Queen’s Messenger è un ottimo lavoro, il compositore si dimostra ancora una volta a suo agio con le vicende di guerra (si pensi ai lontani, e splendidi, I diavoli della guerra - 1969, Bitto Albertini - e I sette di Marsa Matruh - 1970, Mario Siciliano -) e inventa una bella sinfonia virata sul grigio, utilizza gli stilemi della war music ma evita le trappole dell’enfasi bellica, dei ritmi marzialmente esasperati, della retorica nauseosa, ottiene il massimo dell’effetto con la semplicità e sobrietà dei mezzi. Non esiste un tema definito, piuttosto brevi segmenti statici e dinamici alternati e giustapposti a comporre insiemi assai articolati e variati nel moto, nel colore orchestrale, nei timbri. La durata percepita dei singoli brani si amplia proprio in virtù del loro continuo interno mutare, al tempo misurabile si sostituisce una “durata” interiore, un tempo dello spirito irriducibile a qualsivoglia determinismo. L’organico contempla innanzitutto la famiglia degli archi utilizzati sia nella modalità distesa sia in quella franta e ritmata; poi corni, trombe e tromboni, percussioni, qualche legno e voce femminile.
“Space Commando” funge da prologo e intona la chiave di buona parte della score: il crescendo degli archi in ritmo, delle trombe e dei tromboni approda ad una pausa sospensiva per poi riprendere e piano piano svanire. E da subito emerge l’assenza d’un flusso melodico individuabile e continuo a favore di un’atomizzazione del materiale a comporre un insieme dinamico ma anche unitario nella sua mobilità. La componente militare è sviluppata in “First Stage”, “Inspection”, “Military Camp”, “Desert War” e nelle loro variazioni. “First Stage” offre 6’02’’ di accensioni e spegnimenti orchestrali: attacco con percussioni accentuate ed archi in moto, sospensione (ostinato) con fiati, riprende il ritmo e poi percussioni isolate su ostinato e fascia d’archi, momenti statico-angosciosi affidati agli archi con corni sullo sfondo, segue breve accenno melodico (già udito in “Space Commando”), nuova iterazione sospensiva; intorno a 3’ il ritmo cambia, subentrano echi di trombe lontane, nuovamente statico poi percussioni ed archi in sovracuto, finale sospeso con archi. Nonostante i molteplici passaggi, predomina un’impressione di greve immobilità. “Inspection” utilizza il materiale precedente su sfondo di percussioni, si movimenta con archi in ritmo e percussioni velatamente tribali, gli archi abbozzano un inno senza sviluppo cui segue una fase discendente dominata da archi e trombe e tromboni che infondono un tono malinconico. “Desert War” apre con percussioni ed archi in ritmo secondo una modalità ben riconoscibile del compositore, il tutto origina una marcia franta che poi riprende nervosa, segue un attimo di sospensione (fascia degli archi), riprende e ancora sospende sino a che i violini si acutizzano e di nuovo evolve in marcia con una ritmica molto a la Cipriani, muta il ritmo, l’orchestra si indirizza verso una tonalità in minore sulla quale si innestano tromboni e fiati vari, chiude bruscamente. Brano coinvolgente e dal buon respiro epico. “Military Camp” e “Control Center” introducono nell’organico la voce femminile, “strumento” inatteso e perturbante che in questo caso ammanta i suoni di mistero, esotismo e notazioni quasi religiose. Essa si inserisce entro uno scenario di archi e percussioni campeggianti su una fascia oscura d’ostinato ed intona una monodia senza sviluppo che richiama l’immobilità caratteristica della musica orientale (siamo in Kazakhstan), quasi una lamentazione dal sapore biblico. Il canto non è continuo, s’interrompe con l’inserimento dei violini e dei flauti orientali appena accennati, succede un ritmo di marcia, riemerge il canto sostituito poi da una fase di percussioni sole; archi robusti e corni concludono il poliedrico brano. Ancora la voce femminile in “Control Center”, che non è una replica o variante del precedente. Archi in registro acuto e grave, fiati (probabilmente tube), percussioni generano una inquieta aspettazione sulla quale aleggia la voce di donna accennante una monodia ancor più incerta e rarefatta della precedente, un canto discontinuo che diviene protagonista nella sezione conclusiva ove si impasta con gli archi e si articola nell’orchestra in contrappunto. In entrambe le tracce è una patina esotica, non più di un accenno e tuttavia sufficiente a tingere i suoni di nuove e gradite nuance senza incorrere in scontati manierismi (le “caramellature esotiche” di cui parlava Ermanno Comuzio). Particolare suona “Peace in the Future”, che mescola ritmi di marcia, atmosfere astratte e procellose (qui lavorano al meglio gli archi in fascia e i tromboni), effetti quasi rumoristici, il tutto a confluire in un parco “inno di pace” inconcluso ove corni ed archi si rincorrono verso una meta che si allontana.
Talvolta all’interno della war music s’interpola qualche pausa lirica come in “Radioactive Weapon” e “Off Limits”. Nel primo all’accumulo di percussioni iniziale succedono frammenti assegnati al flauto cui segue un ritmo di marcia sul quale l’orchestra intona una sorta di pacato inno terminale in dissolvenza. Davvero bello e coinvolgente. “Off Limits” apre con archi in tempo di marcia e percussioni, poi evolve in rapida melodia drammatica.
Il versante lirico è rappresentato da “Back to Life” e “Alexi’s Theme”, due brani nei quali il compositore dispiega la sua vena melodica senza indulgere a quei melismi che costituiscono l’aspetto più fragile della sua musica. “Back to Life” apre con il pianoforte solo, una melodia crepuscolare sviluppata dal flauto e dall’oboe (qui la timbrica di Cipriani è ben riconoscibile) e poi ripresa dalla piena orchestra con esteso respiro ed ammalianti aperture melodiche; di seguito il motivo è affidato ai corni in un armonico dialogo tra legni e ottoni ed archi, per chiudere infine con un accordo sospeso e presago. “Alexi’s Theme” è una bella pagina per pianoforte e orchestra, d’una pudica inviluppante malinconia che si prolunga nel finale ancora una volta sospeso ed “aperto”. Splendida poi la versione per piano solo (traccia 13), eseguita probabilmente dal compositore medesimo: la musica sembra provenire dalla “stanza accanto”, si ovatta e carica di sottintesi; v’è qualcosa di primo Novecento in quegli accordi vintage che verrebbe da chiamare proustiani, evocatori di sensazioni delicate e nostalgiche, di interni in penombra, magioni d’epoca.
Occorre render grazie alla Kronos Records per il recupero di questa oscura opera nella quale il maestro Cipriani si ripropone al meglio, libero dall’espressività troppo diretta di certi lavori del passato; ora è come se la musica si fosse asciugata, acquisendo una comunicativa più sottesa ed implicita. Queen’s Messenger è una sinfonia che predilige i cromatismi spenti, oscilla tra il grigio e la tinta sabbia, avvolta entro una luce filigranata che lascia spazio al sottinteso e all’immaginazione.

NOTE
(1) E. Comuzio, Colonna sonora. Dizionario ragionato dei musicisti cinematografici, Roma, Ente dello Spettacolo, 1992, p. 306.
(2) Il problema delle modalità di fruizione della musica scritta per il cinema è troppo complesso per essere trattato in questa sede. L’analisi audiovisiva è la più appropriata in relazione agli scopi; tuttavia, come non tener conto che “per un compositore un pezzo di musica, ancorché destinato ad una funzione subordinata, è prima di tutto… un pezzo di musica”? (S. Miceli, note allegate all’opuscolo “Filminconcerto” stampato in occasione dei concerti di musica per film organizzati dal Comune di Roma, 1-22 luglio 1983). Per un compositore, ma anche per chi con la musica si interfaccia, ascoltandola come tale.
(3) Filmografia del compositore in http://www.mymovies.it/filmografia/?s=5130 (dato da accogliere con riserva).

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