Jurassic World: Fallen Kingdom

cover jurassic world fallen kingdomMichael Giacchino
Jurassic World – Il regno distrutto (Jurassic World: Fallen Kingdom, 2018)
Back Lot Music BLM0725
24 brani – Durata: 75’50’’

 

Seconda avventura giurassica per Giacchino – terza se si conta il videogioco The Lost World (leggi recensione) – dopo quel Jurassic World che ha rilanciato la pioneristica saga cinematografica di Steven Spielberg (ispirata al romanzo di Michael Crichton) a distanza di ben 14 anni dal terzo capitolo. In quel primo episodio della serie “reboot”, Giacchino aveva raccolto l’eredità del miracoloso lavoro williamsiano con la solita disinvoltura, senza la pretesa di inventare temi all’altezza del confronto, ma con una fantasia timbrica e motivica sconosciuta pressoché a chiunque altro nella contemporaneità.

Lo stesso si può dire di questa nuova puntata, ma con i dovuti distinguo. Grazie anche al cambio di regia – il regista di The Orphanage Juan Antonio Bayona al posto del meno inventivo Colin Trevorrow – il tono del film vira verso l’horror gotico, con una vicenda che ricorda Frankenstein e L’isola del dottor Moreau pur rimanendo ancorata alla critica del capitalismo che è il vero leitmotiv della saga; e se già le collaborazioni con le Wachowski (Jupiter Ascending, Speed Racer) hanno mostrato che Giacchino dà il meglio di sé a contatto con un cinema “borderline” – pericolosamente a cavallo tra generi e stili – in cui la sua scrittura eccentrica può deflagrare senza la benché minima preoccupazione formale che non sia relativa alla propria poetica, Il regno distrutto lo conferma in pieno. In generale, lo spirito da “serie b” del film ha ispirato nel compositore una ansia di sperimentalismo – e tuttavia in un lavoro radicalmente orchestrale, come sempre – che lo avvicina felicemente alla ricerca continua e sofferta di un Marco Beltrami. Ma andiamo con ordine: anche se nella partitura tornano qua e là alcuni temi ideati per il precedente capitolo (e anche quelli di Williams per il capostipite), il vero protagonista è il maestoso leitmotiv che esordisce al termine di “This Title Makes Me Jurassic”; una traccia, questa, programmatica anche nella presentazione dell’apparato timbrico. A differenza della score per il primo capitolo – e di tante altre del compositore – le sonorità scure e violente degli ottoni sono preponderanti e vanno a sconvolgere il precisissimo (e a suo modo equilibrato) sound giacchiniano; altro elemento sonoro caratterizzante è certamente il coro, che rafforza il succitato tema fin da quella prima traccia, e che più in generale è preposto all’assetto “gotico” della score; più tranquillo, ma con una struttura armonica simile a quella del principale, è il motivo che compare in “The Theropod Preservation Society”. Le novità tematiche, seppur notevoli, non basterebbero ad elevare la score se questa non fosse nobilitata al massimo grado dai ben noti procedimenti costruttivi giacchiniani: la grande attenzione allo sviluppo melodico anche nei frangenti più convulsi (“Lava Land”, “Keep Calm And Baryonix”, “Go With The Pyroclastic Flow”) nonché in quasi ogni occasione che possa ispirare una marcia  (“March Of The Wheatley Cavalcade” ne presenta una per i Cacciatori cattivi di turno); la perfetta sottolineatura dell’intero arco narrativo, evidente nella traiettoria del tema principale – dalla magniloquenza dell’inizio e della parte centrale fino all’intensa suggestività (ottenuta anche tramite l’uso della celesta) di “The Neo-Jurassic Age” – o nel crescendo, tra il meraviglioso e il malinconico, che da “Volcano To Death” torna in “To Free Or Not To Free”; il sound tagliente come un dente di dinosauro, pieno di increspature inaspettate  (trilli, glissandi, disegni rapidi e acutissimi dei legni) che stemperano l’orrore e la tensione in un gioco parossistico a metà strada tra la devozione ai classici – John Williams, Danny Elfman – e la furia iconoclasta (“There’s Something About Maisie”, ossessiva fin quasi alla parodia).
Nel predominio di questa ambivalenza consiste l’originalità del lavoro, somigliante spesso al risultato sconvolgente di un esperimento infantile: il “fan” Giacchino compie veri miracoli di rielaborazione stilistica – l’amalgama di ottoni, archi e arpa di “How To Pick A Lockwood” rimanda alla scrittura horror di Elfman, mentre la “sagra” di virtuosismi orchestrali su ritmo tribale di “Declaration Of Indo-pendence” viene direttamente dalle pagine action del The Lost World williamsiano – e il risultato è un autentico rito di possessione, volto a far entrare nel corpo filmico gli spiriti terremotanti dell’avventura e della paura. 

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