Stronger

cover strongerMichael Brook
Stronger – Io sono più forte (Stronger, 2017)
Lakeshore Records
23 brani – Durata: 48'35”

Il canadese Michael Brook è una figura di compositore appartata e sensibile, oltre che inventore in proprio di strumenti inconsueti, come la cosiddetta “infinite guitar”, che riproduce un suono simile al soffiare del vento. A parte la musica per film che lo ha visto autore di pregevoli quanto anticonvenzionali score come Affliction, Insoliti criminali (prima delle due regie di Kevin Spacey), Brooklyn, Into the Wild o The Fighter, Brook ha al proprio attivo anche collaborazioni multidisciplinari e multietniche con artisti come il senegalese Youssou N'Dour e il pakistano Nusrat Fateh Ali Khan, oltre che con gli U2 nel leggendario album dell'87 “The Joshua Tree”. Si tratta insomma di una personalità multiforme e attenta alle più diverse sollecitazioni, particolarmente a proprio agio in vicende dal forte impatto simbolico o dai risvolti complessi ripartiti fra tragedie private e drammi collettivi.

 Stronger di David Gordon Green, protagonista Jake Gyllenhaal, appartiene appunto a questa seconda categoria, poiché narra la vicenda autobiografica di Jeff Bauman, l'operaio che perse entrambe le gambe nell'attentato alla maratona di Boston del 15 aprile 2013 ordito da due terroristi ceceni.
 Pur trattandosi com'è facile supporre di una storia di sopravvivenza, resistenza e riscatto personali, il taglio introspettivo, psicologico e sofferto del film – al netto di qualche inevitabile momento di retorica – ha ispirato al compositore quanto di più lontano possibile da titanismi patriottici o squilli di vendetta. Ce lo dice d'acchito l'intarsio leggero dei pizzicati sull'ottava con cui si apre “Tunnels and trash”, seguito da un morbido e disteso tema pianistico, impegnato poi (“I'll be there”) in una sorta di fluida sonatina sostenuta dagli staccati degli archi. Sarà questo l'organico della partitura, in un susseguirsi ininterrotto di pagine la cui brevità a volte (“A moment of pause”) ricorda un respiro raccolto in un unico accordo di venti secondi. Non è minimalismo, tutt'altro; nelle sue dimensioni intime e nell'emozionata quanto sobria comunicatività delle melodie, Brook si rivela qui più romantico ed espansivo che mai. Ma commozione e persino disperazione (“Amputee”) confluiscono in un ricorso a timbri sommessi e misteriosi, di archi e percussione elettronica, con frasi dense e oscure, avvolgenti, sulle quali il pianoforte fa risuonare persistentemente il suo tocco di speranza; all'elettronica, in modalità distorsiva ed efficacemente rapida, Brook affida infatti le fasi più tese e angoscianti della vicenda (“Out of breath”), elaborando viceversa un concertismo più classico ed emozionato (“I saw the bomber”, “Sting on my leg”) nelle fasi di maggior ripiegamento narrativo attorno allo sfortunato protagonista: qui si apprezza soprattutto il lavoro di fino sugli archi (i celli, nel secondo brano), non meno del ricorso a sonorità impalpabili e carezzevoli, ma profondamente malinconiche, come l'intreccio archi-piano-chitarra-fiati di “Sutures”, oppure l'effetto di amplificazione del piano in “You can go Erin” e i tocchi di chitarra contrappuntati dagli archi in “New legs”.
 A tratti ascoltando la partitura di Brook sembra di trovarsi dentro un sogno o una fiaba, non nel pieno di un incubo contemporaneo: ma è questo il “Brook touch”. Che ha un proprio punto di forza anche nella continua ricerca espressiva e timbrica. Ciò spiega l'efficacia e la penetrazione di semplici, sconsolate trenodie per chitarra e piano come “I can do this without you” o l'inquietante, surreale spessore sonoro di “On ice”, popolato di echi, riverberi e dissonanze in un paesaggio quasi da fantascienza New Age. D'altro canto i momenti di più intensa sofferenza, fisica e psicologica, di Bauman sono approcciati da Brook con una successione di accordi in minore e interventi molto lineari di solisti come il violoncello (“Going somewhere”), mentre ai suoi sforzi sovrumani per risollevarsi corrispondono pagine armonicamente più rasserenate come “Taking steps”, che si chiude però su un tremolo ansioso di archi, o “Rehabilitation”, cantilenante motivo per archi e chitarra basato su una sola nota.
 Gli archi acuti e immobili sui quali si snoda lentamente “After Carlos”, il lento ma affermativo sciogliersi, forse per la prima e unica volta leggermente movimentato, in una serie di armonie luminose di “Centered” e del conclusivo “See ya later Patty”, e più in generale la silenziosa, pudica concentrazione di un fraseggio musicale che riesce ad essere toccante senza scendere nel patetico, coinvolgente senza quasi farsi sentire, ci dicono molto del profilo riservato e della poetica controcorrente di questo compositore, che all'esternazione trionfalistica e al ricatto delle lacrime preferisce l'asciutta compostezza e la pacata commozione di una musica dell'anima.

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