Gotti

cover gottiJorge Gomez, Pitbull, Jacob Bunton
Gotti – Il primo padrino (Gotti, 2018)
Sony Masterworks
16 brani + 3 canzoni – Durata: 44'29”

Operazione oltremodo interessante questa score a quattro mani per la biografia criminale che Kevin Connolly ha dedicato alla figura di John Gotti (1940 – 2002), boss della famiglia Gambino e tra gli esponenti di maggior spicco della mafia italoamericana. Innanzitutto perché, pur non essendo certo il primo biopic sul gangster (se ne contano molti altri tra cinema e TV, a parte vari riferimenti indiretti: il più illustre rimane il Gotti televisivo del 96 di Robert Harmon, protagonista Armand Assante e suggestiva partitura di Mark Isham), questo – basato largamente sulle memorie non certo imparziali del figlio John jr. - sta già facendo molto discutere per la sua impostazione pilatesca se non apertamente agiografica, anche grazie ad alcune improvvide dichiarazioni della star John Travolta («io non giudico, interpreto», «mi interessava il personaggio», e via traccheggiando). Che è un po' come se Alec Guinness, Bruno Ganz o Robert Carlyle, quando hanno impersonato Adolf Hitler, si fossero trincerati dietro un «io non giudico, interpreto», «mi interessava il personaggio»...

 Ma il secondo motivo d'interesse è senz'altro costituito dal profilo dei due autori, entrambi di radici cubane, entrambi blasonati da svariati Grammy nei rispettivi settori artistici, ed entrambi qui al debutto cinemusicale come compositori. Dietro l'amichevole nome d'arte di Pitbull (ma ne sfoggia anche diversi altri) si cela infatti il rapper latinoamericano Armando Christian Pérez, classe 1981, una vita in testa alle classifiche, personaggio irrequieto e talentuoso, dai testi parecchio diciamo così espliciti, ma molto impegnato anche sul fronte umanitario. Gomez invece (nome completo Jorge Gomez Martinez, onde non confonderlo con vari omonimi sparsi in molti campi) è soprattutto un produttore vincente e intuitivo, cui si devono partecipazioni in film recenti come il remake di Superfly o Fast and Furious 7. A questo duo va poi aggiunto il contributo, più defilato, del metallaro Jacob Bunton di Birmingham (Alabama), già esponente dei Lynam e anch'egli collezionista di Emmy come autore, produttore e polistrumentista.
 Questa bizzarra pattuglia dà forma e vita ad una partitura mutevole e vivace, dalle caratteristiche però ben poco celebrative o conniventi con il profilo del protagonista, ed è destinata a sorprendere non poco i fan dei suoi autori. Il primo imprevisto arriva con l'inizio di “So sorry” di Pitbull, un groviglio di dissonanze di archi con tanto di assolo di violino, sviluppato in un crescendo che prepara l'irruzione del rapper (“Wake up motherfuckers!”...) nello stile ben noto.  Ma subito dopo è Gomez a presentarsi con il tema principale di “Father & son”, una melodia di così struggente e mediterraneo patetismo da risultare con tutta evidenza sarcastica, ancor più nel suo sviluppo, tra archi e legni, che pare una via mediana fra un requiem profano, la Sesta di Ciaikovski e un intermezzo di Mascagni o Puccini. E non è che l'inizio: perché spartendosi equamente i compiti e più spesso unendo le forze, Pitbull & Gomez scelgono coerentemente la via di un melodramma esacerbato e sopra le righe, ma attraversato da pulsioni “dark” e ritmi sinistri: come la movimentata “Carpe diem”, che tra clangori metallici e ringhiosi ostinati risente quasi di echi morriconiani da La piovra.
 Questa ambivalenza stilistica, interrotta da alcune (ma rare) intromissioni dello stesso Pitbull in voce (come in “Amore” proposto in tandem con la popstar britannica Leona Lewis), diventa un efficace contrappunto anche psicologico alla fosca carriera del boss, perchè i due autori continuano a fondere, in interventi a volte brevissimi (“Enough”, “The meeting”), gli aspetti di una drammaturgia musicale tutta sopra le righe come nella stupefacente “Father”, dove tornano a farsi strada echi del verismo italiano in particolare dalla “Cavalleria rusticana” di Mascagni già cara al Coppola del Padrino, con asprezze ruvide e minacciose, fatte anche di pause e silenzi (“Advice”), ma dove possono spuntare ballate pinkfloydeggianti come “Somebody to me”.
 Che vi sia qualche ingenuità da neofiti è forse inevitabile come in “The mistake”, un po' goffamente affidato all'elettronica in una frase che vorrebbe essere disperatamente perorante; in realtà la score vibra al meglio quando Pitbull e Gomez si appellano a mezzi più asciutti, essenziali, come nei funebri accordi pianistici di “Still here”, in aiuto dei quali accorrono subito archi e tastiere; o nel contorto, virtuosistico assolo di violoncello, di fisionomia baroccheggiante, di “Cosa Nostra”. Risulta evidente il potenziale eclettico dei due compositori, specie se si considera che siamo dinanzi ad un'opera prima; e se la mescolanza di stili e linguaggi non è sempre padroneggiata con sufficiente lucidità, il climax di fondo che si sprigiona è quello di un universo infernale, claustrofobico, come nella cupa, quasi orrorifica “The plot”, tra dissonanze acute e accordi violenti, gravi del pianoforte cui si somma l'intervento evocativo dell'organo, il tutto corredato da un'enfasi tragica palesemente “eccessiva”. Sinché in “Mourning” non spunta addirittura, nelle terzine pianistiche di apertura, una citazione dal “Chiaro di luna” beethoveniano, seguito da un adagio per archi di rara intensità.
 L'insieme rappresenta senz'altro una sorpresa positiva, come dicevamo anche per i fan del rapper cubano; a dimostrazione che qualche volta  le new entries del settore possono competere con i detentori dei curricula più illustri. Se poi si tratti di un fuoco di paglia, di un'exploit una tantum, o di un vero talento destinato a durare, lo diranno solo il tempo ed eventuali altre prove.

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