Pacific Rim: Uprising

cover pacific rim 2Lorne Balfe
Pacific Rim: la rivolta (Pacific Rim: Uprising, 2018)
Milan Records M2-36943
22 brani + 3 canzoni – Durata: 75'50”

Prima trappola da evitare, di ordine metodologico. Quella di pensare che le forme anche cinematografiche di intrattenimento debbano per forza accompagnarsi a noia o seriosità. Sarà banale ma giova ripeterlo: coniugare divertimento e profondità, spettacolo e riflessione si può. Si deve. Si è fatto e si continua a fare. Gli esempi ci sono e numerosissimi.

 Ne deriva il secondo equivoco da smascherare. Un blockbuster può essere di altissima qualità persino intellettuale oltre che spettacolare, oppure una mostruosa idiozia; e si deve poterlo dire senza passare per snob. A meno che per snob non s'intenda chiunque non sia disposto a mettere in cassaforte il cervello e buttare la chiave.
 Terza questione da chiarire, per noi la principale. Non sta scritto da nessuna parte che le musiche per un film di supereroi o robottoni e mostri alti come palazzi debbano necessariamente abdicare a qualunque valore o stile. Da Williams a Giacchino, da Horner a Elfman per non citare che i big, sappiamo che alcuni gioielli della cinemusica hanno brillato proprio in occasione di committenze simili; a volte, anzi spesso, prescindendo da un non altrettanto eccelso livello dei film in sé.
 Ristabiliti questi tre punti di massima ci si può accingere all'ascolto della score di Lorne Balfe per il sequel – diretto da Steven S. DeKnight - del film del 2013 di Guillermo Del Toro (sembrano secoli prima del Leone d'oro per La forma dell'acqua...) basato sui Kaijū, i colossali mostri alieni tipici del cinema e dei “manga” e “anime” giapponesi, che sussultava al suono ribollente della partitura di Ramin Djawadi. E se volete potete partire proprio da qui, con l'ascolto della traccia 6, ossia “Go big or go extinct” di Djawadi, tratta dal primo film, remixata dal polistrumentista e leader dei Fall Out Boy Patrick Stump: un brano visionario in stile metal-sinfonico, di provocatorio polistilismo e aggressiva impetuosità, con la chitarra in quel ruolo di protagonista qui invece assunto dalle percussioni. Può piacere o meno, ma nel suo genere è originale.
 Poi passate a Balfe, magari partendo dall'iniziale brano omonimo del film: una tipica, martellante marcia percussivo-elettronica fondata su un bellicoso e rudimentale tema principale, entrambi intercambiabili con all'incirca un centinaio di altri consimili. D'accordo, il musicista scozzese è subentrato all'ultimo momento in sostituzione di John Paesano, il 40enne compositore italoamericano del ciclo fanta-distopico (a proposito di novità....) Maze Runner; ed è dunque lecito il sospetto che le cose abbiano proceduto un po' in corsa, magari riciclando qualcosa dalla propria cassetta degli attrezzi...
 Non lo sappiamo, ma quel che sappiamo è gli sforzi che Balfe sta compiendo per guadagnare posizioni e distinguersi con uno stile personale nella classifica dei compositori “da blockbuster” di area zimmeriana rischiano di essere vanificati da assemblaggi un po' caotici e  adolescenziali come il presente. L'abiura di un sinfonismo convenzionale a favore di un sound tecnologico il cui unico obiettivo sembra essere la “quantità” ha ormai perso qualunque connotato di originalità e va solo ad ingrossare i crediti di un tipo di cinema prigioniero delle proprie dimensioni ipertrofiche. Questo comunicano pagine schiacciasassi come “Rise of the Jaegers”, “Shatterdome arrival” o “Sneaking in”, dove anche la greve rozzezza degli intervalli adottati, oltre alla scelta di confinare gli imponenti mezzi tecnologici a disposizione quasi unicamente nella sezione ritmica, producono un effetto di disarmante banalità, malgrado a tratti – come nella parte intermedia di “Shao industries” - si aprano episodi anche interessanti, più pacati e con alcuni pallidi cenni di tematismo. Del resto “Born into war”, con una melodia astrale e trasognata che si alza dai synth per essere raddoppiata nel fraseggio severo degli archi, ci dice di cosa Balfe sarebbe capace se volesse, o se glielo consentissero: magari lavorando per contrasti, nell'accostare momenti di celestiale tranquillità a deflagrazioni brutali come in “Get it done”, o lasciandosi andare a lugubri meditazioni richiamando in causa gli archi come nel bellissimo e isolato “Amara”. Anche nella gestione dei leit-motifs, come del resto ha dimostrato in altre occasioni, Balfe può confermarsi artista attento e sensibile, ad esempio riprendendo nell'inizio di “Battle speech”, in una veste più intensamente drammatica, il tema di “Born into war”, oppure in “Victory”, vigorosamente scandita e affermativa senza per questo essere grevemente pompieristica.
 Ma sono lampi di talento che scintillano troppo poco e per troppo poco tempo. Le necessità della committenza chiamano, e lo fanno a un volume troppo alto perché si possa ignorarle. Resta allora l'impressione sempre più radicata, dopo l'ascolto di tre sue recenti partiture variamente “muscolari” (questa, 12 Soldiers e Hurricane),  che Balfe quello spazio di autonomia e originalità creativa di musicista sensibile, moderno ma in fondo anche nostalgico, riesca a ritagliarselo meglio in operazioni di spessore diciamo così un po' più accentuato: pensiamo al recente documentario sullo scrittore Salinger (partitura splendida e raffinatissima) o al suo Churchill o ancora a Un sogno chiamato Florida. All'orizzonte si profila invece il sesto capitolo delle avventure dell'ormai prepensionabile agente Ethan Hunt/Tom Cruise: dove la vera “Missione impossibile”, per Lorne Balfe, sembra a questo punto quella di liberarsi dal remunerativo ma sempre più soffocante cliché di compositore-spaccatutto.

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