Thoroughbreds

cover amiche di sangue newErik Friedlander
Amiche di sangue (Thoroughbreds, 2017)
BackLot Music
10 brani + 6 canzoni – Durata: 35'32”

Quando figure provenienti dagli ambienti del jazz newyorkese d'avanguardia approdano alla musica filmica ci si può aspettare di tutto tranne che banalità. Valeva per il sassofonista Colin Stetson di Hereditary, vale ora per il violoncellista di trincea Erik Friedlander (da non confondere col quasi omonimo matematico americano Eric Friedlander, anche se...), celebre soprattutto per il suo sodalizio col sassofonista John Zorn ma anche per le sue collaborazioni con artiste quali Alanis Morissette, Courtney Love e Laurie Anderson; e che al cinema conosciamo soprattutto come esecutore e solista di prestigio (per David Robbins, fratello del regista Tim, in Dead Man Walking ma anche per Teho Teardo in L'amico di famiglia e La ragazza del lago), poi come compositore nel 2003 per il documentario Kingdom of David: the Saga of the Israelites e nel 2017 per una bizzarra “dramedy” giapponese sul tema del doppio, Oh Lucy!.

 Il concetto di bizzarria, unitamente a quello della fusione tra elementi drammatici e leggeri – in questo caso addirittura orrorifici e/o comici – andrà tenuto presente in questa score per l'opera prima del giovane regista di St. Louis Cory Finley, una tragicommedia nera-nerissima sulla letale amicizia fra due adolescenti ritrovatesi dopo anni solo per scoprire che hanno molti interessi in comune: fra cui un omicidio. Qualcuno vi troverà analogie con il leggendario Delitto per delitto hitchcockiano, di cui questa pare una versione femminil-giovanilista aggiornata all'era slasher, o magari con Amiche da morire della nostra Giorgia Farina. Quel che fa la differenza sono proprio le opzioni musicali esercitate in Thoroughbreds (letteralmente “purosangue”), all'insegna di un linguaggio radicalmente spiazzante, estraneo a qualunque stereotipo di genere sia brillante che thriller, orientato piuttosto all'esasperato prosciugamento degli interventi secondo una linea espressiva asettica, da autopsia del suono, attraverso rigide forme geometriche (di qui una curiosa coincidenza intellettuale con il suo quasi omonimo); e dove Friedlander si riserva il ruolo del “guastatore”, delegando una funzione più distesa e gradevolmente sarcastica (quando non scopertamente grottesca) al vasto parco di brani firmati da artisti e artiste indipendenti o “underground”, come Wendy Wang/The Sweet Hurt, Rome Will Burn o Bryan Lurie.
 I contributi del musicista americano sono spesso tanto brevi quanto scioccanti: “Finding mom” è un saltellante movimento di percussioni inframmezzato da miagolii e versi di ogni tipo, in una chiave caricaturale; “Cycle treachery” e “Thoroughbred” vibrano più di silenzi che di suoni, in un'atmosfera di sbigottita estraneità, con il cello che cava note sporche e intermittenti, su sfondi di rumori quasi meccanici o marionettistici, il tutto in un clima che ricorda certi lavori di John Cage, autore sicuramente noto a Friedlander. L'orrore e la ferocia non sono enfatizzati dai banali armamentari acustici cui siamo abituati, bensì pedinati da una cinica, estrema pervicacia sottrattiva che spoglia la musica di ogni valenza emozionale o possibilità di empatia, un po' come il personaggio di Amanda (Olivia Cooke): e così, sibili e ticchettii di indefinibile provenienza si aggrovigliano insieme a pizzicati del cello (“Taking Tim down”), a volte prendendo la forma di un ostinato gelido, attraversato da accordi scheletrici (“Win win”).
 Gli interessi specifici del compositore, ovviamente gravitanti intorno agli ambienti delle avanguardie e frutto delle sue collaborazioni con le personalità di maggior spicco della ricerca musicale che ricordavamo sopra, lo conducono a soluzioni e atteggiamenti tranchant: il suo strumento elettivo è utilizzato in ogni direzione e registro (“Break point”) tranne che in quelli di una benché minima comunicazione sentimentale, anche in questo dimostrando la perfetta sintonia con gli intenti registici ma nel contempo ricorrendo, per ottenerla, a stilemi e lessico propri della più avanzata musica contemporanea acustica. Di più: Friedlander lavora astutamente sul nesso psicologico che da sempre intercorre tra musica diciamo “moderna”, atonale o dodecafonica o “concreta” o “aleatoria” che dir si voglia, e situazioni variamente riconducibili a tensione, paura, angoscia. Dimostrandone, non senza ironia, la reciproca permeabilità e funzionalità con una straordinaria e radicale economia di mezzi: escono da questa alchimia pagine come la misteriosa, catafratta  “Fraying at the edges”, delicatamente ma minacciosamente adagiata su dissonanze del quartetto d'archi, o “Unstable”, nel suo gioco macabro di echi fra solisti in cui s'intromette la celesta mentre il rintocco dei sonagli – frequente nella partitura – fa quasi pensare all'allarmante presenza di un rettile pronto ad aggredire.
 Sono tutti frammenti, segnali apparentemente casuali e caotici, si direbbero detriti musicali alla deriva che non possono e non vogliono aspirare ad una risultante omogenea e identificabile; ma quello di Friedlander è senz'altro uno degli approcci più personali, innovativi e destabilizzanti che si siano mai uditi nel soundtrack di una pellicola comunque ascrivibile al genere thriller non meno che alla commedia nera. Come se lo slasher incontrasse lo slapstick, e fosse in grado di farlo soprattutto grazie ad una componente musicale che ha assegnato all'avanguardia il compito di celebrare le nozze tra l'estremamente terrificante e l'estremamente buffo.

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