Skyscraper

cover skyscraperSteve Jablonsky
Skyscraper (Id., 2018)
Milan Records 398 048-2
17 brani + 1 canzone – Durata: 71'39”

Assegnare a Steve Jablonsky un film come Skyscraper è un po' come offrire a Dracula una bistecca al sangue o chiedere a Nerone se ha da accendere. Premesso che difficilmente vedremo mai compositori tipo Ludovico Einaudi o Gary Yershon coinvolti in score per film simili, è normale che uno dei musicisti più muscolari in circolazione venga quasi calamitato nell'ultima impresa impossibile di Dwayne “The Rock” Johnson, sorta di remake tardivo di quel L'inferno di cristallo che nel lontano 1974 costituì uno dei primi capolavori di John Williams.

 Ma nessun paragone è possibile, ovviamente. L'autore della saga di Transformers sa perfettamente cosa ci si aspetta da lui ed è ben lieto di fornirlo. Però, come già osservato in altre occasioni, in Jablonsky – un po' come in Balfe, ma forse in misura più accentuata – sonnecchia un compositore tutt'altro che dozzinale o banalmente assordante, al quale le redini della Remote Control zimmeriana risultano sempre più riduttive; vi basterebbe qui ascoltare la bella, toccante progressione di “Will and Sarah”, ballata epica per archi, chitarra e synth dai risvolti volutamente lirici; o “Hostage pt.1” (più convenzionale e scenografica la “pt.2”), diviso fra la solenne, imponente introduzione e lo sviluppo ritmico, agitato e incalzante.
 Tutta questa score, poi, sembra quasi voler lievitare verso irraggiungibili, e non solo simboliche altitudini, metaforizzando l'immenso grattacielo in fiamme al centro della vicenda ma anche aspirando ad una sorta di trascendenza rituale e celebrativa: plateale, sin dal titolo, l'esempio di “Welcome to heaven”, col suo fluente tema per archi e la presenza di arpeggi e rintocchi celestiali. Detta altrimenti, Jablonsky pare qui rinunciare ad alcuni facili stereotipi action in favore di una tensione più “orizzontale”, diluita e oscura. Ne risentono anche pagine più “spinte” sul fronte dinamico, come l'allucinante “Botha” e la terrificante “The crane”: la prima cementata da un'altalena di crescendi e diminuendi su un disegno elementare di due note sino ad una deflagrazione atomica; la seconda egualmente inchiodata su un “do” infuocato attorno al quale roteano effetti, percussioni, gemiti degli archi e rabbiosi strappi di ottoni. Tutto è portato ad una temperatura di fusione ai limiti della sostenibilità acustica (“Chopper ambush”) secondo una logica del suono incendiaria, che ben si attaglia al soggetto del film... La densità quasi materica degli accumuli timbrici (“Bridge collapse”) fa passare ovviamente in secondo piano la complessità della scrittura jablonskyana, che poco ha da spartire con quella dei vari Bates, Tyler, Djawadi o Junkie XL; ed il rischio è appunto che l'irrinunciabile vocazione al too big di questi blockbuster adolescenziali, concepiti perché i ragazzini facciano “ooh...”, per dirla con l'ineffabile Povia, compromettano in partenza anche le migliori intenzioni. Ma poi arrivano pagine come “Georgia & Henry”, col suo severo, scolpito e corrucciato fraseggio degli archi ripreso dal pianoforte, o l'impressionante “Reflections”, un inno al calor bianco innervato dal saettare degli archi la cui seconda parte è un vertiginoso ottovolante tra esplosioni telluriche e improvvise, tesissime pause; o ancora la fenomenale “Skyscraper”, costruita con una semplice, implacabile sovrapposizione di strati strumentali su un soffocante passo di corsa.
 E quando arrivano appunto questi momenti, ci si rende conto della marcia in più che Jablonsky possiede e che gli permette, pur ottemperando a tutte le esigenze di questo tipo di committenza che ormai sappiamo tenere i compositori nel conto di obbedienti tecnici del suono (anzi, del rumore), di mantenere un profilo originale e difficile da non notare; sottolineato, in chiusura (prima di “Walls” proposta dal cantautore british Jamie N Commons), dalla splendida “The pearl”, edificata su un lungo ostinato – secondo uno schema ricorrente nel compositore – per poi aprirsi, anzi spalancarsi su un orizzonte quasi esoterico di suoni siderali aggregati in melodie lente, sinuose, seducenti, e dove l'impronta mistica è talmente profonda da risultare quasi surreale.
 Partitura ricca, dunque, anzi a volte debordante di sensazioni contrapposte, comunque di rispettabilissima classe e travolgente energia. Quanto dire che quando il gioco si fa duro, Jablonsky comincia a giocare.

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