Oz the Great and Powerful

cover oz elfmanDanny Elfman
Il grande e potente Oz (Oz the Great and Powerful, 2013)
Disney/Intrada D001809202
27 brani – Durata: 66’19’’

Importante e tardivo recupero estivo questo score. Sottovalutato almeno quanto Alice in Wonderland di Tim Burton, Il grande e potente Oz di Sam Raimi va oltre la dimensione di un piacevole fantasy per ragazzi – un prequel del famigerato Il mago di Oz di Victor Fleming – e a ben vedere è un autentico saggio sulla figura dell’artista cialtrone, ma anche sul cinema come illusione e macchina miracolosa di eccitazione e sgomento; e come il film su Alice si avvale del contributo musicale del maestro del fantastico Danny Elfman.

Per il film di Raimi, il genio texano sfodera tutto il suo armamentario di genere: orchestrazione ricca fino alla saturazione, tematismo sognante e dolente, fanfare trionfali secondo coordinate che ormai hanno fatto scuola ma che nessuno è riuscito davvero a imitare. Certamente “artista cialtrone” anche lui, Elfman ricicla un po’ di materiale del suo lavoro precedente per creare il bellissimo tema, in minore e su ritmo di valzer, che apre i “Main Titles” e ricorda da vicino La sposa cadavere; poi la fanfara in maggiore che esplode poco dopo, preceduta da una progressione in crescendo, è ulteriore segno di felice ispirazione, ma a colpire più dei temi è ancora una volta la folgorante costruzione del discorso musicale, capace fin dalla prima traccia di mutare continuamente carattere, con l’irruzione di marce prokofieviane, cambi di tonalità e soprattutto un controllo della massa orchestrale e corale che non ha pari.
La generosa scaletta dell’album regala un incanto senza sosta: la nobile “A Serious Talk”, dove archi e legni (con interventi significativi di arpa e pianoforte) si susseguono in un decorso armonico insieme mesto e limpido; “Oz Revealed”, prima indecisa fra elucubrazioni corali e tremoli dei violini, poi grandiosa e suggestiva nelle possenti entrate degli ottoni e infine rocambolesca nelle caratteristiche impennate ritmiche, nei ribattuti degli ottoni e nei glissandi di arpa. La visionarietà elfmaniana esplode con la freschezza degli esordi nel caos apparente di “A Strange World”, dove si affaccia il tema-valzer ora agli archi ora al coro; la stessa atmosfera fatata permea “Where Am I?/Schmooze-A-Witch” e “Fireside Dance”, in cui la ripresa del motivo è particolarmente intensa. Gli staccati e i pizzicati di “Meeting Finley” lasciano il posto con impagabile fantasia a progressioni magniloquenti, glissandi di violini, fraseggi del clarinetto e virtuosismi dei legni, mentre la chiusura di “The Emerald Palace” presenta per la prima volta il tema-valzer in veste minacciosa, con un’esposizione in trillo e una magistrale ripartizione degli archi. Di qui alla fine non v’è poi praticamente traccia che non manifesti la stupefacente mobilità armonica della scrittura elfmaniana: in “Treasure Room/Monkey Buisness” (qui la fanfara dei “Main Titles” compare su armonia minore), nella successiva “China Town”, che parte da una horror music con tocchi alla Psycho per arrivare a intense frasi del violino solo e a un tema di disneyano candore; poi anche in “A Con Job”, dove le spensierate atmosfere iniziali vengono presto interrotte da un sinistro aggravamento dei toni (con tanto di rintocchi di campana), e in “The Bubble Voyage”, apice di fascinazione e commozione.
Il materiale di “A Serious Talk” torna nella quieta “Glinda Revealed”, ma l’incanto si spegne presto nella filastrocca su musica da circo di “The Munchkin Welcome Song” (cantata dallo stesso Elfman con effetti deliranti alla Charlie and the Chocolate Factory) e nella cupa “Bad Whitch”, dove il valzer svolge la sua traiettoria variativa più importante: di qui in poi tornerà prevalentemente in versione “stregata” (memorabile nel finale di “Theodora’s Entrance/A Puppet Waltz) o intensamente fatalistica (“A Threat”, “Destruction”). L’Elfman più percussivo imperversa nella seconda parte di “Bed Time/The Preparation Montage” e nelle straordinarie sequenze d’azione, su tutte la parte finale di “Call To Arms” e la seconda sezione di “Fireworks/Witch Fight”, con scansioni corali e interventi organistici raggelanti.
Per il lieto fine tornano sonorità distese e trionfali (“Time For Gifts”), mentre gli “End Credits From Oz” regalano splendide riesposizioni dei temi principali, spegnendosi su quello che ha aperto l’album, scandito in fine ultimo da definitivi rimbombi di timpani.
Questo lavoro rappresenta per Elfman un punto d’arrivo, dopo gli eccessi degli esordi e il manierismo della seconda metà degli anni 2000, ponendosi allo stesso tempo in contrasto e in continuazione con il “rappel a l’ordre” quasi minimalista di Alice in Wonderland: risulta insieme sovrabbondante e preciso, appassionato e vigile, e nella sua perfetta aderenza all’immaginario del fantastico consacra definitivamente il suo autore come un moderno Mendelssohn, comunque sempre agitato dalla folle ossessione di svelare il segreto (o il trucco) del cinema attraverso la musica.

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