The Meg
Harry Gregson-Williams
Shark – Il primo squalo (The Meg, 2018)
WaterTower Music
18 brani – Durata: 51’50”
Le dimensioni contano, recitava lo slogan di lancio del Godzilla di Roland Emmerich, dieci anni fa. Un mantra divenuto ricorrente nei blockbuster 2.0, dove tutto dev’essere assolutamente bigger, più grosso e più cattivo di tutti i precedenti, per essere convincente.
Restando fra le onde, ai vari squali sempre più affamati che si sono succeduti a quello originario di Steven Spielberg (anno di grazia 1975, primo Oscar da compositore per John Williams) sembrava aver posto uno stop definitivo nel ’99 Blu profondo di Renny Harlin (score senza troppe pretese di Trevor Rabin), con i suoi pescioni superevoluti, furbissimi e assassini. Ma non avevamo previsto i tornado con squali incorporati della serie più trash del nuovo millennio, anzi così demenziale nella sua delirante bruttezza da divenire quasi sublime: Sharknado di Anthony Ferrante, qualcosa come sei (!) capitoli dal 2013 a oggi, con partiture peraltro non da buttare di Ramin Kousha, Chris Cano e Chris Ridenhour…
A questo punto per competere occorreva qualcosa di veramente grosso; nel 2011 si registrò già uno Swamp Shark, modesto tv-movie di Geoff Durst con uno squalo di taglia XXL e musiche di Andrew Morgan Smith (Jeepers Creepers 3), poi arrivò il ciclo di Mega-Shark vs.... svariate creature (compresa un Mecha-Shark...) prodotto da The Asylum e se possibile più demenziale di Sharknado (non a caso con lo stesso musicista Chris Ridenhour, in un caso affiancato da Isaac Sprintis). Ma impallidiscono come acciughine, ora, al confronto di The Meg, un pesciolino grande come una portaerei, possibile residuo preistorico del Carharocles megalodon, specie comunemente ritenuta estinta, cui non resta che contrapporre la grinta di un duro “doc” come Jason Statham. Il tutto è abbastanza innocuo e incruento, anche perché alla regia di questo mix tra commedia, fantascienza, disaster movie e horror (l'origine è un racconto di Steve Alten) c'è Jon “Cool Runnings” Turteltaub, ma senz'altro la chiamata in causa di Harry Gregson-Williams (del quale è in arrivo anche The Equalizer 2) sottolinea l'ambizione di dare almeno dal punto di vista musicale una veste “adulta” a quella che rimane comunque una simpatica baracconata.
Il compositore inglese declina subito (“Sub disaster”) l'intenzione di ricercare un suono prettamente “acquatico”, dove il rimbombo elettronico e il profluvio di percussioni evochino le smisurate profondità degli abissi; ma si dimostra interessato anche ad una veste più tradizionale e squisitamente melodica, come nell'agitato “Mana one”, che esibisce un fluente leit-motif con qualche debito onorato nei confronti del “Jaws theme” spielberg/williamsiano, e nel disteso “A new world”, che ricorda un po' certi passaggi di George Fenton per tanti documentari naturalistici. E infatti la partitura appare molto più orientata ad un sontuoso descrittivismo, con ampie volute di archi e misteriosi ululati elettronici ad evocare versi di animali primordiali, che non a sfruttare il consueto bagaglio di stereotipi di genere. Oltretutto non scarseggiano omaggi più o meno espliciti all'”altro” Williams, magari quello di Jurassic Park (in “Preistoric species”), in ogni caso convogliati dentro una struttura e una concezione di relativa ortodossia sinfonica, nella quale le tecnologie del suono vengono utilizzate esclusivamente per trasmettere senso di minaccia, di incombenza, di stupore dinanzi all'ignoto.
Spesso poi a prevalere sono i toni apertamente epici, come in “Toshi's sacrifice”, per i quali Gregson-Williams ricorre ad elementi tematici semplici ma efficacemente scolpiti, come nell'idea che si alza dai corni in “Even the score”; viceversa, le sequenze d'azione si avvalgono pressoché stabilmente di incisi ritmici martellati abbastanza scontati, sia pur disturbati da qualche asimmetria e attraversati da una concitazione di complessa fattura e sicuro effetto (“Tracker”, e specialmente “Shark cage”); non è comunque, in ogni caso, una score a senso unico, perché l'esperto compositore britannico pone molta attenzione nel variare continuamente il passo da esplosioni motorie a fasi di stallo e di contemplazione, quantunque gravida di inquietudine, come in “You saved me”, dalla bella interazione fra archi e ottoni. E sul fronte lirico-melodico, una pagina soave e raffinata come “Dr. Zhang” ci comunica tutta la non comune sensibilità del musicista, unita ad uno sguardo apertamente nostalgico su modelli preesistenti, da Williams stesso a Horner.
Ma poiché il segreto di film e score simili consiste ovviamente nel sapiente dosaggio alternato di climi tranquilli e scariche di adrenalina, ecco che nel superbo “We have a plan” il frenetico guizzare e i glissandi degli archi, l'incisività delle percussioni e il richiamo possente dei fiati costruisce una esemplare pagina action: seguita, sulla medesima lunghezza d'onda, da “Pippin” e “Beach attack” per culminare nel redde rationem di “Jonas vs Meg”. Il tutto senza mai forzare la mano ma affidandosi prevalentemente alle continue mutazioni del ritmo e all'interscambio fra repentine accelerazioni e altrettanto improvvise frenate.
Sino all'epilogo celebrativo di “To our friends”, che ci riconduce al tema di “Mana one” in forma più espansiva e vittoriosa, ma senza mai abdicare a quella frenesia di ritmi e imprevedibilità di forme che costituiscono forse l'elemento più interessante e meno convenzionale della partitura.