Antonioni e la musica

cover_antonioni_musica_libro.jpgRoberto Calabretto
Antonioni e la musica
Saggi Marsilio, 2012, pagg. 206, € 20
http://www.marsilioeditori.it/

 

«Da ragazzo suonavo il violino ma non amo la musica nel film». Al di là dell’evidente assenza di nesso logico fra la prima confidenza e la seconda asserzione, questa frase di Michelangelo Antonioni predispone apparentemente piuttosto male ad un’analisi del ruolo svolto dall’elemento musicale nel suo cinema. A questo primo impatto respingente si sommano ulteriori, ben note prese di posizione del regista ferrarese – sin da quando esercitava l’attività di critico e poi, più tardi, come cineasta – nei confronti di qualunque elemento della sintassi filmica che venisse percepito come “estraneo”, anti-realistico, troppo facilmente emozionale o comunque artificioso rispetto a quella poetica della sottrazione e della rarefazione che è sempre stata l’asse portante della sua opera (sono note anche le invettive di Antonioni contro il doppiaggio, indicato come altro fattore di “falsificazione” e alterazione di una presunta e non ben definibile “essenzialità” o “verità” del racconto filmico).  Tutto questo, unito all’impressione netta che il cinema di Antonioni crea nei confronti dello spettatore-ascoltatore, ossia di un cinema che predilige il silenzio al suono (o meglio fa anche del silenzio un suono) e che certamente aborre dal “commento musicale” per come lo si intendeva in Italia nell’immediato dopoguerra, pare scoraggiare qualunque disamina sulla materia e rende perciò quanto mai eroico un tentativo serio, minuzioso, scientifico di approfondimento del ruolo svolto dalla musica nella sua sessantennale filmografia (dal documentario Gente del Po, 1943, all’episodio Eros da Il filo pericoloso delle cose, 2004). Onore al merito dunque di Roberto Calabretto, docente e studioso pordenonese, nome di punta nella ricerca e nello studio della musica per film in Italia nonché autore di numerosissimi saggi e monografie sull’argomento (esemplare il suo monumentale “Pasolini e la musica” edito nel ’99 da Cinemazero), che ad “Antonioni e la musica” ha ora dedicato, per la veneziana Marsilio, uno snello ma densissimo trattato, fitto di riferimenti, esempi musicali e iconografici, rimandi e richiami. Una ricerca sul campo che parte dalla constatazione di una solo apparente contraddizione:  è certamente vero che la musica, in Antonioni, svolge una funzione completamente diversa anzi opposta a quella delle tradizionali partiture di commento italiane o americane, ma non è men vero che le opzioni musicali del regista, soprattutto nei patchwork pop-rock-techno-jazz-psichedelici della sua produzione più tarda, sono molto nette e molto forti, molto “significanti” e decisamente caratterizzate dal punto di vista linguistico e comunicativo, prestandosi quindi a numerose considerazioni, verifiche e analisi. In altri termini, come osserva Calabretto, «nel cinema di Antonioni la musica si pone come presenza di grande interesse… È però una musica “realistica”, come la definirà significativamente lo stesso regista, che utilizza i rumori e le sonorità elettroniche, lontana dagli stereotipi che allora imperversavano nel cinema italiano e che riducevano la sua funzione ad un banale e scontato accompagnamento dello scorrimento delle immagini. Antonioni, pertanto, non nega l’importanza della colonna sonora ma piuttosto ne ripensa le funzioni e lo statuto».
 Tutto da definire, ovviamente, il concetto di “musica realistica”, così come tutte da circostanziare e circoscrivere “banalità” e “scontatezza” della musica per film italiana tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Di cosa parliamo e di chi? Della musica per il cinema postneorealista e dei suoi cascami postveristi o della spinta innovativa già in agguato con Nascimbene prima e Morricone poi? Del jazz contratto e non meno “realistico” di Piero Piccioni per il cinema di Francesco Rosi o dell’universo poetico parallelo di Nino Rota per quello di Fellini?
 Anche sospendendo questi interrogativi, resta chiaro e limpido il nocciolo della questione: Antonioni rifiutava la musica come “sovrapposizione” emotiva alle immagini, come sottolineatura, come linguaggio e/o valore aggiunto. La musica viene in lui sottoposta ad un continuo, estenuante lavorìo di prosciugamento, di sottrazione, di essiccazione, ben documentato dalle testimonianze di Giovanni Fusco, il profetico e modernissimo musicista del primo Antonioni, quando racconta come le sue già scarne, spettrali, cameristiche partiture venissero ulteriormente deprivate, silenziate, annichilite dai diktat del regista in sala di montaggio; o dalle dichiarazioni di Herbie Hancock e dei Pink Floyd, reclutati rispettivamente per Blow Up e Zabriskie Point, il cui lavoro fu egualmente decurtato e minimalizzato dal regista in una sorta di cupio dissolvi sonoro che tendeva, di fatto, a omologare musica, suono e rumore in un'unica identità percettiva.
 La paziente perlustrazione di Calabretto, arricchita da esempi musicali e visivi, segue la linea di estrema coerenza antonioniana lungo questo percorso, dalla “trilogia dell’incomunicabilità” a Deserto rosso, sino alla svolta pop degli anni ’60-’70 e alla radicalizazzione di Professione reporter, per arrivare alla riflessione (disastrosa, sotto il profilo estetico) de Il mistero di Oberwald e alle ultime, malinconiche opere.  Un itinerario che passa anche, naturalmente, attraverso il cospicuo utilizzo di musica preesistente e culturalmente referenziale (Oberwald, con Richard Strauss e Schönberg: nulla a che fare dunque – anzi – con le fulminanti decontestualizzazioni e le astrazioni kubrickiane) o comunque di musica “di consumo” giovanilista, dal twist di Mina in L’eclisse al Lucio Dalla di Al di là delle nuvole, sempre intesa perciò come musica di riferimento iconico o situazionistico, mai – per carità!... - come elemento di ricerca autonoma o di libera espressività di un linguaggio a sé stante. Un approccio, quello di Antonioni al pop-rock, che nell’84 conobbe anche lo sconsolante episodio del videoclip di “Fotoromanza“ di Gianna Nannini, dove i versi della canzone («Questo amore è una camera a gas») sono visualizzati alla lettera dal regista (del gas che filtra da sotto una porta!) con un didascalismo che non si sa se definire ingenuo, canzonatorio (ne dubitiamo) o semplicemente senile.
 Dentro questa gabbia il ruolo della musica nel cinema antonioniano si è rivelato a suo modo decisivo nella definizione della poetica del regista e nella circoscrizione del suo universo linguistico, pur negandosi in prospettiva a qualunque “identificazione di uno stile” o di un approccio dai contorni precisabili. A differenza di altri registi che hanno quasi drasticamente rifiutato l’uso della musica nel proprio cinema (come Bresson, Tarkovskij o Buñuel), Antonioni ne subordina i compiti e le funzioni ad una supremazia generale della dimensione sonora come integrazione alla dimensione visiva, svincolando quindi i suoni (le note) da qualsiasi legame o destino di comunicazione, e puntando anzi ad una intransigente, criptica e vagamente fondamentalistica concezione antiretorica della musica.
 L’indagine di Calabretto, nella sua scintillante laboratorialità, ci restituisce intatti e inappellabili questo itinerario e questa ideologia estetica, di cui oggi gli spettatori che volessero riaccostarsi all’opera di un grandissimo e distantissimo maestro sono chiamati a distinguere i pregi dalle contraddizioni, le ovvietà cultural-intellettuali dalle intuizioni, gli snobismi in provetta dalle incancellabili conquiste di modernità.

 

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