Franco Ferrara - Genio, dolore, ricerca

cover_libro_ferrara.jpgRoberto Liso
Franco Ferrara - Genio, dolore, ricerca
Pagg. 592, 361 illustr., euro 48
Cd audio con 9 brani – durata: 49’ 50”
Rugginenti Editore, Milano, 2013
www.rugginenti.it



Franco Ferrara (1911 – 1985) non era solo l’erede di Arturo Toscanini. Era, di fatto, un nuovo Toscanini. Herbert von Karajan confidava di essere persuaso che la propria fama fosse dovuta unicamente al fatto che Ferrara si era dovuto ritirare dal podio, chè altrimenti il numero 1 sarebbe stato lui, il maestro palermitano, l’uomo gentile e tenace, fragile e inesorabile che tra gli anni Trenta e Quaranta si era levato come un astro abbagliante nel panorama direttoriale, e che sarebbe poi stato il protagonista assoluto della didattica orchestrale italiana.
Un consiglio preliminare: prendete questo incredibile, imponente, minuzioso, imprescindibile volume di Roberto Liso, una messe di documenti e testimonianze di prima mano, di analisi, di informazioni, di particolari, andate all’ultima di copertina e sfilate il cd audio imbustato che accompagna il tomo della Rugginenti. Sono cinquanta minuti di assoluto disvelamento della grandezza fulminante di un interprete: passi per l’audio non eccelso, sono registrazioni di fortuna masterizzate da precari supporti in vinile, ma la forza delle interpretazioni ferrariane rimane inviolata e immensa. Andate all’attacco della Sinfonia verdiana dalla “Forza del destino”: lo stacco balistico dei sei “do” iniziali, con il respiro lungo della pausa che separa le due triadi; la frenesia trattenuta, ansimante, del pianissimo “allegro agitato e presto” che segue; l’impalpabile, struggente lievità dell’”andantino” di flauto, oboe e clarinetto, cadenzato con una lentezza dolorosa. Si resta sbalorditi rispetto a qualsiasi altra esecuzione che non sia, appunto, quella toscaniniana. Di cui Ferrara ereditava il rigore laico, spietato della lettura, ma che arricchiva con una plasticità di forme, un rilievo del dettaglio, una tensione interiore se possibile ancora superiori: tali che furono una delle concause del suo male, e del susseguente abbandono del podio classico. E ancora un’Ottava di Beethoven scansionata secondo un’implacabile geometria di spazi, una Notte sul Monte Calvo di orgiastico, freddo nitore, un Mormorio della foresta wagneriano che vibra di brividi interiori e di purissimo mélos… Sono testimonianze uniche nel loro valore, ma a differenza di quanto si pensa, altre ne restano, esemplari, del magistero direttoriale di Ferrara, cui va anche aggiunta una “Vita d’eroe” op.40 di Richard Strauss registrata nel ’50 con l’Orchestra della Rai, dall’architettura imperiosa e dai contorni taglienti. Nel suo racconto per immagini e parole, Roberto Liso, che ha sempre coltivato insieme alla propria professione di àmbito giudiziario la passione per le arti e la musica, e che può vantare una conoscenza personale con Ferrara, ne ricorda ed enumera le tappe, prima e dopo “la caduta” degli anni Quaranta, sia nel repertorio classico che nel mondo della musica per film italiana e internazionale tra gli anni ’50 e ’60, di cui Ferrara divenne l’interprete per eccellenza. E ci accorgiamo allora di come, proprio grazie al cinema, molti di questi lasciti, attraverso numerose interpretazioni, ci rimangano oggi a dimostrazione della grandezza assoluta di questo interprete: perché Ferrara incrociò spesso il proprio lavoro con partiture filmiche che incorporavano e riproponevano pagine del repertorio classico, cosicché ognuna di queste esecuzioni si staglia come modello inarrivabile. La Quinta di Beethoven, con un attacco che fulmina l’ascolto, in Le notti di Cabiria di Fellini, l’abbrivio da capogiro della Passacaglia conclusiva della Quarta di Brahms in Proibito di Monicelli, il Donizetti di Bellissima di Visconti, rarità in cui si vede il maestro dirigere, l’adagio wagneriano della Settima di Bruckner per Senso ancora di Visconti, un Barbiere di Siviglia rossiniano di Mario Costa con Tito Gobbi; e quell’Adagio dalla Sinfonia n.11 di Dimitri Shostakovich, pagina di una grandezza luttuosa e di un pathos travolgente, che Ferrara affronta con una potenza tragica senza eguali in I sequestrati di Altona di De Sica: film che è anche all’origine di una delle sue numerose e sconosciute ma vulcaniche composizioni, quella “Fantasia tragica” che il maestro aveva concepito come parafrasi sostitutiva della pagina shostakovichiana allorché sembrava che l’originale del maestro russo non giungesse in tempo per il missaggio finale del film di De Sica.
Ma a queste pagine classiche si deve poi aggiungere, come accennavamo, un’attività di direttore cinematografico instancabile e inesauribile: qui aggiungiamo una nostra testimonianza personale, raccolta durante le numerose frequentazioni che Ferrara ebbe con la famiglia di chi scrive. Il maestro viveva con ambivalenza il suo lavoro nel cinema: da un lato ne percepiva la sussidiarietà rispetto a quella che avrebbe dovuto e potuto essere la sua carriera, ma dall’altro applicava a quelle partiture il medesimo rigore, la medesima inesorabile visione del mondo con cui avrebbe e aveva affrontato il repertorio classico, sino a venire sconfitto proprio per un eccesso di sensibilità, di vulnerabilità, di protensione alla perfezione assoluta. Ciò significa che le partiture di Nascimbene, Rota, Trovajoli e tanti altri compositori cinematografici diretti da Ferrara, rilucono ancora oggi – queste sì grazie a registrazioni impeccabili e ad una inestimabile politica di ristampe di alcune case discografiche – di una grandezza e di una modernità sfavillanti. Questi compositori divengono, grazie a Ferrara, di fatto “classici” (si pensi al Rota del Gattopardo o al Trovajoli di Italiani brava gente), che Ferrara rispettava e tutelava alla stessa stregua dei grandi del passato.
Ma c’è poi l’altro, fondamentale aspetto del “genio” e della “ricerca” di Ferrara: il didatta. Qui il “dolore”, che è il terzo polo dell’indagine di Liso, potè finalmente sciogliersi e lenirsi in una trasmissione di saperi quasi mistica, magica. Ho assistito personalmente a Venezia a numerose lezioni di direzione d’orchestra di Ferrara, col maestro posizionato dietro l’allievo a raddoppiarne, rinforzarne, precisarne meglio i gesti e le disposizioni, e l’orchestra che reagiva come un nervo scoperto, come un unico strumento ardente e ipersensibile. Da Siena a Tanglewood, da Hilversum a Venezia, due generazioni di maestri, da Abbado a Muti, da Chailly a Mehta, da Maazel a Gelmetti, da Sinopoli a Scimone, da Ferro a Pesko, sono passati attraverso le sue lezioni, sviluppandone gli input a seconda delle diverse personalità e delle diverse predilezioni. Più che insegnare, Ferrara sembrava reincarnarsi nei suoi allievi, attraverso l’emissione di un flusso psicologico, spirituale, intellettuale che non dava respiro. Non vi era in lui solo l’attenzione maniacale al dettaglio, la stessa che ne avrebbe mandato in corto circuito il sistema neurologico, provocandogli i mancamenti e i collassi che lo obbligarono al ritiro; c’era una visione architettonica della musica complessiva, che emerge con nettezza dalle testimonianze discografiche, sia classiche che cinematografiche, e che balzava evidente anche nelle conversazioni con lui, nelle analisi, nei lunghi studi delle partiture, nel confronto e nel rapporto con le altre grandi interpretazioni e gli altri grandi direttori, in primis il venerato Toscanini ma anche l’antinomico, gigantesco Wilhelm Furtwängler.
Nell’opera di Liso c’è tutto questo ma c’è anche molto altro: c’è innanzitutto una forma di meticoloso reportage giornalistico che perlustra tutte le tappe dell’esistenza artistica e umana di Ferrara, attraverso dichiarazioni, osservazioni e documenti provenienti dalle più disparate fonti di archivio; c’è la folla di personaggi, compositori, colleghi, allievi, amici, personalità del mondo dell’accademia musicale e del cinema, che hanno circondato l’esistenza di Ferrara e ne hanno scandito, accompagnato le tappe, le conquiste e i travagli; c’è la ricostruzione cronachistica, per nulla compiaciuta ma asettica, oggettiva, del male oscuro che lo colpì e della difficoltà di curarlo, e insieme a questa la cronistoria della reazione e della “nuova vita” che Ferrara si impose; c’è una mole di apparati sensazionale, a partire da una filmografia capillare di tutti i titoli che coinvolsero musicalmente Ferrara, un elenco di tutte le registrazioni conservate negli archivi Rai, e due interviste tarde (1982 e 1985) fondamentali per intuire il rapporto che Ferrara deteneva con i grandi maestri del podio ma anche con i suoi colleghi contemporanei, da De Sabata a Bernstein. Un rapporto mai di rivalità o di contrapposizione, ma quasi sempre di integrazione, di completamento, di affettuoso raffronto.
Si sfogliano le pagine del libro di Liso e, per chi ha conosciuto il maestro, si rivive una stagione irripetibile nella storia dell’interpretazione musicale e – in parallelo – nella storia della musica cinematografica italiana; ma si riflette anche, insieme all’autore, sulla lezione “morale”, etica ed estetica, che Franco Ferrara ha lasciato. Una vita per la musica, la sua, come lo stesso premio assegnatogli alla Fenice di Venezia: ma anche la musica come vita, come impegno e imperativo dello spirito. Un’urgenza interiore che nessun destino avverso poté sconfiggere, e che a distanza di quasi trent’anni dalla sua scomparsa convogliano ancora oggi nei confronti della sua figura un sentimento di profonda gratitudine.

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