Ennio – Un maestro

cover libro morricone tornatore conversazioneEnnio Morricone, Giuseppe Tornatore
Ennio – Un maestro (2018)
Conversazione
HarperCollins
Pagg. 334, € 19,50
www.harpercollins.it

Il titolo è apodittico, quasi devozionale. Il sottotitolo ingannevole. Più che ad una conversazione, ci troviamo infatti dinanzi a un monologo intervallato da alcune interlocuzioni. Il più delle volte – va detto – abbastanza superflue o pleonastiche.
Non è certo la prima volta che il maestro romano due volte premio Oscar (alla carriera e per The Hateful Eight), splendido novantenne e protagonista indiscusso della musica contemporanea (filmica e non), sceglie la formula dell’intervista e del dialogo per raccontare in realtà la propria autobiografia. Ricorderemo infatti i lunghi colloqui con lo scrittore Antonio Monda (“Lontano dai sogni”, Mondadori, 2010) e con il compositore Alessandro De Rosa (”Inseguendo quel suono”, sempre Mondadori, 2016): più abbandonato al flusso dei ricordi e delle esperienze il primo, più tecnico e specifico sui “ferri del mestiere” il secondo.

 Ma con “Peppuccio” (come lo chiama affettuosamente e confidenzialmente Morricone) Tornatore, il compositore vanta un rapporto ormai trentennale, dunque quello continuativamente più lungo della sua carriera, con undici titoli da Nuovo Cinema Paradiso (1988) a La corrispondenza (2016), ben indagato dalla monografia di Manuela Dragone “Pura musica pura visione. Ennio Morricone & Giuseppe Tornatore” (2013, Pellegrini Editore). Il che si è tradotto non solo in una sintonia artistica, in un’intesa a prima vista e al primo ascolto che fanno di questo sodalizio il legittimo erede di quello che Morricone intrecciò a suo tempo con l’amico ed ex compagno di banco Sergio Leone; ma è divenuto anche un rapporto fortemente personale, apertamente padre-figlio, maestro-discepolo, all’interno e grazie al quale Tornatore ha potuto sviluppare negli anni una sensibilità, un’attenzione, un intuito musicali che a giudizio dello stesso compositore costituiscono un esempio più unico che raro nella pur affollatissima e qualificata galleria di registi con i quali si è trovato a collaborare.
 Questa totale confidenza traspare da ogni pagina di questa lunga chiacchierata, basata su un’intervista che Morricone ha rilasciato a Tornatore in occasione di un documentario tuttora in cantiere prodotto dalla Piano B Produzioni: ed è un atteggiamento che si traduce in pro e contro.
 Fra i primi. Morricone si apre al suo interlocutore con una libertà ed una fiducia probabilmente mai concesse prima a chicchessia. Racconta della propria famiglia, dei propri affetti più cari, non senza alcune struggenti annotazioni di rimpianto come quello per aver forse trascurato a causa del lavoro l’adorata moglie Maria, tuttora sua prima consigliera oltre che compagna di una vita; parla del figlio Andrea, e di come fosse inizialmente perplesso sulla sua scelta di seguire le orme paterne nella carriera di compositore. Ricostruisce nei dettagli (ed è forse la parte più interessante) i propri inizi come arrangiatore e autore di musica leggera, unitamente alle esperienze di avanguardia nel gruppo Nuova Consonanza, vissute con impeto rivoluzionario e incurante del consenso di pubblico e/o critica. Si prodiga in una serie di aneddoti e rivelazioni sul rapporto con l’esercito di registi con i quali ha lavorato, soffermandosi soprattutto su quelli che hanno intrecciato con lui un rapporto privilegiato: da Leone ovviamente al difficile Pasolini, dal compianto Bertolucci a De Palma, da Bellocchio a Montaldo, da Siegel a Petri. Non lesina giudizi anche severi, compresi quelli autocritici, pur tenendo fermo un punto per lui imprescindibile: il compositore per il cinema è al totale servizio del regista, ma nel contempo al compositore compete il diritto di accettare o rifiutare un incarico (e Morricone ne ha rifiutati molti) se non si riconosce nelle richieste che gli vengono rivolte. Di qui l’insofferenza del maestro verso coloro che gli chiedono di “imitare” qualcun altro o – peggio – di imitare sé stesso. Magari il sé stesso dei western di Leone, periodo che Morricone è disposto – malvolentieri - a ricordare solo a patto che non diventi l’unico tratto distintivo di una carriera sessantennale dove quei film sono quantitativamente una briciola in una filmografia di oltre cinquecento titoli. Anche se – ci permettiamo di aggiungere – quei film e quelle partiture sono altrettanti capolavori interni a quel periodo: e anche se il giudizio piuttosto negativo che il musicista ne dà oggi dimostra solo, ancora una volta, come raramente un grande artista sia il miglior giudice della propria opera.
 Morricone illustra anche con chiarezza – rispetto ad esempio ad alcuni tecnicismi dell’intervista con De Rosa – il proprio metodo di lavoro, in una giornata tipo che inizia all’alba e si conclude a sera inoltrata; e svela una volta di più quali sono i numi tutelari del suo personale Pantheon: Bach, Monteverdi, Frescobaldi. Ovvero i giganti della musica dal Rinascimento al Barocco; soprattutto Bach, sul cui nome si è divertito a tessere infinite elaborazioni e variazioni, e le cui architetture razionali e affascinanti rimangono alla base della sua concezione del comporre.
 Rimane intatto, insondato e insondabile, il mistero della scintilla ispirativa di Morricone, la cui perpetuità e unicità sono rimaste inalterate nei decenni a prescindere totalmente dal valore delle committenze e persino dagli esiti – ovviamente non tutti sempre sullo stesso piano di eccellenza – delle sue partiture: così come unica rimane quella sua formula (che peraltro il maestro qui si sforza di illustrare nei dettagli) per cui ad un’inesauribile fioritura melodica si accompagnano spesso elementi di “disturbo”, modulazioni improprie, dissonanze urticanti, derive atonali o seriali, elementi rumoristici, insomma tutto il frutto della sua lunga (e ingiustamente sottovalutata) esperienza di compositore extracinematografico.
 Ed ecco il “contro”, o meglio un limite oggettivo del libro-intervista, che però non è tanto a carico dell’intervistatore quanto del pensiero musicale dell’intervistato. La questione della cosiddetta “musica assoluta”.
 Il termine, ricorrente nel discorso di Morricone che lo preferisce alla dizione effettivamente molto vaga di “musica contemporanea”, può esser fatto risalire ai canoni dell’estetica kantiana, anche se il suo utilizzo esplicito si deve a Richard Wagner, per un programma del 1846 che illustrava la Nona Sinfonia di Beethoven, e il suo sviluppo è al centro de “L’idea di musica assoluta” di Carl Dahlhaus (Casa Editrice Astrolabio, 1998). In sintesi estrema, esso circoscrive tutta la produzione musicale che non si propone di rappresentare alcunché, quindi dalla genesi totalmente autoriferita e come tale contrapposta alla cosiddetta “musica a programma”, caratteristica ad esempio della grande stagione dei poemi sinfonici di fine Ottocento.
Morricone ha sempre contrapposto questa area della propria produzione a quella, quantitativamente maggioritaria, della musica filmica, rivendicando – con buona ragione – piena libertà creativa alla prima e oggettiva sudditanza della seconda. Con un inevitabile corollario: la sua “musica assoluta” è più ostica, sperimentale, libera e d’avanguardia, mentre quella filmica deve piegarsi all’occorrenza ad esigenze leitmotiviche, melodiche, più comunicative e commerciali.
 Nihil sub sole novum sin qui. Si tratta di una posizione teorica e pratica che il maestro sostiene e applica da decenni e sulla quale Tornatore, con tutta la buona volontà, non è oggettivamente in grado di (né particolarmente interessato a) interloquire da pari a pari.
 Personalmente siamo sempre stati allergici a questa definizione. Primo, perché il concetto di “musica assoluta” implica quello di “musica relativa”, il che sospingerebbe verso un territorio semanticamente un po’ bizzarro: forse la vera antinomia è quella con la “musica applicata”, che però apre ulteriori interrogativi. Esempio: la musica operistica è “musica applicata”? Aida, Tristano e Isotta, Carmen, Boris Godunov, Wozzeck sono “musica relativa/applicata” perché presuppongono un’azione teatrale, scene, costumi, libretto, ecc? Il loro ascolto discografico, dunque (così come – sostengono numerosi “teorici” - quello della musica per film) è inutile o monco? Grandi balletti come Il Lago dei cigni, Romeo e Giulietta, Cenerentola, sono musica “applicata” e quindi in qualche modo surrettizia perché si basano su coreografie e spesso sono stati scritti su committenza? La Sinfonia n.40 di Mozart sta dunque un gradino più su del Don Giovanni? Le sinfonie di Beethoven hanno maggiore dignità del Fidelio? I poemi sinfonici di Richard Strauss hanno qualcosa da invidiare alle sinfonie di Bruckner?
 Una seconda possibile obiezione non è nostra ma di Leonard Bernstein, e risale al primo, introduttivo incontro del suo celebre ciclo “Young People’s Concerts” tenuto dal 1958 al 1972 per la CBS. In quell’occasione il maestro americano spiegava con semplicità come la musica, tutta la musica, conoscesse una sola legge e parlasse un solo linguaggio: i propri. La musica, sostiene Bernstein, descrive unicamente sé stessa anche quando sembra imitare temporali, descrivere battaglie o suggerire stati d’animo; parla solo di se stessa e risponde solo a se stessa e alle proprie regole. Sono poi le nostre sovrastrutture, le nostre psicologie, i nostri pensieri, le nostre associazioni a conferirle diversi significati o contenuti simbolici. Ne discende che TUTTA la musica è per definizione, ontologicamente assoluta, a prescindere dalle destinazioni d’uso che può avere. Parafrasando Pascal potremmo dire che la musica ha le sue ragioni che altri linguaggi non conoscono. Non si spiegherebbe altrimenti perché la musica cinematografica nel suo ormai quasi secolo di vita annoveri al proprio interno alcuni capolavori assoluti nella storia del Novecento musicale, molti dei quali a firma proprio di Ennio Morricone. Detta più sbrigativamente, è e deve essere solo la qualità il metro per un giudizio di valore, ferma restando la divisione in generi e tipologie: classica (a comprendere sinfonica, operistica, da camera, vocale, contemporanea), leggera, jazz, rock, country, metal, ecc. ecc. e ovviamente per film, che costituisce il grande genere musicale della modernità. Un campo di differenze, di tecniche e di linguaggi che va conclamato e difeso come tale, visto che nulla è più risibile dell’assioma: “non esiste musica classica o leggera, ma solo buona o cattiva musica”, per cui la Passione secondo Matteo di Bach e “Emozioni” di Battisti, essendo entrambi capolavori nei rispettivi generi, sarebbero la stessa cosa!
 Oltretutto avallare l’idea di una musica “assoluta” (aggettivo che già di per sè contiene una sgradevole aura di fondamentalismo) rispetto alla musica per film significa autorizzare ancora una volta il pregiudizio che vede quest’ultima in una posizione ancillare, subordinata e priva di dignità autonoma rispetto alla prima. Una sciocchezza contro la quale chi qui scrive va battendosi da più di cinquant’anni, forte delle decine di pietre miliari musicali che lo schermo ci ha regalato, comprese e in prima fila quelle firmate Morricone.
 Su tutta questa materia sarebbe stato evidentemente troppo chiedere a Tornatore di dibattere col maestro, anche se proprio la particolare ricettività e affinità di questo cineasta con la dimensione musicale ha trovato nelle partiture morriconiane per i suoi film una resa straordinaria e una profonda sintonia.
 Della quale i due - e questo è forse l’altro limite oggettivo del libro - non mancano di complimentarsi e compiacersi vicendevolmente, in un continuo scambio di gentilezze che a tratti risulta vagamente imbarazzante, almeno per il lettore.
Detto tutto questo l’avventura dentro la carriera di un protagonista assoluto (questo sì…) della musica contemporanea in cui ci conduce il dialogo Tornatore-Morricone è semplicemente affascinante e a tratti commovente per sincerità; immediatezza e ricchezza di informazioni anche inedite. Dunque una lettura straordinariamente piacevole e rivelatrice.
 Ci si conceda solo un’ultima, sorridente annotazione forse un po’ frivola. Il maestro, che è diplomato in tromba e adora questo strumento per il quale ha scritto pagine memorabili, sostiene con decisione che non si dice “trombettista” bensì “trombista”.
Magari avrà anche ragione ma, Maestro, “trombista” proprio nun se po’ sentì!...

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