Michael Giacchino e Lost
Michael Giacchino e le ultime stagioni di Lost
Intro:
Certo che solo adesso, dopo ore di ascolto, dovendo mettermi a scrivere qualcosa riguardo alle colonne sonore delle serie 4, 5 e 6 di Lost (ben 4 cd belli pieni di musica) mi rendo conto di quale lavoro mastodontico ha dovuto affrontare il nostro semi conterraneo Michael Giacchino per musicare 6 stagioni di una delle produzioni più importanti e costose della storia della televisione. Per un compositore, ascoltare il lavoro di un altro compositore, così bravo tra l’altro, è una goduria, e non mi sono distratto un attimo.
Cominciamo con una premessa: in generale per un compositore molto prolifico chiamato a musicare più lavori, il rischio di ripetersi o, per dirla altrimenti, di “autocitarsi” è reale; quanto deve esserlo, allora, per un compositore molto prolifico chiamato a musicare sì più lavori ma della stessa serie? Molto reale… “elementare Watson”. Altra premessa.Giacchino si rivela profondo conoscitore dei meccanismi della tensione, della grammatica ormai codificata della musica cinematografica: glissandi, ostinati delle cellule ritmiche, attese e quant’altro sono ben dispiegati nella sua scrittura. Ciononostante (e ora viene il bello dopo questi paletti iniziali), pur all’interno dei clichè egli dimostra fervente inventiva, il clichè non è mai seguito ciecamente né domina la scrittura che invece non è mai noiosa; l’applicazione del meccanismo non è mai portata troppo per le lunghe, ed è evidente che lo scopo di Giacchino sia sempre quello della variazione.
In questa modalità, e soprattutto ascoltando la musica separatamente dalle immagini, emerge però anche una motivazione puramente tecnica: la scrittura e l’orchestrazione del compositore seguono strettamente ciò che accade sul fotografico; alcune scelte di accordi, di cambi di marcia nel tempo o nel ritmo o qualsiasi altro più o meno improvviso cambiamento nella musica, fanno pensare: “cosa sarà accaduto adesso nell’episodio?”. Insomma, la musica “tira” la curiosità sull’evolversi degli eventi all’interno dei quaranta minuti della durata della puntata. Questo aspetto viene fuori soprattutto ascoltando le tracce più lunghe (alcune anche oltre i 7’) che costituiscono quasi delle storie a sé per quante “cose” accadono in ognuna di esse. Questi episodi partono spesso con una vena particolarmente intimista per poi lasciare gradatamente il posto a sentimenti più oscuri e ominosi; sembra che Giacchino voglia sempre far entrare la sua musica senza che lo spettatore se ne accorga, e poi gradatamente farla mutare o esplodere in emozioni diverse.
Inoltre, in questa scrittura frammentata, fatta di momenti diversi che si susseguono, melodie sospese, sequenze di accordi che non risolvono mai la tensione, pause, silenzi, attese interne, macchie o pennellate sonore (che si trasformano in immagini sonore: sguardi misteriosi tra la vegetazione, mani tenute strette, una torcia abbandonata…), si percepisce costantemente anche la necessità di rispettare sia la struttura del montaggio, che le battute dei protagonisti, fondamentale aspetto rilevabile in quei momenti di suoni lunghi o momenti poco movimentati in cui l’intellegibilità delle parole è la cosa più importante, e non ammette, se non volutamente, interferenze. Ciononostante, non è mai musica subalterna, anzi, si direbbe che, proprio per la sua precisissima punteggiatura, essa diventi subliminalmente personaggio tra i personaggi.
Si tratta quindi di musica estremamente comunicativa (in questo, l’applicazione del clichè che sa a quale categoria di emozioni deve attingere) ma mai banale, mai rigidamente convenzionale, come se alla richiesta di una musica che esprima o provochi, per esempio, ansia, egli risponda musicalmente con un senso più complesso di ansia, che pesca più in profondo. Viene da pensare ad un uso “metafisico” o, azzarderei, psicologico dell’orchestra, a volte sulle soglie dell’avanguardia, sia per l’uso di alcune forzature sugli strumenti, soprattutto archi, ma a volte anche per l’estrema purezza di alcune note lunghe, lasciate sole, in cui il tempo si sospende; si appiattisce l’armonia della scrittura verticale che, se da un lato impoverisce, dall’altro evoca una suggestiva rarefazione sonora.
Per questo motivo, ancora, si tratta di musica che, pur nell’apprezzabile spessore della composizione, per sua natura esprime il massimo della forza quando considerata insieme alle immagini, perchè è in quella interazione che “sboccia” e mostra se stessa. Questa inscindibilità è al tempo stesso pregio e difetto della musica da film: difetto in quanto non strutturalmente stabile come musica ab-soluta, e pregio perché è il massimo che ad una musica da film si possa chiedere: costruire un rapporto intimamente sinestetico con le immagini.
Da un punto di vista timbrico, Giacchino predilige i colori scuri; egli si avvale “solo” delle cinque sezioni di archi, solisti a volte, di pochi tromboni, parecchie percussioni, tanto piano, tanta arpa, quasi inesistenti i suoni sintetici. La paletta, se vogliamo, non è ricchissima, soprattutto se paragonata a quella di altri compositori che invece scrivono per orchestre intere, inclusi legni e tutti gli ottoni, e qualsiasi altro strumento venga loro in mente. Ciononostante la povertà timbrica è solo apparente, e questo è dovuto proprio alla bravura del compositore che ricava da questi “pochi” mezzi, e attraverso le loro combinazioni, tutti i colori possibili e necessari, tutto con grande inventiva.
A dire il vero, ho pero trovato spiazzante l’utilizzo del pianoforte, soprattutto nei momenti in cui non è di rinforzo ai contrabbassi, dal registro medio in su; a mio avviso, il pianoforte è strumento piuttosto “salottiero” che mi è sembrato fuori contesto rispetto all’ambientazione delle vicende di Lost.
Un’ultima nota, a mio avviso, importantissima: la qualità della registrazione. Il suono è così puro e dettagliato che si potrebbe ricavare facilmente la partitura di tutte le singole voci. La musica non affoga mai nel riverbero che per altre colonne sonore tende troppo spesso ad un eccessivo amalgama dei suoni; gli strumenti sono sempre piacevolmente riconoscibili nei loro gesti musicali senza risultare mai eccessivamente staccati da tutto il resto e comunque sempre inseriti in un piacevole e naturale ambiente di ripresa.
Recensioni:
Michael Giacchino
Lost – Quarta Stagione (Lost – Season 4, 2009)
Varese Sarabande Records VSD-6964
26 brani – durata: 78’19”
Il cd parte, per le prime tracce, con un vena particolarmente intimista affidata all’onnipresente arpa e al violoncello solista; melodie semplici variamente arrangiate che lasceranno spazio ad un scrittura più densa e inquietante solo a partire dalla settima traccia “Maternity Hell”. Ma con “Ji Yeon”, ritorna la rarefazione iniziale dell’arco solista e di lunghi accordi di pianoforte usato quasi come un tappeto. Si tratta del tema “Life and Death”, quello più famoso della serie. È un pezzo bellissimo, inutile usare altre parole. Tornerà molto più avanti nel disco con “Landing Party”, in cui il tema è affidato stavolta ai violoncelli in un continuo crescendo che finisce nel lirico. Ascoltare è un sollievo, si tratta di quei pochi momenti di distensione, uno dei pochi in cui la melodia è lasciata dispiegarsi senza ostacoli, puntellata da alcune note di pianoforte suonate pianissimo. Il tema appena citato torna in “Of Mice and Ben”, ma in una chiave completamente diversa; pur se affidato alla morbidezza degli archi, si capisce da subito che la melodia è sottesa da un senso di gravità espresso da note in crescendo dei tromboni; il tema finisce, senza risolvere, soppiantato da una inaspettata quanto apparente stonatura dei tromboni che cambiano radicalmente l’umore del pezzo. “Hoffs-Drawlar” è il brano che tra i miei appunti ho segnalato come “il silenzio di una singola nota”; si tratta di alcune lente note di arpa nel registro basso, o forse volutamente accordate più basse rispetto alla accordatura tradizionale dello strumento, che suonano come una campana a morto. È un brano di vera suspence, di suoni dissonanti mai aggressivi e sempre rarefatti, spettrali, siderali… una nave spaziale lentamente alla deriva, se fosse un’immagine, in totale assenza di riferimenti armonici e tonali, tradizionali… fino all’impatto definitivo. Assolutamente da ascoltare. “Nadia on your life”, per come si conclude, è stato il brano più inaspettato; pur partendo in intimità ad un certo momento prende uno slancio ritmico sempre più veloce che lo porta ad un fortissimo tutti che raramente si è sentito tra le tracce di questo disco.
Michael Giacchino
Lost – Quinta Stagione (Lost – Season 5, 2010)
Varese Sarabande Records VSD-7025
23 brani – durata: 78’59”
Nonostante sia musica pressochè inscindibile dalle immagini, in quanto il gesto musicale è al servizio degli eventi sullo schermo, l’ascolto separato regala molte più sorprese, rispetto all’ascolto durante la visione di un episodio della serie; la scrittura, anche per questa edizione, non è quasi mai banale, anzi, torna la grande inventiva di Lost 3, e i livelli espressivo ed emozionali sono sempre altissimi.
Giacchino è profondo conoscitore della suspence con “pochi mezzi”, e lo dimostra subito con la prima traccia, “Making up for lost time”, in cui, dopo la morbida partenza della onnipresente arpa, vengono dispiegate le possibilità timbriche estreme degli archi, passaggio in cui il sapore delicato e leggero dell’inizio si trasforma presto in grave e scuro. Meccanismo non nuovo nella scrittura del compositore italo-americano: quasi ogni brano costituisce una mini colonna sonora, ogni traccia sembra avere già in sé un prologo, una parte centrale ed un epilogo. Ne sono altri esempi “Blessings and bombs”, “Locke’s excellente adventure”, o “The swinging bendulum”, in cui, tra l’altro, viene utilizzata una inusuale percussione che richiama il registra basso della marimba e l’immagine che se ne ricava sembra essere quella di una battuta di caccia. Si tratta, ancora una volta, di un esempio di musica scritta sul montaggio, fatta di piccoli o grandi gesti musicali che si susseguono. Particolarità che ritroviamo anche in “La Fleur”, brano in cui le note che servono sembrano esserci solo nei punti in cui servono; in “The science of Faith” dove i sussurri di archi e le singole note d’arpa sembrano fare lo slalom tra le battute dei personaggi; o anche nelle tracce più lunghe come “Jacob’s stabber”, di ben 7’32”, o “Follow the leader”, di 7’51”, in cui accenni del tema di “Life and death” (che troviamo anche in “Together or not together”), sono sottesi da una discreta varietà di colori e timbri diversi. La già citata grande qualità della registrazione viene fuori in “Crash and yearn”, scrittura intellegibilissima, sembra di vedere sotto gli occhi la partitura completa che si dispiega, grande dettaglio, solo riverbero naturale (o almeno la sensazione è quella di totale assenza di aggiunta di riverbero artificiale) e, contrariamente alla disposizione in orchestra della sezione dei contrabbassi solitamente all’estrema destra del panorama stereo, per questa traccia gli archi più gravi sono posizionati al centro per bilanciare il peso delle basse frequenze durante l’ascolto.
Michael Giacchino
Lost – Stagione finale (Lost - The Final Season, 2010)
Varese Sarabande Records VSD-7040
Cd1: 25 brani – durata: 74’43”
Cd2: 26 brani – durata: 73’45”
Ben due cd per l’ultima edizione. Tornano le tracce molto brevi, anche sotto il minuto. Giacchino non è sostenitore dell’idea che un compositore di musica per film debba scrivere anche versioni da concerto dei propri brani, il pezzo è così come è, perché nasce per uno scopo, quello di essere al servizio dell’immagine, ridondante, contrapposta, empatica o anempatica che sia. In questo senso egli sottolinea la dimensione artigianale di questo mestiere, abbastanza distante e quasi autonoma dalla figura di compositore di musica ab-soluta, in cui, invece, lo scopo finale è la musica stessa e niente altro. Al di là della qualità musicale di ogni singolo compositore, è fuorviante considerare apriori come di serie B un compositore di musica per film, in quanto egli ha affinato una sensibilità alle immagini e una capacità interpretativa delle richieste del regista, che non si ritrovano automaticamente nei compositori di musica assoluta. Non deve inoltre mancare una buona dose di umiltà che farà sempre ricordare al compositore che la musica, per quanto bella o fondamentale, è, tra gli altri, uno degli elementi del film.
E ciononostante i compositori di musica per film vi si applicano con assoluta dedizione. Infatti, ancora una volta il lavoro di Giacchino si rivela uno straordinario manuale di composizione, una miniera di idee e timbri; ne sono esempi la grande inventiva di “Doing Jacob’s work”, gli accenni politonali di “Heavy metal crew”. Tornano ben presenti i glissandi di archi e le strappate di tromboni, anche in un pezzo come “Coffin calamity” in cui c’è a tratti il sapore di qualcosa di giocoso, fino a “Temple and taxi” in cui gli stessi tromboni sembrano diventare personaggi all’interno della composizione. I 3’34” di “The rocket’s red glare” ricordano il mastodontico John Williams di Guerre Stellari, Giacchino sa far suonare grandi e possenti gli archi e i tromboni, in un pezzo che, seppur breve rispetto ad altri, contiene più emozioni al suo interno. “Jacob’s ladder” e “The substitute” contengono invece momenti di grande atmosfera e mistero, grazie all’inserimento, soprattutto nella seconda delle due tracce citate, di synth dalle sonorità vetrose e siderali che sul finale lasciano il posto ad un improvviso cambio di umore. Stessa sorte per “Smokey and the bandits” e l’ultima traccia “Karma has no price”, in cui l’iniziale morbidezza di entrambe, lascia il posto, rispettivamente, ad un crescendo mozzafiato e ad una oscura suspence. Da citare “Catch a falling star”, unica traccia in cui compare una voce femminile, accenni di melodia della canzone cantata da Perry Como negli anni ’50, e che appare più di una volta in Lost in relazione ai personaggi di Claire e Aaron.
Irruente l’inizio del secondo cd, ma di più degna attenzione è l’interessante tessitura timbrica di “Standing Offer” che si alterna a lente pennellate di archi e ad un ostinato d’arpa nel registro basso. “And death shall have no dominion” è un brano in cui pianoforte e violino solista si alternano morbidamente, ma scivolano presto nell’atmosfera da incubo imminente, creata dal massiccio utilizzo di tecniche non convenzionali e dal timbro estremo degli archi, fino agli ominosi bassi dei tromboni. “World’s worst car wash” è brano relativamente breve (2’01”) ma dalla scrittura e struttura complicata, frequenti cambi di tempo, di texture, di intenzione; mentre “The hole shabang” nonostante la sua lunghezza (7’54”) è tra le pochissime composizioni di Giacchino che sembrano scritte con maggiore coerenza interna, tanto da far dimenticare l’abituale scrittura in dialogo con la punteggiatura del montaggio e delle battute, tanto da farlo sembrare un pezzo di musica assoluta. Infine l’ultima traccia “Moving on”, anch’esso pezzo dalla considerevole durata (7’54”), ha inevitabilmente il sapore dell’epilogo, dell’ “abbiamo detto tutto”, e finalmente viene fuori con più libertà la melodia.
Ammirevole lavoro del premio Oscar Michael Giacchino, compositore dotato di grande inventiva, dote imprescindibile per il lavoro da assolvere, musicare tutte le edizioni della serie, ben sei; anche quando si riconosce la sua piena consapevolezza della presenza dei paletti del clichè da musica per film, egli riesce sempre a farli dimenticare spostandoli in secondo piano con disinvoltura. Infine, accanto al grande arrangiatore c’è l’inventore di melodie: il tema di “Life and death” è bellissimo, indimenticabile e ormai inscindibile da Lost.