Steel Magnolias

cover_steel_magnolias.jpgWilliam Ross
Steel Magnolias (2012)
Sony Pictures/Lifetime
16 brani – Durata: 34’47”



Fiori d’acciaio (Steel Magnolias), diretto nel 1989 dal coreografo, regista e produttore Herbert Ross, era un film corale al femminile che, ispirato alle vicende familiari del suo sceneggiatore Robert Harling, raccontava le storie agrodolci di sei donne del profondo Sud americano, nello scenario di un salone di bellezza, con toni in equilibrio pressoché miracoloso tra la commedia e il melodramma strappalacrime. Il cast, stellare, annoverava Shirley MacLaine, una giovanissima Julia Roberts, Dolly Parton, Sally Field, Olympia Dukakis e Daryl Hannah. Un ritratto collettivo di rara sensibilità e delicatezza, tanto più sorprendente in quanto firmato da uomini, e che trovò nella morbida partitura del grande Georges Delerue, a suo tempo edita dalla Polydor, un‘emozionante corrispondenza di tonalità malinconiche e sorridenti allo stesso tempo.
La presente versione ne rappresenta il remake televisivo, dove all’opzione femminile si aggiunge quella “all black”, essendo il cast interamente composto da star afroamericane come Queen Latifah, Jill Scott, Alfre Woodard, Adepero Oduye, Phylicia Rashād e la di lei figlia Condola Phylea: nomi – a parte il primo – forse poco noti da noi, ma popolarissimi oltreoceano. Afroamericano è anche il regista Kenny Leon, mentre alla sceneggiatura originale di Harling si è aggiunto stavolta un contributo “rosa” grazie a Sally Robinson. Malgrado tutto questo resterebbe deluso chi si attendesse dalla deliziante e toccante partitura di William Ross colori o riferimenti in qualche modo afferenti alla musica nera o al patrimonio popolare del Deep South. Quasi a sancire l’universalità dei sentimenti e delle vicende intime raccontate, questo maestro appartato e forse sottovalutato, celebre più per le orchestrazioni e i contributi forniti alle partiture altrui, pennella uno score gentile e pastoso, coinvolgente e pacato, intriso di finezze e preziosismi strumentali. Si ascoltino i Main Title, con un tema principale di semplici terzine del pianoforte sul tappeto d’archi mosso da un gioco di pizzicati, in cui intervengono sommessamente i legni dialoganti col piano prima e gli archi poi. Spicca la nitidezza dell’orchestrazione, una caratteristica di Ross, la chiarezza dei livelli timbrici, l’assenza predeterminata di toni enfatici. Pizzicati, tremoli, pause e arabeschi brevi dei legni (“Avoiding Ouiser”) connotano i momenti umoristici, mentre pedali dei violini e dei bassi con dolorosi disegni dei celli (“Diabetic Shock”) si accostano alle fasi più drammatiche, sempre con il pianoforte a distillare poche ma penetranti note: Ross possiede un’economia di mezzi ormai divenuta rara nel suo mestiere, e un tocco quasi magico nel calibrare le risorse orchestrali. Capace anche di guizzanti scatti virtuosistici (“Bye Bye, Blackbirds!”), il musicista passeggia intorno al leit-motiv portato a diverse altezze dal pianoforte alternato al clarinetto (”M’Lynn calls the doctor”, “Jack jr.”), mentre il cantabile degli archi trova anche momenti di solare, accorata distensione (“That which does not kill us”): colpisce in particolare l’orizzontalità dei decorsi melodici, che si traducono in una lentezza non indolente o statica, ma tesa ed emotivamente forte, dove lo schema “archi d’accompagnamento-legni e pianoforte in melodia” si riversa in continui sviluppi e possibilità variative, sfociando con immediatezza in capacità comunicativa. Anche la scelta di andare raramente oltre il “piano” o al massimo il “mezzoforte” corrisponde ad una precisa necessità espressiva, perché la rarefazione dinamica e il rifiuto di accensioni ritmiche marcate, come dimostra l’incantevole “A chance to give life twice”, possono accompagnarsi ad una concentrazione sentimentale e romantica ancora più forte. In “Truvy talks about Spud” le atmosfere si assottigliano se possibile ancor maggiormente, con viole e celli a tenere note lunghe e solitarie, e il clarinetto a levare impalpabilmente e sottovoce struggenti disegni melodici. Qui Ross si dimostra davvero un compositore estraneo, programmaticamente e culturalmente, all’inutile frastuono che sentiamo oggi troppo spesso in troppi soundtracks. “Shelby’s Collapse” è un brano inusitatamente lungo (oltre otto minuti) in una partitura per il resto composta di tracks molto brevi, a volte semplici frasi autoconcluse, e consta - su un lunghissimo “re” di viole e violini – di un fraseggio meditativo dei celli e bassi ad interloquire con uno sperduto e inconsolabile clarinetto, mentre l’arpa ripete due note in sottofondo tenendo così viva una ritmica sottovoce ma vivissima. Il dialogo prosegue, avviluppante e sempre più accalorato, in una melodizzazione estremamente complessa spartita fra archi e legni, sino ad una progressione dei violini che approda alla coda dei violini, interrotta quasi bruscamente. Una pagina dalla ricercatezza strumentale quasi impressionistica.
Di nuovo archi e legni ci congedano dallo score in “Never be sorry”, sullo schema di un adagio sussurrato dal quale affiorano il clarinetto, i pizzicati e un disegno più veloce del pianoforte, per una conclusione di soffusa e composta serenità. Un lavoro, in sintesi, dove tenerezza ed eleganza, sentimento e pudore, classe e severità formale si fondono in un risultato che lascia l’ascoltatore interdetto e – cosa piuttosto rara – pensoso.

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