Game of Thrones - Season 1-6

Il trono di spade (Stagioni 1 - 6)

Introduzione

Il trono di spade è certamente tra le serie di maggior successo degli ultimi anni, un fenomeno popolare che ha cambiato molto del modo di fare spettacolo. La corporeità (nella sue forme più istintive) è stato l’elemento che, forse più di tutti, ha contribuito a creare questo fenomeno di massa.
Essendo la fisicità la componente che maggiormente si impone sulle altre, le musiche non potevano che essere specchio di un discorso già iniziato nelle immagini. A comporre le musiche è stato chiamato l’ormai famoso Ramin Djawadi che proprio per il suo modo di fare musica, massiccia e imponente, non poteva che essere la scelta più giusta.

Abbiamo visto il compositore allievo di Zimmer alle prese con film muscolari che lo avevano portato alla stesura di partiture altrettanto tetragone e potenti per il suo effetto sullo spettatore - ascoltatore. In Iron Man prima e in Pacific Rim e Warcraft dopo la cifra stilistica del compositore è andata emergendo sempre con maggiore forza tanto da divenire facilmente individuabile.
Per l’opera dedicata alla serie di romanzi scritti da George R. R. Martin, il compositore, confermando la sua vocazione alla muscolarità, elabora una partitura che sostanzialmente segue un unico filo conduttore che può individuarsi nella precisa volontà di abbacinare con effetti ritmici potenti e martellanti; essenza della musica risiede nei “Main Titles” che, non a caso, sono presenti, in qualità di primo brano, in tutte le stagioni quasi a racchiudere l’unità irriducibile della musica stessa.
L’operazione di Djawadi mira a creare un commento alle immagini, un contorno alle oscure vicende di Westeros; certamente la sua musica non si esaurisce nei titoli di testa ma, volendola ridurre ai minimi termini, non si ritrovano quelle grandi variazioni o sviluppi (non dimenticando le dovute eccezione come nella sesta stagione) che ci si attenderebbe da un’opera corale e ampia qual è “Il trono di spade” che non si dimentichi rimane comunque in continuo divenire.
La grammatica musicale qui messa in atto da Djawadi mira a creare effetti scenici di grande impatto; archi e percussioni sono la componente essenziale che pervade l’intera opera e contribuiscono a creare quella gravità che le fosche tinte della serie sembrano suggerire; d’altra parte il compositore in questo fa un eccellente lavoro di commento e di rielaborazione musicale delle immagini, obiettivo che è alla base del fare musica per film.
Certamente la musica per Il trono di spade risulta quanto mai efficace all’interno della produzione filmica, un po’ meno nella sua assolutezza. Si badi bene, ci troviamo di fronte a un’opera degna di rispetto che probabilmente risulta in un continuo crescendo, alla ricerca della sua esatta forma che, a parere dello scrivente, trova realizzazione proprio nel suo ultimo (provvisorio) capitolo.

 

Ramin Djawadi
Il trono di spade (Stagione 1) (Game of Thrones - Season 1, 2011)
Varese Sarabande VSD (CVS) 7097.2
19 brani – durata: 67’ 48’’

Quando si ha a che fare con il primo capitolo di un’opera ci si trova di fronte alla sfida di dover presentare un’atmosfera musicale di partenza all’interno della quale si svilupperanno tutte le trame successive; senza dubbio l’opera che riesce più di tutte in questo elemento di coesione è il capolavoro di Howard Shore dedicato alla trilogia del Signore degli anelli. In quel caso il compositore aveva davanti a sé tutta la linea narrativa e, in un certo senso, poteva manovrare le fila nel modo più convincente. Quando però non si conoscono i risvolti della storia allora tutto diviene più difficile in quanto non si conosce la destinazione o possibili sviluppi narrativi e tematici che, per creare una componente musicale quanto mai efficace, si devono almeno prevedere per creare un filo rosso.
Ramin Djawadi quando ha cominciato a musicare la serie de Il trono di spade non conosceva i successivi sviluppi, considerando che l’opera letteraria è ancora in cantiere, e dunque ha dovuto approntare una partitura che avrebbe dovuto contenere un germe di incompletezza difficile da gestire. Premettendo questo, Djawadi è riuscito in parte a presentare bene la cifra stilistica sulla quale, chiaramente, ha voluto impostare tutto il suo lavoro e proprio per questo non mancano momenti che soffrono di una mancanza di una precisa identità.
Sicuramente il primo brano che costituisce i “Main titles” racchiude l’essenza stessa dell’opera; varie linee musicali che si sovrappongono accompagnate dall’ormai iconico uso di percussioni tanto caro agli allievi di Zimmer. Con “North of the wall” veniamo a contatto con la fredda atmosfera del luogo oltre la barriera in cui ancora una volta le percussioni si innestano su un clima di assoluta sospensione che, vedremo, caratterizzerà gran parte della partitura. In “Goodbye brother” assistiamo al primo momento di distensione lirica che si invera in un gioco sottile di archi.
Il tema dei titoli iniziali, dunque, si caratterizza come filo rosso che di tanto in tanto affiora nei vari momenti in maniera più o meno accennata; questo è il caso di “The kingsroad” dove ritroviamo quell’intreccio già visto nel brano di apertura.
Dall’andamento medievaleggiante e, dunque, profondamente in antitesi con quanto ascoltato fin qui, risulta “The king’s arrival” in cui si ascolta un interessante, quanto riuscito, eco delle melodie medievali innervate ancora una volta sul tema principale.
Da questo momento in poi la partitura sembra un po’ ristagnare in un’assenza di fondo; molti dei brani successivi sembrano agire come contorno di un composto musicale non ben amalgamato; sembra a tratti che la musica divenga solo un riempitivo, mancando di componente identitaria.
Su questo «vuoto» si erge “Await the king’s justice” dove un crescendo di archi è scandito dalle corde che caratterizzano l’ambiente regale così come in “You’ll be queen one day”. In apparente contrasto con quest’atmosfera musicale si pongono “The assasin’s dagger” e “To Vaes Dothrak” dove il carattere tribale dei dothraki si riverbera nella partitura attraverso un uso convulso di percussioni.
Nelle pagine seguenti la partitura torna a essere di statica attesa; quelli che dovrebbero essere brani accessori o riempitivi risultano predominanti, deficitari di quell’identità che, forse, in un capitolo iniziale di una serie dovrebbe essere sostituita da un nocciolo tematico attorno al quale sviluppare tutto il resto. Basti pensare che il brano omonimo è una semplice ripresa dei titoli iniziali.
Avvicinandoci alla conclusione però qualcosa sembra cambiare; Djawadi in queste ultime pagine sembra recuperare quella caratterizzazione che abbiamo visto anche in altri suoi lavori come Pacific Rim e Iron Man. In “King of the North”, ad esempio, fa un uso di archi imponente che culminano in un crescendo; di notevole impatto sono anche “The night’s watch” e “Fire and blood” brani nei quali (verrebbe da dire finalmente) esce fuori la cifra stilistica che si era persa durante questo tragitto musicale.
Miglior brano dell’intera partitura è “Finale” nel quale si coagula quanto di buono era stato fatto fin qui; un intreccio di temi e uso di cori che creano un tessuto musicale finalmente dotato di quell’essenza che nel corso dell’ascolto si era andata ad affievolire.
Il primo capitolo di questo viaggio musicale per il continente Westeros risulta riuscito solo in parte; ci si attendeva una maggiore impronta del compositore, una connotazione emotivo – sonora più definita che avrebbe costituito il primo mattone di questo edificio musicale.

 

Ramin Djawadi
Il trono di spade (Stagione 2) (Game of Thrones - Season 2, 2012)
Varese Sarabande VSD (CVS) 7148.2
21 brani – durata: 57’ 35’’

Con la seconda stagione Djawadi riprende chiaramente la traccia perseguita nel comporre la partitura della precedente; tuttavia, a partire dal secondo brano “The throne is mine”, sembra che il compositore abbia saputo infondere un’identità più precisa alla sua musica. Nel brano citato, uno dei migliori della partitura, troviamo echi di un tema nuovo, impostato su archi e percussioni e che si ripropone ciclicamente quasi a voler sottolineare un «eterno ritorno». Se, nella precedente stagione, il difetto che avevamo incontrato era l’assenza di una trama unitaria di fondo e la mancanza di una precisa identità oltre che un’insufficienza di elementi contraddistintivi, qui già dalle prime battute ci troviamo di fronte a una partitura che procede in maniera diretta attraverso un percorso caratterizzato da una volontà realizzativa musicale volta a non essere solo «contorno» ma centro.
Con questa seconda partitura Djawadi dimostra di aver saputo raddrizzare il tiro; basti ascoltare “Warrior of light” o “Valar Morghulis” per capire come uno stile più esplicativo abbia preso il posto di un’assenza centrale.
La presenza di Zimmer risulta più evidente in molte riprese degli stilemi del maestro ma nonostante tutto Djawadi conserva una propria personalità che riesce a esplicarsi meglio in questo secondo lavoro dedicato alla serie. In “Wildfire” ritroviamo il tema della seconda traccia serpeggiare per tutta la durata, incalzando e modificandosi, riuscendo ovvero a possedere quella mutevolezza che molte volte manca a Zimmer o ai suoi allievi. In questo Djawadi si dimostra più duttile e riesce a creare un impianto musicale più vario nel quale i temi non sono medaglioni immutabili ma unità modulanti ispiratrici della musica stessa. Questo accade in “Don’t die with a clean sword” nel quale si trova realizzazione di ciò che proprio nell’opera precedente si sentiva la mancanza.
Non mancano nemmeno qui pagine più distese ma, al contrario del precedente lavoro, esse racchiudono una maggiore consapevolezza espressiva che si esplica attraverso un uso diverso del coro (“House of the undying”) o da elementi che rendono queste pagine coesi con la restante partitura (“We are the watcher on the wall”) o attraverso una sapiente riproposizione del tema modulato sempre con cromature differenti (“Mother of the dragons”).
Ci troviamo senza dubbio di fronte a una maggiore maturità del compositore che si avvale di elementi vari ed efficaci; molto interessante è il crescendo d’archi in “Pay the iron price” nel quale si rivela una certa perizia orchestrale.
Non a caso nella partitura trova posto una canzone “The rain of Castomere” che, se da una parte, interrompe il tessuto musicale, dall’altro, riprendendo i vari movimenti della partitura, rende più variegato il composto dei diversi elementi.
Nel brano finale, “Three blasts” Djawadi espone la sua idea di musica avvitata attorno a una componente altisonante e robusta in piena sintonia con quella che è l’atmosfera di Westeros.



Ramin Djawadi
Il trono di spade (Stagione 3) (Game of Thrones - Season 3, 2013)
Silva Screen Records SILCD1433
19 brani – durata: 54’ 49’’

Come si diceva all’inizio di questo viaggio musicale, la linea narrativa de Il trono di spade è in fieri, visto che la conclusione dell’intera opera letteraria manca quasi totalmente. Djawadi, dunque, ha dovuto fare i conti con qualcosa che andava mutando forma in vista dei possibili esiti; se nella prima stagione avevamo lamentato una mancanza di una precisa identità della partitura, poi recuperata nella seconda stagione, nella terza partitura il compositore dirige i propri passi verso una resa musicale di maggiore impatto. Quella che era una musica senza centro, con la seconda e ora con la terza sembra aver trovato la quadratura di un’operazione musicale e non solo, particolarmente complessa.
Di notevole intensità ad esempio è “A Lannister always pays his debt” brano nel quale viole e archi si sovrappongono per creare un intreccio fortemente evocativo e di particolare intensità. Il compositore in questa nuova partitura si dirige precisamente su una strada ormai molto battuta e crea una musica che tende a colpire l’ascoltatore per la sua imponenza piuttosto che per la perizia costitutiva del brano in quanto tale. Ecco dunque che un tessuto ruvido si intreccia in “Dracarys”; ancora una volta la chiave di seduzione del compositore è l’uso di percussioni (“Wall of ice”) oltre che un andamento forsennato e veloce magari impiantato sul tema principale come accade in “Chaos is a ladder”. Di maggiore distensione appare invece il brano seguente “Dark wings, dark words” dove sullo stile del secondo brano ritroviamo gli archi sapientemente intrecciati tra loro; queste sono le pagine che appaiono più efficaci.
La ricetta di Djawadi è dunque quanto mai semplice e, in questa stagione, risulta particolarmente evidente; il piatto da servire è a base di percussioni con contorno di archi.
Su questa ricetta impianta tutta la score nella quale non mancano però alcuni brani che si allontanano da quanto seminato. Crea quasi un contrasto “It’s always summer under the sea” performata da Kerry Ingram (nonché Shireen Baratheon) che con la sua voce dolce e infantile stride con il clima musicale rigido creato dal compositore e con il successivo (“The bear and the fair maiden”) che costituisce un vero e proprio brano rock. In “The Lannister send their regards” ritroviamo la solita ricetta di archi e percussioni che di volta in volta assumono una loro peculiarità che si rinnova attraverso una trama di fondo cangiante.
Con “Mhysa” ci troviamo certamente di fronte a una magniloquente e grandiosa conclusione in cui oltre ai consueti elementi identitari troviamo anche un uso particolare del coro. Il clima si distende nell’ultimo brano della partitura “For the realm” dove le corde risuonano il tema principale.
Con questa terza stagione, dunque, Djawadi compie ancora un passo avanti e riesce a creare una musica calata nella realtà narrativa creata; sembra che il compositore abbia trovato la giusta quadratura.



Ramin Djawadi
Il trono di spade (Stagione 4) (Game of Thrones - Season 4, 2014)
Sony Classical 88843081472
21 brani – durata: 61’ 30’’

Con le prime tre stagione Djawadi ha impostato la strada da seguire, ora non resta che sviluppare quanto fin qui fatto. Uno sviluppo in variazione è quello che il compositore cerca di porre in atto al quarto capitolo del viaggio musicale per la terra di Westeros.
Dopo i consueti titoli di testa troviamo, non a caso, “The rains of Castomere” una ripresa in variazione di uno dei brani già ascoltati nella seconda stagione che qui viene presentato sotto una veste nuova, con nuovi elementi che mirano ad arricchire l’intero impianto. Come già abbiamo detto precedentemente gli elementi cari al compositore rimangono sempre presenti; basti pensare alla martellante presenza delle percussioni che troviamo in “Watchers on the wall” o alla tetragonia che rende il tessuto musicale di particolare ruvidità in “Thenns”. Su queste componenti il compositore insiste aggiungendo qualcos’altro di nuovo come l’interessante uso in crescendo di archi in “Breaker of chains” o i grandi fiati accompagnati dal coro in “First of his name”.
Rispetto alle precedenti score questa si presenta caratterizzata da una minor delicatezza che, nelle passate stagioni, era rappresentata da momenti di limitato lirismo che trovavano un seppur piccolo spazio tra i numerosi momenti in cui invece la musica diveniva tempesta. In questa quarta stagione quei rari momenti scompaiono quasi totalmente se si fa eccezione di “Mereen” e “You are no son of mine” brani nei quali quella ruvidità di cui parlavamo prima lascia spazio a una piccola distensione.
Djawadi, come si può ascoltare in altre sue opere (basti pensare a Pacific Rim) non è un autore che si lascia andare a sentimentalismi; tutto trova espressione in un concertato tetragono (a volte confusionario). Pensiamo a “Two swords” e “Let’s kill some crows” brani nei quali il compositore allestisce una scena musicale tanto massiccia quanto imponente. Ancor di più tale discorso vale per “He is lost” dove il carattere peculiare e muscolare del compositore si rivela nella sua pienezza. A questo segue uno dei brevi momenti di distensione, “I only see what matters” dove i fiati creano un attimo di respiro all’interno di una score che, per certi versi, ha perso quella identità che si era andata definendo nelle due precedenti stagioni. In un certo senso questa quarta stagione riprende quelli che erano stati i difetti della prima tra cui quella mancanza di un percorso preciso da seguire. Su tutti spicca il brano finale “The children” che, in chiusura, riprende il tema della serie rimodulato e ripresentato. A tratti, sembra che Djawadi non sia stato inspirato da questa stagione tanto che, ad esempio, in “Three eyed raven” ritroviamo quanto avevamo sentito nella terza nel brano “A Lannister always pays his debts”.
Quell’effervescenza che aveva contraddistinto le due precedenti score qui sfuma e non riesce a trovare quello sviluppo che ci si attendeva ma solo una mera riproposizione delle peculiarità artistiche del compositore.



Ramin Djawadi
Il trono di spade (Stagione 5) (Game of Thrones - Season 5, 2015)
Sony Classical 88875125302
18 brani – durata: 59’ 38’’

Arrivati alla quinta tappa ci si attenderebbe che il compositore abbia ormai pienamente strutturato la sua opera musicale e che ormai ai temi già presentati, alle atmosfere già descritte facciano seguito effetti di variazione che puntino a sviluppare quanto fatto in precedenza o che sostengano quanto di nuovo viene inserito. Il percorso di Djawadi si inerpica per un sentiero diverso che mira a suggerire climi musicali, sfumature sentimentali che facciano da contorno alle imprese dei Lannister, Targaryen, Baratheon e Stark.
Questo discorso vale in particolare per questa stagione per la quale il compositore crea una partitura che risente molto degli ultimi lavori di Zimmer, come Interstellar e la trilogia de Il cavaliere oscuro; suggestioni musicali piuttosto che tessuti sonori ben intrecciati e saldamente uniti.
Basti prendere in considerazione “Hardhome (Part 1)” e “Hardhome (Part 2)” brani speculari nei quali è forte l’influenza zimmeriana atta a creare soffusi climi musicali privi di una precisa identità. Usi strumentali misti all’elettronica sui quali si innestano i consueti temi come in “Mother’s mercy” che mirano a costituire un contorno piuttosto che un saldo centro di una trama musicale organica.
Una ruvidità già precedentemente segnalata e che costituisce la peculiarità dell’intera partitura, funzionale al compito che si richiede a una musica che deve agire come contorno a delle vicende dalle tinte fosche; ecco, dunque, che Djawadi predilige l’uso delle percussioni che connotano la musica in senso tribale e il coro che tende a dare rilievo a particolari momenti salienti dell’azione ma che solitamente è legato a Kalhesi. Pensiamo a “Blood of the dragon” nel quale si trova realizzazione di quanto detto, oppure in “Kill the boy” dove su questi pilastri il compositore impianta un crescendo incalzante. Sotto tale luce leggiamo l’impianto strutturale di “High Sparrow”, ad esempio, che sembra contrastare con altri brani nei quali le lunghe note creano una dilatazione temporale come in “House of black and white” o “Kneel for no man” o “Before the old gods”.
Di grande rilevanza è “Dance of the dragons” nel quale la pausa di distensione viene accompagnata dal coro che produce un ben preciso andamento quasi «coreutico» nel quale coro e percussioni si accompagnano a vicenda creando un effetto di notevole pregio. Altro brano che si distingue dai restanti è “Atonement” nel quale si delinea la presenza di un canto funereo dall’andamento lento e quasi cantilenante.
Gli ultimi brani della partitura si contraddistinguono per un ben meglio strutturato intreccio musicale che riesce a creare momenti di forte intensità; in “The wars to come” ad esempio vi è una maestosità crescente che si ricollega a “Son of the harpy” nel quale inquietanti voci si stagliano su un medesimo sostrato musicale nel quale fa la sua comparsa anche il tema della serie che viene ripreso da una voce maschile in “Throne for the game”.
Negli ultimi brani certamente la partitura riprende lo smalto che sembrava essersi consumato nella precedente; Djawadi si inerpica per un itinerario che ha come meta la creazione di una musica che sia co-protagonista delle oscure trame di Westeros. Quella composta da Djawadi è una musica «tagliata con l’accetta», crespa al tatto dell’ascolto ma, proprio per questo, funzionale alle oscure trame per Il trono di spade.



Ramin Djawadi
Il trono di spade (Stagione 6) (Game of Thrones - Season 6, 2016)
WaterTower Music WTM39791
26 brani – durata: 73’ 40’’

Arrivati alla temporanea ultima tappa dell’itinerario musicale per la terra di Westeros, il clima della partitura scritta da Djawadi muta decisamente anche se non nettamente. Quegli elementi fin qui visti, trovano una nuova miscela nella quale confluiscono nuovi ingredienti che portano il tessuto musicale a evolversi e a modificarsi senza cambiare nella sua essenza. Dopo la consueta apertura con i “Main titles” ritroviamo materiale già presente nelle precedenti partiture ma qui rielaborato in una nuova quanto unica veste, intrecciata su un uso intensivo degli archi sui quali si cuciono perfettamente le classiche percussioni attorniate da un coro che esegue il tema della serie.
Tuttavia è con “Light of the seven” che Djawadi riesce a dare il meglio di sé, con un brano che è certamente uno dei migliori mai scritti dal compositore; basti pensare che è il più lungo mai elaborato per l’opera ma è soprattutto, nella composizione che Djawadi riesce a fare, un notevole salto in avanti. Dopo il piano di apertura (strumento raramente usato fin qui) si staglia l’organo che insieme alla voce solista e alla presenza degli archi riesce a creare un unicum musicale di grande impatto; qui il compositore è stato bravo nell’aver saputo concertare le varie pluralità melodiche che riescono a intrecciarsi perfettamente.
Nei seguenti brani ritroviamo, come anticipato, molti degli ingredienti già adoperati nelle passate stagioni; tuttavia in “Needle” “Coronation” e “Feed the hounds” il materiale musicale si oscura per mezzo di un uso diverso degli archi e delle percussioni che suonano con maggiore «cupezza» come se si trovassero in un clima di assoluta tetra sospensione.
L’atmosfera è cambiata e la musica ne risente; in “Hold the door” l’uso di effetti distorcenti (molto simili a quelli usati da Zimmer in Batman Begins) seguiti da un momento di distensione degli archi (che si ritroverà in “Maester”) riescono a creare un altro tassello all’interno della partitura che si erge sugli altri per l’intensità, oserei dire pervasiva, che riesce a trasmettere. Tale componente prosegue nel brano “Khaleesi” nel quale la tribalità solitamente legata al personaggio viene intrecciata con il tema dello stesso che già avevamo pienamente ascoltato nella terza stagione nel brano “Mhysa”.
Componente comune a tutte le partiture e a cui abbiamo fatto più volte riferimento è la «ruvidità» della quale molte volte è caratterizzata la musica; la troviamo in “Trust each other” e in “Let’s play a game”, ad esempio, nel quale però quello che prima era «maniera» qui diventa altro, un tessuto crespo nel quale non mancano elementi distintivi che si intrecciano con altri dalla diversa natura. Pensiamo anche al bel brano “Reign” nel quale queste increspature vengono condite con una componete di solennità creata dalle viole e dal coro. I brani conclusivi procedono nella medesima direzione che il compositore ha impresso all’intera partitura, quell’uso di elementi già presentati ma reinterpretati in un modo del tutto nuovo; “Winter has come” e “Hear me roar” costituiscono la ripresa di tematiche musicale care a Djawadi che riescono a mescolarsi con nuovi elementi di grande impatto. “The winds of winter” costituisce il brano finale della score propriamente detta e anch’esso segna il degno capitolo finale di una partitura che si erge certamente sulle altre, che avvia un discorso di mutazione e variazione che, forse ci si attendeva prima ma che Djawadi ha saputo portare a termine in maniera encomiabile.
Per chi volesse continuare a godere della musica di Djawadi sono presenti dei bonus track che, sostanzialmente, non aggiungono nulla di più a un corpus già ricco e equilibrato ma contribuiscono, in ogni caso, a fornire ulteriori occasioni per allargare questo discorso musicale nella terra di Westeros che con questa sesta stagione raggiunge il punto più alto.

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