“Una grande lezione di musica per film” – Parte Sessantaquattresima

foto ciak violino

“Una grande lezione di musica per film” – Parte Sessantaquattresima

Siamo arrivati alla 64^ parte delle nostre interviste-lezioni di Musica Applicata alle Immagini, con le oramai sei classiche domande stabilite a suo tempo dalla nostra redazione, sulla base di logiche professionali in ambito cine-televisivo-videoludico, saltate fuori da varie chiacchierate con compositori veterani e giovani, sia italiani che stranieri, denotando che il tempo passa ma le dinamiche in questo mestiere non mutano o cambiano di poco. Perciò codeste interviste-lezioni risultano essere ancora d’enorme spunto per coloro i quali vorranno prossimamente approcciarsi nello scrivere colonne sonore per il Cinema, la TV, il Teatro ed altri media.



Domande:

1) Che metodologia usate nell’approcciarvi alla creazione di una colonna sonora?

2) Qualora non abbiate la possibilità, per motivi di budget o semplicemente vostri creativi, di usare un organico orchestrale, come vi ponete e quali sono le tecnologie che vi vengono maggiormente in aiuto per portare a compimento un’intera colonna sonora?

3) Descriveteci l’iter che vi porta dalla sceneggiatura alla partitura finale, soprattutto passando per il rapporto diretto con il regista e il montatore che talvolta usano la famigerata temp track sul premontato del loro film, prima di ascoltare la vostra musica originale?

4) Avete un vostro score che vi ha creato particolari difficoltà compositive?
Se sì, qual è e come avete risolto l’inghippo?

5) Come siete diventati compositori di musica per film e perchè?

6) Che importanza ha per voi vedere pubblicata una vostra colonna sonora su CD fisico oggi che sempre di più si pensa direttamente al digital download?

foto paolo agostino

Paolo Agostini (compositore di The Missing Trait, Terre rosse, Il segreto di Italia, Oscar e 800 giorni)

1) Prima di tutto mi faccio un’idea chiara, per quanto possibile, sul tipo di musica richiesta, in base alle necessità del film cercando di capire la sensibilità del regista. Una volta chiarito questo aspetto fondamentale passo al processo creativo.
A questo punto ci sono due strade da seguire:
1. Quella del “mestiere” e cioè che un certo tipo di musica funziona sempre bene per un certo tipo di immagini, cercando di fare il meglio possibile, compatibilmente con il tempo a disposizione.
2. Quella della ricerca interiore che esprima, o che tenti di esprimere, al massimo la propria sensibilità ed originalità.
Io prediligo la seconda strada...Non saprei farne a meno! (Anche se purtroppo a volte i tempi della produzione cinematografica sono davvero esigui e impongano velocità e risultati.)
Il processo creativo che mi porta ad “affrontare” la creazione di una colonna sonora si basa principalmente sulla capacità di “estraniarmi” dalla routine, cercando di lasciar parlare il subconscio. Una volta entrato in questo stato di ascolto, guardo le immagini del film cercando di lasciarmi trasportare delle emozioni che la mia sensibilità mi suggerisce. E’ importante per me sapermi ascoltare e sforzarmi di mantenere il focus senza distrazioni. Questa è una parte “delicata” del processo creativo perché tendo a interiorizzare e a vivere davvero certi stati d’animo lasciandomi guidare dall’emotività. Penso sia importante mantenere questa “onestà emotiva” per cercare di scrivere qualcosa di profondo ed originale. Per questa ragione parlo di “affrontare la creazione di una colonna sonora”, nel senso che è sempre un rischio e alla fine spesso una “sofferenza positiva “ perché si rischia di non essere capiti, tuttavia penso sia un viaggio che valga la pena di essere intrapreso, soprattutto quando si ha un dialogo costruttivo con il regista.

2) Fermo restando che una colonna sonora non necessariamente ha bisogno di un’orchestra, ma può esprimersi in svariati modi anche con strumenti ed interventi semplici (se usati sapientemente), immagini e musica respirano di un’alchimia sottile e misteriosa. Per mio gusto personale trovo che l’orchestra se usata bene sia insostituibile nella narrazione di un film. Nel caso in cui non sia possibile avere un organico orchestrale, per quanto fattibile, cerco sempre di avere il supporto di musicisti “reali”, per esempio un quartetto d’archi che posso registrare separatamente integrandoli con suoni orchestrali campionati. Oggigiorno disponiamo di librerie di componimenti assolutamente prestigiosi realizzati con cura maniacale. Se usati con la testa dell’orchestratore si possono ottenere risultati impressionanti. Alla fine, però, dipende sempre dalla capacità tecnica e dalla sensibilità di chi li utilizza. Detto questo, è chiaro che volendo si può realizzare una bellissima colonna sonora in digitale nel proprio studio, tuttavia, ripeto, la forza evocativa dell’orchestra reale è assolutamente inimitabile. Aggiungo anche che non è solo una questione se usare l’orchestra oppure no. Il risultato finale dipende moltissimo anche da come viene registrata, in quale luogo, ecc. Anche lo spazio dove si registra ha una sua personalità è può influire sulla percezione della musica...insomma...ci sarebbe tanto su cui riflettere...

3) Dal mio punto di vista la sceneggiatura è importante come primo approccio per farsi un’idea generale, tuttavia le immagini hanno un’altra forza evocativa. L’ideale sarebbe poter lavorare sul montaggio definitivo del film, questo perché a volte si può venire ingannati dalle singole scene. Ciò che magari può sembrare perfetto su una singola scena, nell’economia del film, quando lo si vede dall’inizio alla fine, quella musica, in quella scena, magari, non restituisce le stesse sensazioni. Per assurdo potrebbe essere più musicale il silenzio.
Detto questo, è chiaro che non si scrive per sé stessi, ma si scrive per il film, di conseguenza per la visione del regista. Questo è un aspetto molto delicato, perché potrebbero subentrare le più svariate dinamiche emotive personali. La cosa fondamentale nella mia esperienza è cercare il più possibile il dialogo e il confronto più sincero, cosa che dovrebbe essere sempre reciproca, questo per evitare incomprensioni che peraltro sono sempre in agguato quando si è sotto pressione per i tempi spesso molto stretti della fase di postproduzione.
Riguardo l’utilizzo delle temp track, sappiamo benissimo che è un’arma a doppio taglio. Da un lato, aiuta molto il montaggio e anche il regista ad esprimere il proprio pensiero, qualora lo voglia fare, nel senso che, dipende dal grado di fiducia del regista nei confronti del compositore, tuttavia è assolutamente comprensibile l’utilizzo delle temp track, a patto che rimangano solo degli esempi e non divengano insostituibili nella mente del regista o del montatore. Anche in questo caso il dialogo e la chiarezza sono fondamentali. Tutti stiamo lavorando per creare, ognuno con il proprio linguaggio e la propria professionalità, il risultato migliore.

4) Difficoltà ce ne sono Sempre, sempre ce ne saranno ...e sempre ricorro al dialogo...a meno che non vi siano volontà precise, allora in tal caso mi adeguo e ne prendo atto. L’importante è sempre comportarsi professionalmente. Una soluzione si trova sempre per portare a termine il lavoro.
Nel caso in cui vi siano particolari problemi compositivi, cerco sempre di ricordarmi di essere flessibile e di cercare ispirazione dai grandi autori sul loro tipo di approccio a questo tipo di problematiche.

5) Da quando ho scoperto la musica da ragazzino, ho sempre avuto “l’istinto” di comunicare attraverso di essa. Per me la musica è sempre stato il linguaggio delle emozioni.
Ho scoperto, poi, che un certo tipo di cinema poteva davvero aiutarmi ad evolvere, a farmi riflettere, a far fluire meglio le mie emozioni. Contribuire a questo processo creativo attraverso la musica mi sembrava davvero affascinante. Penso sia un bellissimo viaggio verso le isole più disperse dell’anima.

6) La registrazione “fisica” è assolutamente importante (CD, disco ecc.), compatibilmente con il mercato che si evolve e che detta le sue regole... certo...penso e spero non debbano scomparire.
Un CD, un disco, ha un suo valore Artistico certamente per la musica, ma anche nella ricerca della grafica, nella copertina...diventa un’oggetto d’arte che fa sempre piacere avere, ammirare e, attraverso di esso, sognare...

foto marco robino

Marco Robino (compositore di Ripopolare la Reggia, Rembrandt’s J’Accuse...!, Walking To Paris e La memoria del mondo)

1) Mi risulta difficile identificare un’unica metodologia. Nel corso della mia esperienza ho scoperto che ogni progetto ha le sue regole e che, nel rapportarmi con registi diversi, devo di volta in volta riesaminare il mio modo di pensare e di fare musica. Questa flessibilità rappresenta la bellezza di questo lavoro, che spinge a reinventarsi continuamente, pur nella necessità di trovare e coltivare una propria voce compositiva che sia auspicabilmente forte e riconoscibile.
Se devo individuare modelli ricorrenti nel mio approccio, posso dire che da quando collaboro con Andrea Bruno – sono già trascorsi più di tre anni – ho trovato un equilibrio produttivo efficace, che si basa sulla ripartizione di compiti specifici e complementari, e che ci consente di lavorare con fantasia e affrontare prontamente problemi improvvisi.
In termini pratici, io mi occupo delle note, della scrittura vera e propria, e del controllo di tutti gli elementi legati all’esecuzione della musica. Di Andrea mi piace dire che è il mio “assaggiatore”: a lui do in pasto la musica che scrivo e chiedo di valutarne prima di tutto l’impatto emozionale. Sempre Andrea, che è dotato di un ottimo istinto drammaturgico, gestisce gli aspetti legati alla sincronizzazione musica-immagine. Nella composizione dei cue, mi aiuta a trovare le strategie necessarie per far sì che la mia musica si integri perfettamente nella narrazione. Ci sono infine casi in cui veniamo invitati a partecipare al missaggio finale della colonna sonora. Nell’ambito della cosiddetta “guerra dei livelli”, che spesso caratterizza questo delicato momento, Andrea si impegna a difendere gli interessi della musica.

2) Quando il budget è ridotto mi piace innanzitutto lavorare in sovraincisione: gli strumentisti vengono uno per volta nel mio studio, dove registrano individualmente la propria parte. È una tecnica che ho sperimentato e modulato sulle mie esigenze a partire dal 2000, anno di fondazione del Quintetto Architorti. Architorti nasce appunto come quintetto d’archi che si esibisce in forma di concerto, poi nel tempo il progetto si è evoluto in una vera e propria “officina musicale”, attorno alla quale gravitano oggi oltre quaranta strumentisti. Grazie a questa formazione ho la possibilità di incidere, all’occorrenza, intere “orchestre virtuali”, prestando grande attenzione alla qualità di un suono che rimane sempre naturale e che viene prodotto esaltando la qualità e la diversità timbrica degli strumenti impiegati e le caratteristiche interpretative degli esecutori.
Questa strategia, che adotto primariamente per contenere i costi di produzione, si rivela spesso una risorsa creativa importante. Ad esempio, una volta dovevo scrivere un tema per un progetto cinematografico di Peter Greenaway. Gli presentai un’idea eseguita da un sestetto di strumenti, tutti registrati separatamente. Greenaway non era convinto, gli sembrava che il pezzo fosse troppo carico di orpelli, troppo “barocco”, e mi chiese di riscriverlo. Invece di ricominciare da zero, decisi di riproporgli lo stesso pezzo dopo aver soppresso una voce secondaria. Il sestetto divenne un quintetto e, dopo ulteriori ascolti e valutazioni, il quintetto si ridusse a un quartetto, finché non rimase che la melodia armonizzata, eseguita da flicorno e tuba. Questo processo è avvenuto operando sulle singole tracce, senza la necessità di scrivere un nuovo pezzo o di tornare in sala di incisione.
Ci sono anche delle strategie di scrittura che adotto quando è necessario ottimizzare la quantità di materiale da incidere ex novo. Più di una volta ho composto brani-matrice che ho poi utilizzato per generare nuovi brani in postproduzione, talvolta molto diversi dal brano di origine. È un po’ come giocare con i mattoncini Lego (di cui sono un grande appassionato): si creano forme sempre nuove utilizzando gli stessi blocchi di partenza.
Infine abbiamo le librerie di strumenti virtuali campionati, che oggigiorno possono fare miracoli. Tuttavia, devo dire che i risultati ottenuti con questi strumenti mi lasciano spesso insoddisfatto dal punto di vista emozionale e fraseologico. Per ovviare al problema, ho progettato la mia libreria personale di strumenti campionati: una tavolozza di colori attentamente selezionati, comprensiva di legni, ottoni e altri elementi, che impiego quando non è possibile ricorrere a esecutori in carne ed ossa. Sono esclusi gli archi, che tratto sempre dal vivo. In questo caso mi viene in soccorso l’esperienza di violoncellista. Mi piace infatti ricorrere, almeno quando il film lo consente, ad organici variabili di violoncelli e contrabbassi, strumenti che posso suonare di persona.

3) L’iter, come accennavo prima, è influenzato dal modo in cui il regista è abituato a lavorare, oltre che dalle aspettative e dai desideri che egli ripone nella musica. Greenaway dà così tanta importanza alla musica da costruire soventemente i suoi film a partire da essa. Il nostro segreto è comunicare pochissimo: lui mi fornisce indicazioni di massima – semplici suggestioni, come ad esempio «Scrivi della musica ironica», «Ho bisogno di un pezzo che evochi una “età dell’oro”» oppure ancora «Vorrei un tango», e via di questo passo – e io mi metto al lavoro. Quando avvengono questi scambi, non solo il film non è stato ancora girato, ma spesso non esiste nemmeno una sceneggiatura – o, perlomeno, lui non ha mai voluto che io ne leggessi una! Durante la lavorazione gli presento via via i pezzi che mi ha chiesto e procedo creando nuove variazioni o componendo altro materiale basato su ulteriori spunti creativi.
In oltre 20 anni di collaborazione abbiamo costruito un’enorme libreria musicale da cui Greenaway attinge liberamente e che ad ogni progetto si arricchisce di nuove musiche. Nel caso di alcuni film ho composto una vera e propria eccedenza di musiche. Recentemente ho preparato con Andrea l’album della colonna sonora di Walking to Paris – che spero possa vedere presto la luce (sempre grazie all’etichetta Plaza Mayor Company) contestualmente alla distribuzione del film – e mi sono reso conto di aver composto, prodotto e inciso per quest’unico progetto oltre 7 ore di musica, gran parte della quale non è stata chiaramente utilizzata. Mi rendo conto che si tratta di una condizione più unica che rara, che mi ha sempre permesso di avere grande libertà e soddisfazione.
Dal momento che la musica viene adattata a posteriori sulle immagini, Elmer Leupen, il montatore di fiducia di Greenaway, è un alleato fondamentale in questo processo. Da parte mia cerco di semplificargli il lavoro adottando spesso un linguaggio per certi versi imparentato con i minimalismi, basato tra l’altro sull’impiego di cellule melodico-ritmiche e perciò facilmente malleabile in postproduzione.
Quando invece lavoro con registi che seguono un approccio più tradizionale, il rapporto con le immagini diventa cruciale. La lavorazione della colonna sonora di La memoria del mondo è iniziata come quella di un progetto di Greenaway, salvo che il regista Mirko Locatelli, nel chiedermi di comporre un tema per il film – che ancora doveva essere girato –, mi ha proposto due quadri di Arnold Böcklin, Il bosco sacro e L’isola dei morti. In seguito Andrea e io abbiamo letto la sceneggiatura, un rito che compiamo rigorosamente insieme, alternandoci nella lettura ad alta voce. Trovato il tema principale, abbiamo ricominciato a lavorare al film a riprese ultimate, componendo un cue dopo l’altro, come accade nella maggior parte dei casi.
Per quanto riguarda la temp track, la considero uno strumento molto utile per comunicare con il regista. A questo proposito, condivido le parole di Alan Silvestri quando afferma che la temp track è come un martello: se a usarlo è un maniaco omicida allora sarà uno strumento di distruzione di massa, mentre nelle mani di un costruttore sapiente diventa una risorsa formidabile.
Siccome non credo che la composizione avvenga in un vuoto pneumatico, quando scrivo cerco di aprirmi a più spunti possibili, e anche l’ascolto di musiche altrui diventa per me un modo efficace per comprendere le intenzioni del regista, ovviando al rischio di dover affrontare conversazioni astratte e potenzialmente insidiose. Nel caso di La memoria del mondo, il montatore Fabio Bobbio ha utilizzato come musica temporanea soltanto il tema principale che avevo composto quando il film era ancora in fase di preproduzione. Dunque ho chiesto io stesso ad Andrea di preparare una temp track che mi aiutasse a individuare soluzioni drammaturgiche convincenti.
Certo, di quando in quando mi è capitato di imbattermi in registi che vorrebbero che scrivessi nient’altro che l’esatta musica che hanno in testa, dimenticando che il cinema dovrebbe essere anche fatto di collaborazione e fiducia e che anch’io, pur essendo al servizio della loro visione, ho una mia voce personale. Ma fortunatamente, si è trattato di casi finora rarissimi.

4) Certamente la composizione della colonna sonora per La memoria del mondo è stata un’esperienza stimolante ma impegnativa. Il film richiedeva un linguaggio musicale distante dalla mia zona di comfort, e mi ha messo di fronte a sfide che in un primo momento non ero sicuro di saper affrontare adeguatamente. In questo contesto, Andrea è riuscito a impostare un ottimo dialogo con Mirko, e il suo contributo è stato fondamentale nel permettermi di superare le mie iniziali insicurezze e aiutarmi a riscoprire una vena stilistica sopita. Mirko, dal canto suo, si è rivelato un regista straordinario con cui lavorare. Ha dato grande spazio alla mia musica e mi ha sempre guidato con mano gentile ma ferma.
Un progetto, invece, di cui conservo un ricordo un po’ amaro è Eisenstein in Messico. Per questo film ho scritto e inciso l’intera colonna sonora partendo, su suggerimento dello stesso Greenaway, da variazioni di alcuni celebri brani di Prokofiev. Purtroppo, poco prima dell’uscita del film, si è preferito cambiare approccio e utilizzare unicamente brani di repertorio, sicché nulla di quanto ho composto compare nel film finito. Nonostante tutto, spero che questa musica possa un giorno vedere la luce in una pubblicazione discografica a lei dedicata.

5) Il mio percorso artistico ha avuto inizio come violoncellista. Ho compiuto studi conservatoriali e intrapreso attività cameristica e orchestrale. Ho iniziato a muovere i primi passi come trascrittore e arrangiatore grazie al progetto Architorti, per il quale ho creato un ampio repertorio che abbraccia generi musicali diversissimi. Al cinema sono giunto relativamente tardi, pur avendo sempre nutrito una profonda passione per la settima arte. Ancora una volta devo menzionare Peter Greenaway, che è stato per me un mentore. Dopo il nostro primo incontro nel 2003, è stato proprio Greenaway a darmi il coraggio e la fiducia necessari per intraprendere la strada della composizione.
Andrea, anche lui affascinato dal mondo cinematografico, ha sviluppato fin da piccolo un grande interesse per la musica per il cinema. Oltre a conoscerne molto bene il repertorio, ha integrato studi di teoria, critica e storia del cinema a studi musicologici. Pur non essendo compositore, Andrea è coinvolto attivamente nel campo e, oltre a collaborare con me, attualmente sta conducendo un progetto di ricerca sulla musica di Christopher Young, del quale è stato ospite per un certo periodo e ha potuto osservarne da vicino il lavoro.

6) Per noi è un passaggio fondamentale, direi quasi obbligato. Innanzitutto vi è il piacere, anche estetico, intrinseco all’oggetto fisico, tangibile, che puoi ammirare ed esporre. Lo stesso piacere che può derivare, banalmente, dal tenere tra le mani l’edizione pregiata di un libro, dallo scrivere un messaggio importante su una bella carta da lettere, o dall’affidare a un telegramma un pensiero destinato a una persona cara.
A questo proposito, mi ha colpito un interessante articolo di Nicola Sani pubblicato di recente, in cui si celebrano i 40 anni di esistenza del compact disc e se ne traccia la storia, dai suoi albori al declino. Sani evidenzia un paradosso: nonostante la smaterializzazione dei supporti e la crisi del CD, che ormai non compra più nessuno, e nonostante le nostre abitudini di ascolto siano profondamente mutate con il digitale, la forma mentis imposta in passato dal CD influisce ancora sulla maggior parte delle produzioni discografiche odierne. Queste, infatti, vengono concepite e distribuite sulle piattaforme di streaming rispettando i parametri ideali di un CD divenuto nel frattempo immateriale.
Ecco, ritengo che questa riflessione non si possa applicare del tutto al mercato discografico della musica per il cinema, dove la dematerializzazione ha permesso di soddisfare le annose richieste degli appassionati che, della musica di un film, vorrebbero ascoltare ogni singola nota. Sicché, soprattutto per i principali blockbuster e le produzioni seriali televisive, sono sempre più frequenti gli album che raccolgono un’abbondanza di materiale difficile da ascoltare in un’unica seduta.
Con questo non voglio certo negare i vantaggi e anche l’importanza di queste pubblicazioni che consentono di accedere a materiali che difficilmente avrebbero potuto trovare spazio in una pubblicazione fisica. Soprattutto, da questo ragionamento sono escluse le edizioni d’archivio di importanti colonne sonore del passato, che per altro continuano a essere stampate su CD e sono accompagnate da preziosissimi libretti ricchi di storia e informazioni. Piuttosto, poiché credo che la musica per il cinema richieda attenzioni particolari quando la si prepara per un ascolto slegato dalle immagini, voglio sottolineare come la fortuna di vedere la propria musica pubblicata su supporto fisico rappresenti, almeno per noi, uno stimolo aggiuntivo. È uno sprone per lavorare di cesello ad un programma d’ascolto che cerchi di arrivare al punto senza sbavature e ridondanze, e che sfrutti con parsimonia lo spazio limitato e perciò prezioso concesso dal CD. In questo modo, si ha infine l’impressione che il nostro lavoro, anche se piccolo e modesto, non sia del tutto effimero.

FINE SESSANTAQUATTRESIMA PARTE

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