Colette

cover_colette.pngAtli Örvarsson
Colette (Id., 2013)
MovieScoreMedia/Kronos MMS13009/KRONCD025
16 brani – Durata: 42’13”



Anche da un punto di vista musicale, e specie dopo l’esempio sommo della straziante, immensa partitura di John Williams per Schindler’s list, l’approccio del cinema alle tematiche della Shoah e delle infamie naziste è molto difficile, e sottoposto al rischio dell’usura e della ripetitività, sul fronte di un patetismo retorico o di un generico appello a tonalità dark. Va subito detto che tale rischio, nel toccante e intenso score di Atli Örvarsson per il film che il regista ceco Milan Cieslar ha tratto dai ricordi autobiografici di internato del romanziere praghese Arnošt Lustig (1926-2011), è evitato in partenza.
Già da qualche anno d’altronde, questo compositore 43enne venuto dal Grande Nord (è nato in una piccola cittadina dell’Islanda) e ben presto approdato a popolari serie tv (N.Y.P.D., Dragnet, Law and Order L.A.) e superproduzioni hollywoodiane (Babylon A.D., L’ultimo dei templari, Hansel e Gretel cacciatori di streghe), si è messo in luce per sensibilità e personalità originali, malgrado la cooptazione (lusinghiera ma costrittiva…) nella squadra della Remote Control Productions di Hans Zimmer. Del “maestro” anglo-tedesco Örvarsson condivide l’amore per le impalcature grandiose e la vocazione ad una certa magniloquenza, ma sicuramente non le derive hi-tech né un certo manierismo solennizzante: semmai il musicista islandese dimostra una spiccata inclinazione verso una drammaturgia scabra, severa e intimamente tenebrosa, come spesso accade a compositori ed artisti di quelle latitudini, Ne fa fede, in questo caso, il tema principale esposto sin da “Colette”, una lenta frase in fa minore che si alza faticosamente, dolorosamente negli archi e assume presto le colorature di un estenuato epicedio funebre dal quale tuttavia non è del tutto espunto un barlume di orgogliosa speranza. Si tratta di un’idea forte, semplice e impressionante, nella quale non si faticheranno a scorgere reminiscenze precise di musica ebraica e klezmer, soprattutto nel suo sviluppo definitivo e nella riesposizione per oboe solo di “The diamond” sul “do” tenuto degli archi, seguita da un’ansimante, pastosa progressione accordale degli archi inframmezzata da pause, arricchita dall’arpa e ulteriormente turbata da staccati delle viole per sfociare infine nel cantabile pieno dei violini. Quanto basta per arguire che Örvarsson non è certo un musicista dalle letture superficiali o dagli effettismi gratuiti, bensì un compositore sinfonico a tutto tondo che reca con sé l’intera lezione della musica colta nordeuropea, in un arco che va da Sibelius a Nielsen, da Grieg a Sinding. Ciò vale anche e soprattutto per le pagine più energiche e corrusche, come “Workshop of evil”, che stacca su un ostinato di marcia nel quale gli ottoni inseriscono a forza la cellula iniziale del leitmotiv, e prosegue lungo una linea di conflittualità dinamica, tra incalzare ritmico e subitanei squarci orizzontali degli archi, che rappresenta un po’ la chiave di volta dell’intera partitura. Lo testimonia come meglio non si potrebbe il successivo “Merci mon amour” che riconsegna agli archi e al canto lancinante dell’oboe, in un’enunciazione quasi stentata, carica di una sofferta e implorante tensione, il tema principale: anche l’indicibile orrore dei campi di sterminio è sottolineato dal compositore con una metodologia sottrattiva, mai enfatizzante. Si ascolti “Crematorium”, brano di lugubre pacatezza, quasi immobile nel tappeto di archi sostenuti da un minaccioso rimbombo percussivo. Ma è il tema principale, nella sua imperiosità emotiva, a tornare continuamente e continuamente variato: come nel tenerissimo “Beautiful brown eyes” o in “Free as a bird”, in cui si libra arioso e positivo, volteggiando su se stesso sopra lo staccato degli archi, oppure in “Praying for Willie”, trascorrendo dal pianoforte ad uno struggente assolo per violoncello su un nuovo pedale di “do” degli archi. Ancora una tensione sottesa, incombente e contrastata ma quasi paralizzante nella sua staticità, emana da ”Triangle of love and hate”, differenziandosi da “Planning the escape”, nuova pagina d’azione fondata sull’ostinato degli archi e sull’esposizione quasi intimidita del leitmotiv nei legni. Quest’ultimo riacquista per intero il proprio sapore luttuoso e severo nella versione per violino solo di “Kanada”, ricongiungendosi più direttamente alla propria matrice psicologica di lamento per un intero popolo schiacciato dalla ferocia nazista. Sentimenti di nuovo contrastanti agitano “Change of heart”, dimidiandolo fra l’inconsolabile tema conduttore e passaggi più mossi, mentre “Cossacks to the rescue” inizia con figurazioni minacciose e si basa su una progressione pesante e incalzante di accordi in crescendo intervallati da sinistre pause. Più perentorio nel ritmo, ma sempre spiazzante nell’alternanza fra accelerazioni e momenti di stasi, è “The escape”, dove l’energia scaturisce sotterraneamente dal moto degli archi e dalla presenza mai aggressiva ma tangibile degli ottoni. Il tema principale è lasciato dispiegarsi in tutta la sua inondante emozionalità in “Outside the Church” e, nella sua parte che definiremo più “ebraica”, in “Colette: end titles”, dov’è ancora il violino solo a incaricarsene appellandosi a un lirismo tanto composto quanto penetrante,
Ciò che rende questo score probabilmente il lavoro più intenso e importante fra quanti sinora composti da Örvarsson (anche grazie, doveroso citarlo, al contributo straordinario e minuziosamente assaporato in ogni suo dettaglio della Czech Philharmonic Orchestra), è in buona sostanza la capacità di attingere a livelli di comunicatività ed espressività estremamente vibranti e drammatici senza per questo mai indulgere a sovrascritture, sentimentalismi o artifizi pompieristici. Grazie a questo rifiuto della ridondanza e della retorica, il compositore islandese ci consegna una fremente lezione di stile, e si conferma come uno dei nomi di maggior interesse e dall’evoluzione più promettente fra quanti oggi operino sulla scena della musica per immagini.

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