Concerti n. 1 e n. 2 per violoncello e orchestra

cover_nino_rota_concerti_cello.jpgNino Rota
Concerti n. 1 e n. 2 per violoncello e orchestra (1972, 1974)
Violoncellista Silvia Chiesa; Orchestra Sinfonica Nazionale RAI, dir. Corrado Rovaris
Sony Classical 88697924102
6 brani – durata: 49’00”



I due concerti per violoncello e orchestra, scritti mezzo secolo dopo un’iniziale prova adolescenziale, cadono nell’ultimo periodo della produzione di Nino Rota, contemporaneamente alle partiture per la saga del Padrino, e testimoniano il costante  interesse che il maestro aveva per questo strumento, di cui lo attraevano ad un tempo le potenzialità cantabili e il drammatico, cupo colore del timbro. Sono pagine (soprattutto il primo concerto) conflittuali e spesso aspre, su cui s’infrange la mitologia del Rota “candido e lieve”, per lasciare il posto ad un compositore quasi corrucciato, immalinconito e pensoso, che riflette retrospettivamente sulla propria opera e sul proprio mondo. La struttura è rigorosamente accademica e tripartita canonicamente, e la scrittura solistica improntata ad un virtuosismo aggressivo, quasi di sfida, assecondando così tutta una linea di letteratura novecentesca per questo strumento che passa per i concerti di Elgar, Prokofiev e Sostakovich.
L’abbrivio del Concerto n.1 è spiazzante e quasi violento, con un tema discendente degli archi d’impeto schumanniano che lotta contro un reticolo di dissonanze scontrose, e il solista che fa un ingresso tumultuoso e perentorio. Lo sviluppo del primo movimento prosegue su questa strada, in una sorta di corpo a corpo fra il solista e il resto degli archi, sino all’enucleazione di un secondo tema più tranquillo e dialogante tra violoncello e legni, ma la ripresa del tema iniziale ci precipita di nuovo in un’atmosfera convulsa e tormentata, che si chiude con uno stringendo inappellabile e una fosca coda in si minore. Il Larghetto cantabile centrale affida invece al solista una parentesi lirica struggente, accentuata dal dialogo fra cello, clarinetto e flauto, con gli archi a fungere da sostegno; qui appare il Rota più mediterraneo e solare, pacificato, mentre la sezione centrale, più mossa, riprende il primo movimento per riagganciarsi infine al tema iniziale in una tonalità grave e dolorosa e chiudere sospensivamente con lo strumento solista sugli armonici. L’allegro finale ha movenze dichiaratamente prokofieviane nell’enunciazione di un tema scanzonato e vivace, rimbalzato tra solista e legni in un colorismo strumentale che possiede qualcosa di sinistramente rutilante: la lunga cadenza finale esplora tutti i registri timbrici con crescente irrequietezza e si ricongiunge all’orchestra in una coda incandescente dalla conclusione seccamente tronca.
Il Concerto n.2 dichiara più esplicitamente la propria derivazione neoclassica, si direbbe quasi mozartiana, attraverso una tessitura trasparente e un’orchestrazione più composta e settecentesca: qui il virtuosismo della parte solistica è concepito in funzione strettamente contrappuntistica, e il dialogo fra le varie sezioni si fa serratissimo come nell’allegro moderato iniziale, dalle movenze e dalla fisionomia quasi buffe, che approdano ad un politonalismo cangiante e intenso. Una concezione che trova l’apice nell’ampio Andantino cantabile, con grazia (tema con variazioni), dove il lungo, fluente tema del cello viene subito ripreso dall’orchestra, in un clima di soave impalpabilità timbrica che rimanda ancora una volta al Prokofiev più cristallinamente neoclassico; le variazioni toccano qui punte di virtuosismo tanto elevate quanto misteriose, ad esempio nel gioco di pizzicati contrapposti agli accordi dei legni, e il ruolo concertante dell’orchestra si innesta in perfetto equilibrio con gli interventi del solista, evocando una di quelle tipiche atmosfere rotiane trasognate e un po’ svagate, dove tutto sembra defluire e scivolare distrattamente verso l’esterno; la sezione centrale si movimenta in un intermezzo inquieto e frammentato per recedere poi verso una lunga cadenza, dai toni desolati e sospirosi, in un appassionato crescendo emotivo che lascia il violoncello a congedarsi in solitaria, sussurrante connivenza coi legni. L’allegro vivo del finale obbliga solista e orchestra ad un confronto parossistico, incalzante, dove le sezioni paiono rincorrersi in un inseguimento circolare e frenetico: al cello è demandato un veloce spunto melodico sviluppato al galoppo, mentre l’orchestra innesta una serie di rapidissime variazioni, al culmine delle quali il solista si perde in una scaletta ascendente, e l’orchestra tronca bruscamente il discorso, con effetto di travolgente comicità.
Silvia Chiesa è una violoncellista che conosce ogni respiro e ogni intermittenza emotiva del proprio strumento; la violoncellista milanese, celebre per la vastità del proprio repertorio, affronta le pagine di Rota enucleandone la filigrana timbrica in un’alternanza dinamica costante e vibratile. Il virtuosismo di questi due concerti è spesso una componente occulta, mai esibizionistica, ma non per questo meno impervia; soprattutto nelle cadenze del primo concerto, e nel finale del secondo, Silvia Chiesa trova un passo quasi incorporeo nelle sonorità, mentre il suo cantabile nelle fasi più melodiche si carica di tonalità insolitamente severe. È un Rota, il suo, estraneo a qualsiasi semplificazione, modernamente e problematicamente coerente con la propria poetica neoclassica; contribuisce a questa interpretazione, antiretorica e anticonvenzionale, la lettura sinfonica di Corrado Rovaris, che cerca e individua nell’orchestrazione rotiana influssi novecenteschi, poststravinskyani e in genere russofoni, mettendone in giusta luce gli illividimenti improvvisi e le spigolose asperità, quasi bartokiane, e rarefacendo il suono in vitree, nervose contrazioni nelle fasi più statiche e contemplative.
Un’interpretazione complessiva che illumina di nuovi significati e segreti due pagine fondamentali della letteratura violoncellistica del Novecento, riproponendoci nella figura di Nino Rota un protagonista consapevole e sorvegliato a cavallo tra passato e presente.

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