A Good Day to Die Hard

cover_good_day_die_hard.jpgMarco Beltrami
Die Hard – Un buon giorno per morire (A Good Day to Die Hard, 2013)
Sony Classical 88765437122  
26 brani – Durata: 64’39”



Subentrato al compianto Michael Kamen già a partire da Die Hard – Vivere o morire (2007), Marco Beltrami ha portato negli scores della saga d’azione che ha per protagonista l’inossidabile sbirro John McClane-Bruce Willis tutta la propria energia compressa e fiammeggiante, relegando in secondo piano o scartando quasi del tutto quella componente autoparodistica e autoironica che era una delle caratteristiche principali delle partiture del compositore mancato nel 2003, e che si esplicava anche in una dovizia di citazioni ammiccanti e variegate, da “Let it snow” a “Finlandia” di Sibelius, dalla Prima Sinfonia di Brahms alla Nona beethoveniana.
A contare per Beltrami sono soprattutto l’adrenalina, l’irrefrenabile motricità, l’incessante dinamismo, la ribollente tessitura orchestrale, i conflitti timbrici: insomma ciò che ne ha fatto il compositore d’elezione per tutto un filone horror-action-thriller dove ha potuto mettere a frutto il magistero e la lezione di modernità  appresa nelle frequentazioni con Luigi Nono e Jerry Goldsmith. Peraltro, il compositore piemontese è qui alle prese con due ordini di problemi: uno, più stringente, è quello – già brillantemente risolto in Vivere o morire, di assorbire almeno parte del materiale di Kamen per ridargli nuova veste; l’altro, più generale, è quello di non precipitare nel rischio dell’anonimato fracassone che è in agguato in molte partiture di questo genere.
Le due cose in realtà si tengono, perché è proprio l’invasiva, capillare, allarmante onnipresenza del celebre motto kameniano “si-mi-mi bemolle-do” a partire da “Getting Yuri to the van” a colorare ancora una volta di originalità le travolgenti, martellanti e ritmicamente inesauribili costruzioni beltramiane, affrancandole dal pericolo di noia o ripetitività; anche perché la succitata idea di Kamen è ripresa, sviluppata, estesa e variata incessantemente (“Truckzilla Act I”), con stupefacente abilità contrappuntistica, divenendo una specie di cellula generatrice dell’intera partitura. Inoltre, l’orchestrazione a dodici mani e la direzione di nitida precisione di Pete Anthony mirano a creare uno spessore sonoro e un colore strumentale (del tutto marginale e puramente effettistico il ricorso all’elettronica, come in “Jack makes the call”) inconfondibile, illuminato da accensioni repentine, brusche accelerazioni, trilli feroci e sismi ritmici; a queste ultime due categorie in particolare va ascritta, come in “Yippie Kay Yay, mother Russia!”, l’opzione di matrice squisitamente goldsmithiana per andature irregolari, sincopate, sussultorie, che imprime alla partitura una cadenza spiazzante, di soffocante, ultimativa aggressività. Beltrami però coltiva anche un aspetto più romantico, caloroso e raccolto, che ben si coniuga dialetticamente con la forza propulsiva incontenibile delle sue musiche: se ne ha un esempio nel lento e intenso “Father and son”, inattesa oasi compassionevole in uno score che per il resto brucia di una rabbia incandescente. Ecco allora la tensione strumentale opprimente di “Regroup” o la scoppiettante irrequietezza ritmica di “Court adjourned”, o ancora l’incalzare senza tregua di percussioni e ottoni in “Getting to the dance floor” e “What’s so funny?”. Non mancano autentiche lezioni di suspense musicale come i violini dissonanti in progressivo, calibratissimo crescendo di “Too many Kolbsas on the dance floor”, e qui la drammaturgia sonora di Beltrami risplende in tutta la propria diabolica, funambolica perizia. In particolare, a stupire sempre in questo musicista sono la ricchezza dei dettagli, la cura del particolare, la complessa costruzione delle frasi, l’oculata scelta delle “voci” orchestrali: ad esempio qui la presenza di un fischio e dell’armonica inseriscono il personaggio di McClane in una ironica cornice quasi-western, mentre l’ingresso della balalaika nel cupo “Entering Chernobyl” travalica il semplice riferimento etnico per diventare un sinistro presagio di morte. L’ululato degli ottoni evoca Gruber, l’antagonista dell’eroe, ancora una volta costruendo una progressione di quasi insostenibile potenza: da “Sunshine shootout”, violentissimo e tellurico, attraverso “Get to the Choppa!”, dove il modello goldmithiano emerge con nettezza, Beltrami accumula un carico di eccitazione sonora spasmodica, coinvolgendo in parte le tastiere ma mantenendo sempre l’orchestra in primo piano assoluto, sino a punte di virtuosismo quasi atletico come attesta il ruolo degli archi in “Chopper takedown”: dopo tanto furore e fragore, l’atmosfera si placa con la nobile, solenne esposizione di un luminoso, affermativo tema di trionfo in “It’s hard to kill a McClane”, seguito da una gustosissima “Triple Vodka Rhapsody” per balalaika e orchestra, scatenata danza russa di sapientissima architettura. Ma c’è ancora spazio per un sigillo in stile comico-disco-rock, con il breve, metallaro “McClane’s brain”…
Il che conclude come meglio non si potrebbe un’esposizione pressoché esaustiva di tutte le risorse disponibili da parte di questo capofila assolutamente unico dell’action music più estrema.

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