Far From the Madding Crowd

cover_far_from_madding_crowd.jpgCraig Armstrong
Via dalla pazza folla (Far From the Madding Crowd, 2015)
Sony Classical SK 503230
24 brani – Durata: 56’52”



Malgrado sia stata diretta da un regista danese proveniente dall’alveo di Lars von Trier, e che dopo l’exploit del sulfureo Festen sembra approdato definitivamente al cinema internazionale, la quarta versione cinematografica del romanzo pubblicato nel 1874 da Thomas Hardy (le prime due risalgono addirittura agli albori del muto, inoltre si ricorda anche un tv-movie e un serial) è forse la più intimamente “british” di tutte; forse più ancora di quella – celebre manifesto dell’”angry cinema” anni’60 – firmata nel 1967 da John Schlesinger, che si avvaleva di una spigolosa e aggressiva partitura di Richard Rodney Bennett.
Esattamente il polo espressivo opposto di quello scelto ora dallo scozzese Craig Armstrong, eclettica personalità capace di spaziare dalle più raffinate atmosfere intimiste ad excursus temerari nell’elettronica e in una action music altamente tecnologica e raggelata. Pressoché inutile annotare che qui prevale decisamente il primo aspetto, con un’accentuazione delle componenti “locali” garantita dalla cospicua presenza di source music e di contributi corali e vocali ad hoc.
Per parte sua Armstrong individua un ristretto parco di temi gentili e pastorali, quasi riluttanti nella propria enunciazione, affidati a violini divisi e flauti (l’immediato calore di ”Opening”, la soffusa tenerezza di “Corn exchange”), coniugati in un’orchestrazione rarefatta e prevalentemente cameristica, dalle tonalità timbriche sfumate e sfuggenti (“The great misunderstanding”, dai bagliori giocosi e insieme melanconici), all’interno delle quali gli strumenti ad arco, spesso in versione solistica, assumono quasi il compito di voci interiori a tessere il difficile, lungo e travagliato dialogo sentimentale dei due protagonisti, il fittavolo innamorato Gabriel Oak e la volubile, indipendente ereditiera Bathsheba Everdine. Voci che Armstrong sembra voler preferenzialmente identificare con quella del violino solo, protagonista di molti momenti della partitura in modalità abbastanza simili a quelle utilizzate da Howard in The Village o, per restare in atmosfere più prossime, da Dario Marianelli in Jane Eyre; violino che peraltro sa interagire anche con altri strumenti, in primis l’arpa, creando un’atmosfera angelicale e profondamente intima, dai risvolti consapevolmente struggenti (“Never been kissed”); emerge lentamente dallo score un’impronta bucolica che rimanda all’epoca rurale vittoriana in cui è ambientata la vicenda, ma con evidenti influssi romantici, che s’interrompono saltuariamente per lasciare spazio a momenti più risoluti e affermativi, come in “Spring sheep dip” o “Oak leaves”. A questi si uniscono parentesi caratteristicamente folkloristiche, come l’utilizzo del “riddle”, un tamburo militare inglese che ricorda il confratello irlandese “bodhrain”, e più in generale un ampio attingere al patrimonio musicale popolare di fine ‘800, secondo quella che un secolo dopo sarà la lezione di compositori britannici classici come Edward Elgar o Ralph Vaughan Williams.
Anche nell’utilizzo dei leit-motiv Armstrong si mostra compositore accorto e ipersensibile; così il motivo principale dell’apertura lascia gradatamente il posto ad un trio di melodie sapientemente associate ai vari amori maschili della protagonista, mentre il pretendente finale, Boldwood, si avvale della elaborata “Boldwood variation” per archi, un elegante esercizio di stile dal sapore compuntamente vittoriano e neoclassico. Il ritorno del violino negli “End credits” e la ricapitolazione sontuosa conclusiva di “Far from the madding crowd love theme”, rinforzano lo spessore sinfonico dello score, coinvolgendo anche gli ottoni (altrimenti rarissimi qui), ma non ne inficiano la sommessa, delicata linearità, tutta rivolta in chiave psicologica e introspettiva.
A complemento del lavoro di un compositore che già in Elizabeth: the golden age aveva dimostrato ampia consuetudine con ambientazioni e repertori musicali d’epoca, ecco figurare come si accennava anche una serie di brani tradizionali quali gli inni religiosi “Jerusalem the Golden” e “O come, o come Emmanuel”, eseguiti dai Dorset Singers con il Yeovil Chamber Choir, o “Dribbles of brandy e “Swiss boy”, offerti dalla Eliza Carth Band con Saul Rose, o brani danzanti da festa campestre quali il “Michael Turner’s waltz” e la “Jenny Lind Polka”; oltre ad una versione particolarmente lirica di “Let no man steal your thyme” cantata dai due protagonisti (insieme a Matthias Schoenaerts) Carey Mulligan e Michael Sheen.
Nell’insieme, un affresco musicale affettuosamente partecipe e intellettualmente sofisticato nel rinsaldare strettamente i rapporti fra cinema d’autore, letteratura alta e acuto ritratto psicologico di un’epoca.

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