Risen

cover risenRoque Baños
Risorto (Risen, 2016)
Madison Gate Records
16 brani – Durata: 61'52”

In bilico fra la detective story più intricata di tutti i tempi (la “scomparsa” del corpo di Gesù, razionalmente inspiegabile e quindi “mistero” per eccellenza) e l'intento edificante di redenzione, il film di Kevin Reynolds ha poco a che spartire con la tradizione dei “pepla” a sfondo religioso degli anni '50 e '60; ne discende che anche la partitura del compositore spagnolo condivide meno di nulla con gli scores sontuosi e misticheggianti dei vari Ròzsa, Newman, Bernstein o North. D'altronde la carica visionaria di questo compositore, egualmente a proprio agio nell'horror come nel melò come nella commedia, non è tale da farsi ingabbiare in facili etichette o stereotipi.

Ecco allora che la strada percorsa si rivela, manco a dirlo, la più scoscesa e rischiosa: ossia mantenere un sostrato fortemente riconoscibile di “antichità” e di misticismo, ma avvolgerlo in un linguaggio innovativo e moderno. A dirlo sembra facile, metterlo in pratica un po' meno.
Detto in parole semplici, Baños affida il colore arcaico a modalità armoniche antichissime e alla scelta di strumenti caratteristici come il cymbalom o il flauto di Pan, unitamente ad una vocalist, il tutto ad arricchire un'orchestra tradizionale mentre sostiene l'atmosfera contemporanea e attualizzante con ampio utilizzo dell'elettronica. È una procedura di contaminazione che in compositori meno accorti sarebbe naufragata nella più consunta tappezzeria sonora, e in cui lo stesso Baños non pare esattamente a proprio agio: il suo stile drammatico, potente, intenso emerge infatti soprattutto nel dilagare del solenne leit-motiv principale, lento e ieratico (da “The battle” a “Empty tomb” sino a “He is everywhere”), che risalta soprattutto nel fraseggio degli archi gravi. Un secondo tema, dolente e orientaleggiante, si fa strada accanto al primo (“Tell me the truth”), a formare dunque un parco tematico che al compositore sta sempre molto a cuore; il ruolo dell'elettronica è particolarmente vistoso nelle percussioni ma anche in una serie di effetti di riverbero e alterazione timbrica che rendono la partitura a tratti astratta, inafferrabile, velata di inesprimibile incertezza. Un'ambiguità, o meglio ambivalenza, che rasenta a volte il sound design ma che altrove vibra di inquietante efficacia; fermo restando che nelle pagine più movimentate, come “Fuinding the Apostles”, il combinato disposto di soluzioni orchestrali (i sovracuti armonici dei violini) e degli effetti synt crea un paesaggio sonoro nebbioso, quasi alieno o da thriller, ed estremamente suggestivo. Costantemente tentato dalle proprie pulsioni horror (“He is alive”, dove però si fa largo anche uno struggente assolo di cello seguito dall'accorato cantabile degli archi), il maestro spagnolo non esita ad evocare soluzioni timbriche e armoniche che, se da un lato possono ricordare – soprattutto nel ricorso alla voce – lo Zimmer del Gladiatore (partitura in cui la fusione di antico e moderno tocca vette sublimi), dall'altro alludono apertamente all'horror, specialmente nello scatenamento percussivo di ritmi sincopati goldsmithiani (“The battle”, “Escaping from the Romans”) sostenuti da ostinati staccati degli archi. Non tutto funziona sempre con eguale coerenza, qua e là appaiono cedimenti a stereotipi inevitabili (“The see of Galilee”, “Let's fish”), in cui strumenti d'epoca vengono utilizzati piuttosto convenzionalmente per fare da riferimento iconico, ma sono tributi inevitabili che Baños paga probabilmente alle ragioni della committenza. Molto più interessante si rivela la sua rilettura contemplativa, severa, dolorosa del “mistero”: l'adagio per archi di “The Ascension”, ad esempio, non possiede nulla di celebrativo ma si leva come un possente inno laico nel canto degli archi raddoppiato del coro, partendo dal registro grave per innalzarsi a quello acuto in un dispiego melodico che rappresenta la cifra migliore del musicista; il “mistero” della Resurrezione diviene così un fenomeno appassionante, insondabile anche nella sua terrena stupefazione. Non v'è ombra di trionfalismo, infatti, nemmeno nel pacato “Farewell” o nel pulsante congedo di “I'll never be the same”, dove il tematismo dell'autore dilaga in solare libertà, riaffermando non tanto un primato della ragione o della fede, in antagonismo, quanto la vibrante e fragile finitezza dell'uomo, coniugata alla sua ansia di conoscere e capire.
Si tratta certamente della partitura più “hollywoodiana” (insieme a quella, assai meno interessante, per Heart of the Sea) sin qui consegnata da Baños; d'altronde era inevitabile che l'enorme talento del compositore venisse notato e richiesto anche oltreoceano. C'è solo da auspicare che questo non sminuisca la vena eversiva, dissacratoria e inafferrabilmente centrifuga del suo comporre, quella per intenderci dei film di Alex de la Iglesia o del remake di La casa; ma che anzi possa costituire un'iniezione di burrascosa novità nel panorama spesso stagnante del tran-tran made in USA.

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