The Shape of Water & Suburbicon

Alexandre Desplat
La forma dell’acqua – The Shape of Water (The Shape of Water, 2017)
Decca  B0027674-02
19 brani + 7 canzoni – Durata: 76’24”

Alexandre Desplat
Suburbicon (Id., 2017)
ABKCO Records ABK84712.2
23 brani – Durata: 67’31”

La diminuzione dai 10 titoli musicati nel 2016 ai “soli” 6 del 2017 autorizza forse a pensare ad un provvidenziale e speriamo crescente calo dei ritmi produttivi stakanovisti di Alexandre Desplat, il che tornerebbe a tutto vantaggio del suo talento e della sua ispirazione, entrambi notevoli e fuori dal comune. Si vedrà.
 Nel frattempo va registrato che il compositore parigino dà il meglio di sé in contesti fortemente referenziali, di genere o di ambientazione, che gli consentono di allacciarsi saldamente a mondi narrativi e tradizioni cinematografiche largamente condivise, meglio se spruzzate di nostalgie “vintage”. Eccoci dunque dinanzi ad un fantasy-melò retrodatato agli anni della Guerra Fredda, e ad un “noir” di provincia americana, anch’esso retrodatato di mezzo secolo e di chiara impronta “à la” Coen Brothers. Due film, tra l’altro, molto pieni di cinema pregresso, soprattutto per quanto riguarda The Shape of Water, che si rifà anche iconicamente a quel filone di monster-movies tipico degli anni ’50, in pieno terrore atomico e contrapposizione di blocchi, e dei quali fu maestro un regista come Jack Arnold (Il mostro della laguna nera, Tarantola, La vendetta del mostro): qui però a Guillermo Del Toro sembra stare a cuore, oltre all’elemento ideologico, anche e soprattutto quello sentimentale, che trasforma la love story fra la muta e sfortunata Elisa e l’uomo-pesce catturato dai militari per scopi tutt’altro che pacifici in una variante de “La bella e la bestia”.

E che quest’ultimo sia l’aspetto privilegiato da Desplat è chiaro sin dall’inizio: “The shape of water” enuncia uno dei due temi portanti della partitura, quello della Creatura, in un impasto sonoro quasi onomatopeico nel suo restituirci, appunto, la forma dell’acqua in cui essa si muove. L’organico strumentale, perfezionato nell’orchestrazione di Jean-Pascal Peintus, Nicholas Charron e Sylvain Morizet, appare di straordinaria trasparenza e fluidità: arpa, armonica a vetro, vibrafono, waterphone (si tratta di un recipiente inossidabile con al centro una specie di collo di forma cilindrica, che può contenere una piccola quantità d'acqua), glockenspiel e pianoforte. Il tema della Creatura, affidato ad una fisarmonica molto “francese” o al fischio, si configura come mesto assai più che minaccioso, anche se “The creature”, con pesanti disegni dei bassi, provvede ad un lato più oscuro e incombente; ma è poi nell’”Elisa’s theme” che la partitura trova la sua seconda idea portante, richiamando in causa la fisarmonica insieme ad un drappello di flauti (dodici, per tutta la gamma dello strumento), che intrecciano un arabesco di staccati tipicamente desplatiano e portano l’idea melodica, bella e originale, ad interagire con quella dell’anfibio, trasformando entrambe in quello che sarà il loro toccante love theme. Individuati con precisione questi due elementi principali, lo score può a ben diritto svilupparsi come una lunga e proficua serie di variazioni, all’interno delle quali prevale un tono leggero, carezzevole, addirittura comico (”Fingers”), o scopertamente romantico, come nel valzer “Elisa and Zelda”, che associa fischio e fisarmonica su colori quasi da “Rive Gauche”. Sono leit-motifs eleganti e gentili, sinuosi, d’impronta tipicamente europea, al punto che questa appare forse come la più “francese” tra le recenti fatiche del compositore: particolarmente affascinante risulta poi la combinazione dei timbri, la tavolozza dei colori di marca quasi impressionista, in pagine come “The silence of love” e “Underwater kiss”.
 Ma naturalmente incombono nella storia, e nello score, momenti di fortissima drammaticità e tensione, risolti tuttavia con misteriosa discrezione e sonorità contenute: tremoli di archi, sommessi pizzicati e arpeggi (“Spy meeting”), marziale rullare di tamburi in lontananza (“Decency”), dolenti fraseggi dei violini sulla base di ampi arpeggi (“Five stars general”). Molto più movimentato, ma anche costruito con superba maestria architettonica, il lunghissimo (oltre undici minuti) “The escape”, che ancora una volta riparte dai temi della Creatura e di Elisa ma rielaborandoli con grande varietà ritmica e innestandoli in complesse trame di violini, bassi e ottoni. Anche qui però a contare maggiormente è la progressione inesorabile, la metamorfosi stringente dalle tonalità minacciose e cupe della prima parte verso la concitazione ritmica e le accelerazioni adrenaliniche dello sviluppo: in una visione d’insieme della quale Desplat si dimostra qui totalmente padrone. Nelle pagine finali l’impronta romantica della partitura vira con decisione verso la tragedia, seppure costantemente espressa senza mai alzare la voce: “Without you” è una ricapitolazione tematica struggente, e “Rainy day” un brano ricco di pathos, dai continui chiaroscuri, che sancisce in modo definitivo la parentela dello score con alcuni grandi lavori melò dei compositori hollywoodiani degli anni ’50 (si pensi a Frank Skinner, il musicista di Douglas Sirk): delizioso infine “A princess without a voice”, dove il pianoforte leggero e innocente offre per l’ultima volta il tema di Elisa attorniato dai flauti e arpe. E non è un caso che non si noti alcuna discontinuità con i sei brani che adornano l’intero lavoro in modo non surrettizio ma strutturale e necessario all’epoca e ai personaggi: innanzitutto, dello stesso Desplat, la dolce “You’ll never know”, offerta due volte in stile “lounge” dal grande soprano americano Renée Fleming; poi “La Javanaise” del grande e compianto Serge Gainsbourg, cantata da Madeleine Peyroux, il classico di Glenn Miller “I know why”, la scatenata “Chica Chica Boom Chic” di Carmen Miranda, la spiritosa “Babalu” di Caterina Valente e Silvio Francesco (omaggi questi ultimi due allo sfondo sudamericano del film), ed infine una stupefacente versione del tema di Max Steiner da Scandalo al sole proposta da Andy Williams.
 Dal punto di vista dei potenziali riferimenti, Suburbicon è ancora più complicato: la vena grottesco-macabra, implicita nella sceneggiatura dei Coen, la forte vena polemica antirazzista e antitrumpiana, l’impianto “noir”, l’ambientazione anni ’50 sono tutti elementi presenti nello score di Desplat, dove però a rivelarsi più cogente di altri è il rapporto ormai consolidato del compositore con il regista George Clooney, dopo Le Idi di marzo e Monuments Men, oltre ad altri film da questi prodotti. L’orbita dei fratelli Coen intorno alla quale ruota indubbiamente la vicenda non trova affatto nel compositore un possibile “imitatore” di Carter Burwell, le cui gelide e impassibili ragnatele sonore avvolgono da sempre il cinema di questi autori. Anzi, Desplat si diverte ancora di più a cambiare di passo ad ogni istante, seguendo scrupolosamente l’evoluzione narrativa sino alla finale deriva horror. Così l’iniziale “Welcome to Suburbicon” è una pagina quasi disneyana, cartoonistica, saltellante su archi, xilofono e coretto, mentre “Friends” è un malinconico e riflessivo tema per legni e pianoforte dedicato all’amicizia tra il ragazzino bianco e il suo vicino di colore; e se “When I fall in love” declina il morbido stile da night-club tipico del periodo, già “A prayer for Rose” accentua queste tonalità scure, opache, con un’idea dei legni associata al doppio personaggio gemellare interpretato da Julianne Moore, idea poi ripresa e malevolmente distorta in “Basement games” sino ad un drammatico epilogo. Ma dissonanze insistite per quanto trattenute, oscure trame di pizzicati e livide emersioni dei legni ci dicono, in “700 apples” o  specialmente “Men in the house”, con i suoi terribili ottoni in sordina, gli ululati dei corni, un funereo accenno tematico pianistico  e le pulsazioni violente degli archi, che le cose si mettono male. Qui l’orchestrazione si illividisce e appesantisce (vi partecipa anche, oltre a quelli già citati, Conrad Pope, e Desplat stesso s’impegna direttorialmente sul podio della magnifica London Symphony), mentre l’impianto complessivo si fa dichiaratamente quello di una horror music in piena regola, con gli ottoni ancora in fortissimo con sordina e le staffilate degli archi di “The line up”. Da qui in avanti la partitura allinea una serie di progressioni di tensione e di minaccia insostenibili, che a tratti (We’ll go to Aruba”) sembrano provvisoriamente distendersi in frasi lunghe e piane, ma altrove si riaccendono impetuosamente, appellandosi persino a palesi citazioni herrmanniane, come negli accordi che aprono “Mrs. Lodge called”, per esplodere poi senza ritegno nell’incandescente “Unlucky Bud”, action music come Desplat non è abituato a scriverne spesso (infatti un tantino impacciata nella struttura ma travolgente nella strumentazione e nell’irrequietezza armonica). Caratteristiche ancora più accentuate nell’appariscente “Nicky trapped”, con punte di “mickeymousing” nell’incessante alternanza di momenti e sequenze musicali, programmaticamente caotiche e invasive.
 L’apparente calma che segue in “Aftermath” e “Subway in Suburbicon” ha il sapore di una contemplazione di rovine, con cupi accordi dei celli, lamentosi disegni dell’oboe e soprattutto – nel secondo – una triste melopea del corno solista che, in “Playing catch in the sun” riprende desolatamente il tema di “Friends”; mentre il finale “Suburbicon good night” riprende il gioioso spunto iniziale ma stavolta con un’allegria fittizia, forzata, che si traduce quasi in sarcasmo stravinskyano.
 Un lavoro forse meno persuasivo e “rotondo” di The Shape of Water, ma che dimostra insieme a quello come Desplat abbia ancora  molto filo da tessere, solo si risolvesse finalmente a selezionare meglio le offerte e ad evitare i rischi della routine opponendo, ogni tanto, qualche garbato rifiuto.

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