The Babadook

cover babadook vinileJed Kurzel
Babadook (The Babadook, 2014)
Waxwork Records WW032
16 brani – Durata: 27’24”

Con tutta evidenza è in atto un rilancio del vinile. Forse è presto per parlare di rinascita, ma sicuramente siamo di fronte ad un rinnovato interesse di mercato che dura ormai da qualche anno.
 Non è questione di nostalgia (sentimento sempre infruttuoso e deprecabile) o di rispolverate vintage: piuttosto si tratta del perfezionamento di un supporto che, alla luce delle nuove tecnologie di incisione e realizzazione, e forte comunque di una tradizione secolare, non ha, non ha mai avuto e non avrà mai rivali digitali per qualità, calore, presenza e fedeltà di suono: senza contare il fascino, sia pur ingombrante, dell’oggetto in sè. Lo provano alcune delle ultime incisioni degli anni ‘90, soprattutto Philips e Deutsche Grammophon, e lo ribadiscono le più recenti “releases”.

 Naturalmente i problemi di fondo rimangono. Il vinile teme graffi, polvere, urti, sbalzi di calore. Ma se è per questo nemmeno il CD è invulnerabile. La differenza è che il long-playing ci usa almeno la gentilezza di avvisarci quando sta per deteriorarsi, a suon di schiocchi e salti, in parte correggibili, così da poter essere “salvato” altrove: non altrettanta cortesia viene dal CD, che, in ossequio alle leggi del digitale, un attimo prima è perfetto e l’attimo seguente produce agghiaccianti cacofonie rumoristiche (stesso discorso vale, sul piano video, tra cassetta VHS e DVD).
 La produzione in vinile cinemusicale si sta orientando verso uscite di nicchia, non sempre in parallelo con i rispettivi CD, o ristampe particolarmente azzeccate. Tra le prime si segnala ora l’attività della neonata, americana Waxwork Records, il cui già copioso catalogo è interamente dedicato alle partiture del cinema horror: una specializzazione pressoché esclusiva in cui annoveriamo già la Monstrous Movie Music e la Screamworks Records. A differenza di queste ultime però la Waxwork non predilige tanto i B-movie di un passato remoto (come la Monstrous) né le score spesso sorprendenti per i prodotti “trash” più recenti (la Screamworks): piuttosto, essa sceglie i titoli di più spiccata valenza autoriale, o le serie che hanno goduto di maggior fortuna “cult” tra il pubblico. Il suo catalogo annovera quindi gemme come Rosemary’s Baby di Komeda e L’ululato e Horror Puppet di Donaggio, House con seguito e Venerdì 13: capitolo finale di Manfredini, ma anche Léon di Serra e La cosa di Morricone.
 Dunque scelte all’insegna di una qualità e di uno spessore non banali, tra le quali entra ora a buon diritto l’interessante e radicale lavoro messo a punto da Jed Kurzel per l’horror-rivelazione di Jennifer Kent, che tre stagioni fa ha sbancato i botteghini. Conosciamo Kurzel  per la sua vena drasticamente laboratoriale e anticonvenzionale sviluppata soprattutto nelle partiture per i film del talentuoso fratello Justin (Macbeth, Assassin’s Creed), ma anche per il non facile lavoro di ricapitolazione effettuato nel (per ora) ultimo capitolo della saga Alien di Ridley Scott, Alien: Covenant. In Babadook però la struttura sostanzialmente mentale, psicologica e affascinante della storia (un rovesciamento di campo del mito del “babau” nel confine tra le paure dell’infanzia e quelle dell’età adulta) ha suggerito al compositore di inoltrarsi ancor più perentoriamente nel territorio di una scenografia sonora stregata e pervasiva.
 La brevissima, meno di mezz’ora, sequenza di brani non contiene nessuno dei tipici luoghi comuni di molte score assimilate: nessun “botto”, nessun effetto strumentale prevedibile, nessuno “stinger”. Il sound, tutto rigorosamente elettronico, è etereo, impalpabile, acuto e luminoso. “Amelia’s dream/Swing”, nell’ondulamento ossessivo e ipnotizzante delle fasce, ricorda un po’ la Mica Levi di Under the Skin, come pure “Book opening”, mentre quello che viene chiamato – ed effettivamente è – il “Babadook theme”, si presenta inizialmente come un semplice carezzevole carillon che disegna, più che una melodia, una serie di frastagliate variazioni intorno ad essa. Anche “It’s in my room” si configura come sfuggente meditazione acustica, rimandando a quanto confessa lo stesso compositore nella sua nota di copertina: e cioè di essersi ispirato, in questa occasione, al complesso di suoni che gli giungevano nella sua casa di campagna, si trattasse di “suoni di natura” puri e semplici o di echi delle attività umane circostanti (fabbriche, traffico). Ne scaturisce qualcosa che ricorda sia gli esperimenti novecenteschi della “musique concrète” sia le perlustrazioni New Age dei gruppi psichedelici postsessantottini.
  Il tema vero e proprio, di disarmante purezza e linearità, ci appare compiutamente in “Shopping Mall”, evocato da un effetto pianistico celestiale e onirico lungo un percorso melodico (re-mi-fa-do diesis) di delicata e sommessa inquietudine; ripetuto poi, più mosso, in “The basement/The magician”, finisce con l’essere inghiottito da vibratili effetti corali che preludono alle minacciose pulsazioni di “Don’t let in/Ruby’s party”, forse la traccia più tradizionalmente horror della score. Mentre “Falling” ripropone, ma solo a livello accordale, il leitmotiv, “The book returns/Police station/Falling” è di nuovo un’immagine acustica caleidoscopica e cangiante, magmatica, conclusa da rintocchi gravi cadenzati e un breve tintinnìo discendente.  “Méliès” riprende poi il tema principale ma distorcendone l’intonazione con effetti di ralenti sonoro particolarmente disturbanti, mentre i magnetici “Locking up the house” e  “Amelia taken over” proseguono nella composizione di una trama sonora dove diviene sempre più difficile distinguere tra suono di questo o di un altro mondo. Ciò vale anche per “Giding” e “Stairs”, con i loro ritmi strascicati, faticosi e gli echi lamentosi dei synt.
 Anche “Exorcism” abbozza un ritmo di lentissima marcia scandita da un ruvido ripetersi di suoni bassi, mentre gli “End credits”, solo parzialmente liberatori, si riadagiano sul tema conduttore in una versione “pianistica” piuttosto agitata ed emotivamente coinvolgente.
 Masterizzato con eccezionale sapienza da J.Yuenger e confezionato con francescana sobrietà da Suzy Soto e Jessica Seamans in un album dove, aprendolo, salta fuori il “popup” di Babadook in persona, questo disco dimostra anche tecnicamente a cosa possa aspirare oggi un 33 giri di ultima generazione ma ci riconferma anche in Jed Kurzel un talento innovativo e sperimentale di prim’ordine, sorretto da un’ispirazione cui non difetta mai l’originalità.

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