Anthropoid & HhhH

Robin Foster
Missione Anthropoid (Anthropoid, 2016)
Lakeshore Records
17 brani – Durata: 44’00”

cover HhhH

Guillaume Roussel
L’uomo dal cuore di ferro (HhhH, 2017)
Varèse Sarabande
19 brani - Durata: 66’00”

Per una curiosa ma forse non casuale coincidenza storica, all’impennata di film su Sir Winston Churchill cui accennavamo parlando della score di Marianelli per L’ora più buia e di Lorne Balfe per Churchill, si contrappongono ben due pellicole incentrate sulla torva figura di uno tra i suoi più agghiaccianti antagonisti nel periodo della Seconda Guerra Mondiale: Reinhard Heydrich, “il boia di Praga”, uno degli uomini più potenti e spietati del Terzo Reich, braccio destro di Himmler nelle SS e considerato la mente progettuale di quella “soluzione finale del problema ebraico” che, affidata poi al “travet” del massacro Adolf Eichmann, portò allo sterminio di massa degli ebrei nei campi di concentramento nazisti.
Già ricordato nel capolavoro del ’43 di Fritz Lang Anche i boia muoiono, Heydrich torna ora nel mirino di due film che gli si accostano con prospettive e angolazioni simili ma diversamente interessanti, e arricchiti da due partiture decisamente inconsuete, firmate da compositori forse non notissimi al grande pubblico.

Il britannico Missione Anthropoid di Sean Ellis si focalizza soprattutto sui dettagli della complessa operazione di cui al titolo, che nel giugno del ’42 venne organizzata dai partigiani cecoslovacchi con l’aiuto degli inglesi, e che si tradusse in un attentato nel quale Heydrich rimase gravemente ferito, per morire di lì a pochi giorni. Dunque di fatto una spy-story d’azione dalle atmosfere molto “dark”, il cui merito va in gran parte alla score inquietante, di sapore quasi fantascientifico, firmata dal chitarrista e polistrumentista inglese Robin Foster coadiuvato da un altro musicista inglese, Guy Farley. L’imprinting è rigorosamente elettronico, sperimentale e anti-descrittivo: le fasciature sonore si protendono, si allungano appena increspate da tocchi chitarristici, sorrette da un’impalcatura che ricorda le suggestive costruzioni e le atmosfere musicali di Trent Reznor e Atticus Ross. Pagine come “The drop”, “Arriving in Prague” o “The darkroom”, con quella specie di campanello ossessivo e perforante, si collocano in una zona oscura, insondabile, un’area grigia tra suono della materia e ipnosi musicale, negandosi a qualsiasi tentazione emotiva e racchiudendo la vicenda in un guscio claustrofobico e allucinato, apertamente horror. L’andamento è orizzontale, privo di ritmica, anche nei momenti più tesi come “The assassination” o “The reward”, nei quali la suspense è creata dall’accumulo progressivo dei piani sonori immobilizzati in “cluster” angosciosi, atemporali e distorti. Pochissimi, e molto concentrati, i momenti in cui la temperatura glaciale della score sembra innalzarsi, almeno da un punto di vista puramente dinamico (“The last stand”), anche se verso la fine si aprono delle parentesi più comunicative e dolenti, come nello scheletrico“Lenka’s theme”, nel lugubre “A death in the family”, o negli addensamenti vagamente New Age di “The crypt” e degli “End titles”.
Una simile impostazione, decisamente “scomoda” e modernista, crea un violento effetto di contrasto con alcune pagine esterne inserite nel soundtrack, dalla meravigliosa Sonata per violino di Bartók alla Ciaccona dalla Partita n.2 in re minore di Bach, oppure – per venire a brani compresi nell’album - l’electroswing “Flasinetàr” della band cèca di Vaclav Marek, la leggendaria “Stardust” di Hoagy Carmichael e lo stupefacente corale “Dulce et decorum est” di chiusura, composto da Farley in una chiave apertamente religiosa e rituale ed eseguito dal coro R.S.V.P. Voices.
Anche L’uomo dal cuore di ferro del francese Cédric Jimenez, tratto dal romanzo di Laurent Binet, ruota intorno al medesimo evento, ossia l’attentato praghese del ’42: il titolo originale è l’acronimo del motto Himmlers hirn heißt Heydrich, ossia “il cervello di Himmler si chiama Heydrich”. Qui però, fors’anche grazie all’impressionante interpretazione di Jason Clarke nei panni del gerarca nazista e di Rosamund Pike in quelli della moglie Lina, l’obiettivo si allarga ad un ritratto più compiuto e anche privato del personaggio, sottraendolo dunque allo stereotipo facile e consolatorio della “mostruosità” nazista, e viceversa ricollegandolo, per chi ha buona memoria, al monologo finale del giudice Spencer Tracy sui “bravi tedeschi”, in quello che è forse il più alto e limpido film mai realizzato sul tema della Shoah, ossia Vincitori e vinti (1961) di Stanley Kramer.
Il giovane Guillaume Roussel, attivo nel cinema già da più d’una decina d’anni (ne ricordiamo 3 Days to Kill e, insieme a Christopher Gunning, Grace di Monaco), si muove anch’egli ampiamente sul terreno dell’elettronica e quindi di una partitura antinaturalistica e anticonvenzionale, ma nel suo caso l’approccio è più irrequieto e movimentato. Il suono, sin da “HhhH”, sembra ancora provenire dalle viscere di una dimensione infernale, ma da questo magma si alzano idee tematiche precise: qui ad esempio, in una stringente progressione, un organo da chiesa alza un’idea curiosamente debitrice al tema di Sandra scritto da Herrmann per Complesso di colpa. Il pianoforte di “Back the days”, lento e insistente, porge un secondo motivo ondulatorio e sinistro  ripreso poi dai synt in “Hatching chaos”, mentre in “Himmler’s path” e soprattutto “Invasion of Poland” ecco affacciarsi un solitario, spettrale violoncello in una sorta di nenia funebre cadenzata su un ritmo sostenuto di orchestra ed elettronica. Anche in questa score, come in quella di Foster, figura una traccia “The drop”, ma assai più colorata e descrittiva della prima, a ribadire quell’attenzione alla forma che sembra in Roussel più sorvegliata che in Foster. E se in “Prague by train” e “Blood stained snow” udiamo apparire il “zither”, la celebre cetra da tavolo tipica della musica mitteleuropea e immortalata da Anton Karas nella score de Il terzo uomo, “Meeting Moravek” è una parentesi schiettamente concertistica per duo di celli e archi, dal sapore lirico e crepuscolare.
“The plot” si appella a moduli della musica popolare cèca, mentre la cetra torna in “Moravek is dead” ma solo per introdurre il suo epicedio, affidato ancora all’elettronica. In realtà, nemmeno Roussel si mostra interessato ad alzare i toni o ad indulgere a facili effetti drammatici: sia pure con minore radicalismo del collega britannico, punta come lui alla rarefazione e alla contrazione dei timbri e dei colori, in più con l’intelligenza di utilizzare alcune “presenze” molto riconoscibili – la cetra appunto, o l’organo  - quale omaggio ad un’umanità ormai schiacciata dalla ferocia ma non disposta ad arrendersi, come in “Is he dead?”. “Lidice” sembra, sotto questo profilo, ancora musica puramente horror, mentre “Betrayal of a friend” si acquieta in un pacato brano orchestrale dal sapore romantico: vale anche per il bellissimo “See you on the other side”, introdotto e chiuso dal cello e dal pianoforte, e sviluppato in un cantabile strumentale accorato e intenso. Le presenze vocali di “Guns in the Church” introducono un elemento mistico nella partitura, ma tocca agli “End credits”, con protagonista ancora il “zither”, congedare da una score che sembra voler disperatamente e ostinatamente ribadire il primato di un’umanità terribilmente ferita ma ancora viva e resistente, contrapposta all’ottusa e assoluta malvagità sprigionatasi e incarnatasi minacciosamente in un perfetto esponente di quella che Hannah Arendt chiamò “la banalità del Male”.

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