Doctor Who: Series 1 - 6

Murray Gold (e Ron Grainer)
Doctor Who (Id., stagioni 2005-2012)
Serie 1 e 2
Silva Screen SILCD 1224 – 30 brani + 1 canzone – Durata: 75’29”
Serie 3
Silva Screen SILCD 1250 – 25 brani + 3 canzoni – Durata: 74’41” 
Serie 4
Silva Screen SILCD 1275 – 27 brani – Durata: 76’57”
Serie 4 The Specials
Silva Screen SILCD 1340
Cd 1, 21 brani – Durata: 52’16”
Cd 2, 26 brani – Durata: 64’23”
Serie 5
Silva Screen SILCD 1345
Cd 1, 28 brani – Durata: 67’27”
Cd 2, 35 brani – Durata: 64’51”
Serie 6
Silva Screen SILCD 1375
Cd 1, 31 brani – Durata: 68’24”
Cd 2, 35 brani – Durata: 74’10”
A Christmas Carol
Silva Screen SILCD 1360 – 28 brani + 1 canzone – Durata: 49’20”

 

La serialità televisiva di lungo periodo pone, dal punto di vista musicologico, problemi a volte insormontabili in termini di “continuity”, di coerenza interna, di riconoscibilità e al tempo stesso di originalità: fattori che spesso per i compositori si rivelano in conflitto reciproco, e quindi molto difficili da gestire.
 Il caso del Doctor Who è, in questo senso, esemplare nella propria unicità. Stiamo infatti parlando di una serie che si avvia al traguardo del mezzo secolo (!) di vita – pur se non continuativa – e quindi detentrice del record di serie fantascientifica in assoluto più longeva nella storia della tv, superando dunque anche Ai confini della realtà la quale, pur sommando i diversi periodi della sua messa in onda, si ferma a “soli” 44 anni di esistenza.  Nata  nel 1963 in Gran Bretagna per la BBC, ad opera di un pool di sceneggiatori-produttori ovviamente succedutisi nei decenni, la serie si ispira palesemente all’opera di H.G.Wells e può considerarsi precorritrice della saga Ritorno al futuro di Zemeckis: essa ruota essenzialmente intorno ad un unico protagonista, un affascinante e dinamico extraterrestre del tutto antropomorfo, chiamato semplicemente “Il Dottore”, unico sopravvissuto di una razza eletta di Signori del Tempo e viaggiatore attraverso il medesimo grazie al TARDIS (Time And Relative Dimension In Space, ovvero "tempo e relativa dimensione nello spazio"), sorta di “macchina senziente” simile ad una cabina telefonica che gli consente di vivere avventure ambientate in un ventaglio di generi e situazioni che vanno dalla fantascienza pura all’horror, dal fantasy al gotico, dal melò alla commedia romantica in costume.
 Poco nota al di fuori della Gran Bretagna, malgrado l’alto tasso di spettacolarità, ma oggetto di culto per schiere di appassionati, transitata in cassetta prima e DVD poi, confluita in un fitto merchandising costituito da programmi tv “dietro le quinte”, spin-off vari, gadget, fanzines e versioni fumettistiche nonché in molti episodi perduti e faticosamente ricostruiti, la serie ha prosperato per oltre un quarto di secolo e ventisei stagioni, cambiando ovviamente cast, protagonista (ben 11 gli attori che si sono passati il testimone nei panni del Dottore) e squadre tecniche, prima di arrestarsi per sedici anni (a parte l’intermezzo di un film realizzato per la sola televisione nel 1996 e coprodotto con gli Usa).
 Sopravvissuta a vicissitudini produttive complesse, la serie è stata perentoriamente resuscitata dalla BBC solo nel 2005, con sette nuove stagioni (l’ultima ancora in corso), oltre agli episodi speciali.
 Com’è facile immaginare, nella sua storia il Doctor Who ha visto sfilare un esercito di compositori, in alcuni casi tra i migliori e più sofisticati rappresentanti della scuola inglese (a parte il lungometraggio per la tv del ’96 che si avvalse come compositore di John Debney) quali Stanley Myers, Humphrey Searle, Richard Rodney Bennett, Tristram Cary e Geoffrey Burgon: tutti autori di “incidental music” che ruotavano intorno al tema principale, un’idea molto “vintage” ed efficace, dinamica e inquieta, per synt e batteria, tipica sci-fi music anni ’50, scritta da Ron Grainer (1922-1981), solido e accademico compositore australiano di nascita ma britannico di formazione, con la collaborazione per la parte elettronica della musicista d’avanguardia inglese Delia Derbyshire (1937-2001).
 Il “reboot” della serie avviato nel 2005 ha impresso al Doctor Who caratteristiche squisitamente cinematografiche, aggiornate agli stilemi del più aggressivo e smagato action movie contemporaneo, mutuandone elementi alla 007 miscelati (non agitati…) con humour tipicamente britannico, ma mantenendo intatto quella multiformità di generi che è un tratto distintivo di tutta l’operazione. L’opzione musicale, in tal senso, è stata precisa e omogenea: prima Russell T. Davies poi, dal 2010, Steven Moffat in qualità di produttori e direttori delle sceneggiature, hanno puntato diritto su Murray Gold.
 43 anni, nativo di Portsmouth, il musicista inglese è specialmente noto per la sua attività radiofonica e televisiva (le partiture delle serie Shameless, Scott & Bailey e Torchwood) e, più sporadicamente, per excursus sul grande schermo come Tripla identità, Funeral party e Veronika decide di morire. Tuttavia è senz’altro il ruolo di ”musical director” del Doctor Who quello che gli ha conferito la maggior popolarità, al punto che le suites tratte da queste partiture, tutte eseguite dalla sontuosa BBC National Orchestra of Wales sotto la capillare e smagliante direzione di Ben Foster, hanno avuto l’onore di esecuzioni concertistiche a Cardiff e addirittura alla prestigiosa Royal Albert Hall londinese.
 La monumentale (anche per dimensioni) impresa discografica della Silva Screen consegna ora all’ascolto l’integrale di questa fatica che si svolge da più di un lustro attraverso qualcosa come dieci cd in cui si raccolgono le oltre undici ore di musica delle prime sei serie, più due speciali dalla 4° stagione e l’episodio A Christmas Carol trasmesso il giorno di Natale del 2010, il tutto minuziosamente descritto nei booklet dal compositore stesso: una maratona che si offre come esperienza d’ascolto particolarmente impegnativa ma al tempo stesso estremamente scorrevole e trascinante, proprio in virtù del particolare stile di questo artista.
 Stile che, paradossalmente, si definisce come tale prima di tutto in forza del proprio stupefacente eclettismo. Cerchiamo di spiegarlo meglio.
 Il primo luogo comune che il lavoro di Gold smentisce è quello secondo cui la musica per la televisione è biologicamente, ontologicamente “ridotta”, più contenuta nei mezzi e nel metodo, di quella cinematografica: vuoi per esigenze di montaggio (a cominciare dai cuts imposti dalla pubblicità) vuoi per ritmo narrativo intrinseco. Gli score di Doctor Who hanno, da questo punto di vista, un impatto formidabile e sconcertante, per dimensioni, struttura, ambizioni, taglio sinfonico, varietà di colori, dispiego di mezzi. Si tratta, in parole povere, di musica cinematografica   maiuscola: intrisa, per di più, di una miriade di influenze, citazioni, suggestioni, echi che incorporano autori e modelli sia americani che europei omaggiati con piena consapevolezza, da Williams a Barry, da Silvestri a Horner, dallo Schifrin di Mission: Impossible (“Slitheen” della stagione 1 e 2) al nostro Morricone.  In questo parco di risorse trovano posto elementi rock (i due brani della rockstar nordirlandese Neil Hannon, leader della band The Divine Comedy, proposti nella stagione 1 e 2, o – nella stagione 3 - quelli della potente voce jazzistica femminile di Yamit Mamo, esplosa nell’edizione inglese di X-Factor e già utilizzata da Gold in Funeral Party), inchini al pop della swinging london (le chitarre alla 007 di “Westminster Bridge”, sempre nella stagione 1 e 2), corali bachiani, canzoni popolari, accensioni sinfoniche roventi, assoli cameristici (frequenti quelli per violino e violoncello), ritmi di danza (valzer, bossa nova), stacchi elettronici fulminanti, e Dio sa cos’altro.
 Un contenitore polisemico senza precedenti, nel quale tuttavia Gold evita la dispersione governando con attenzione matematica i (non moltissimi, né particolarmente rilevanti) leit-motiv presenti, e utilizzando a volte con tecniche subliminali il tema originario di Grainer: come ad esempio nell’esposizione per voce femminile di “The Doctor’s Theme” nella stagione 1 e 2 o nella versione corale e misticheggiante di “The Doctor’s theme series 4”.
 Va da sé che all’ascoltatore ignaro delle (e magari anche scarsamente interessato alle) peripezie del “Dottore” si apre un mondo musicale assolutamente inedito e stordente, nel quale è consigliabile abbandonarsi senza volersi a tutti i costi ancorare alla conoscenza specifica dei singoli episodi (impresa francamente ardua). Al netto del puro divertimento costituito dal gioco di smascheramento dei vari stilemi di cui Gold cosparge i propri lavori (citeremo solo il “Martha’s theme” della stagione 3, proveniente dritto dritto dall’Horner più “irish”), o di chicche come il folkloreggiante “The Stowaway” (stagione 3) dove accanto alla Mamo troviamo in veste di “guest vocalist”… lo stesso Gold insieme all’illustre collega David Arnold (!),  ciò che colpisce come osservavamo più sopra è il robustissimo, imperioso assetto sinfonico di queste partiture, estremamente impegnative sul piano esecutivo, sgargianti nell’orchestrazione e del tutto instabili, imprevedibili nel proprio decorso.
 Tecnicamente parlando, il linguaggio adottato è assolutamente tradizionale (anche se nella stagioni 5 e 6 fanno capolino sporgenze d’avanguardia e tensioni politonali non banali…), imbevuto anche di cultura musicale classica (più francese e tedesca che inglese, quanto dire più Debussy, Ravel e Strauss che Elgar o Holst), mentre l’impiego di un organico vastissimo, comprensivo di organo a canne, cori, voci, percussioni di ogni ordine e grado, masse oceaniche di ottoni, serve più a diversificare i colori che a gonfiare lo spessore sonoro. A volte Gold compulsa tutte queste esperienze e queste pulsioni in lunghe suite, come nella “Voyage of the Damned Suite” della stagione 4, sorta di parade musicale caleidoscopica e festosa; peraltro si tratta forse della stagione-clou, da un punto di vista della qualità musicale, per felicità di invenzioni e libertà formale. Pagine come la grandiosa “The greatest story every told”, con il maestoso utilizzo del coro, o la successiva, misteriosa e assai goldsmithiana “Midnight”, con pizzicati riverberati degli archi e distorsioni di violini e ottoni, denotano una progressione qualitativa, un crescendo ispirativo che tocca forse l’apogeo nei ben due cd dedicati agli “specials” di questa stagione.
 In particolare la suite da The Next Doctor sfoggia una pluralità di atteggiamenti musicali non priva di robusta autoironia, dal coro siderale iniziale di “A Victorian Christmas” al successivo, pomposo e classicheggiante incedere di “Not the Doctor” sino allo struggente “Goodbyes” per piano e archi. In queste circostanze appare chiaro che il continuo, frastornante mutare di situazioni, set e ambienti della serie offre al compositore inglese il destro per cimentarsi a sua volta in una sfida linguistica e stilistica irripetibile affrontata – va detto – senza cedere ad alcun radicalismo ma più spesso appellandosi ad una insospettabile, rigorosa severità formale, come nell’adagio composto e l’intarsio dei timbri di “Alone in the desert” da Planet of the Dead, o nel coro di voci bianche chiesastiche di “We shall fare well” in The end of time, la cui musica spesso dolente, accasciata, drammaticissima (“A dream of catastrophe”) occupa l’intero, secondo cd dei due specials della 4° stagione. Qui brani come “Vale Decem” o “Vale”, siderali e arcaici omaggi alla vocalità contraltistica, testimoniano in Gold una concentrazione e una cura per le referenze accademiche e classiche (di ascendenza addirittura baroccheggiante) forse al proprio apice, per nulla inficiata – anzi, fruttuosamente contaminata – ad esempio dallo sviluppo pop-sinfonico del secondo brano citato.
 La quinta stagione coincide nel 2010 con lo sbarco alla produzione di Steven Moffat deciso a rendere la serie più appetibile anche da parte del pubblico giovanile, e con l’arrivo, nei panni del protagonista, del 28enne atletico Matt Smith e nonché, come dichiara lo stesso Gold, con l’introduzione e l’accentuazione negli episodi di due elementi paralleli, quello romantico e quello più scopertamente comico. Forse non è un caso che proprio in questa stagione, insieme alla 6°, le partiture del compositore comincino a declinare anche una certa stanchezza e ripetitività, sempre considerando che la quantità di musica richiesta è comunque elevatissima (di qui la necessità di sdoppiare i cd dedicati a ciascuna delle due stagioni) e che il continuo, inarrestabile sviluppo delle situazioni insieme all’introduzione di sempre nuovi personaggi obbliga il musicista ad un’inventiva a getto continuo. Se possibile, la strumentazione si fa ancora più scoppiettante e le influenze rockettare (“Amy in the TARDIS”) più esplicite: l’aumento di adrenalina, l’estremizzazione di alcune situazioni e le accelerazioni di ritmo trovano Gold più disponibile anche sul piano della sperimentazione sonora, come testimonia la spericolata horror music elettronica di “The time of angels” e “Flesh and stone”, occasione per esibire tecniche orchestrali ed esecutive di pura avanguardia. La stagione 6, una delle più squisitamente fantascientifiche e “astronautiche”, oscilla musicalmente fra tonalità notturno-evocative (“1969”), flash “vintage” costruiti attraverso malinconici movimenti di valzer (“My TARDIS”, “River’s waltz”), brutalità sinfoniche prettamente novecentesche (“The curse of the Black Spot”) e melopee non immemori di certo Morricone (“Melody Pond”). Insomma, i  soundtrack di Gold per così dire si internazionalizzano sempre di più, in particolar modo con riferimento alla corrente e contemporanea produzione hollywoodiana: ma il musicista non appare rassegnato a farsi condizionare da tanti score plastificati e senz’anima della produzione “mainstream” e quindi, ancorché non spiccatamente dotato di doti melodiche particolarmente vistose o di un’architettura complessiva di ampio respiro, vi supplisce con una fantasia continuamente rinnovabile e con un’energia esplorativa e polistilistica senza eguali. Sfilano, in questa parte più recente del lavoro di Gold, autentici divertissement quasi ottocenteschi come “Tick tock round the clock” o delicate, cameristiche trasparenze come in “The enigma of River Song”, o ancora esercitazioni jazz-sinfoniche come “Time is moving”. Evidentemente l’apertura di credito da parte del nuovo assetto produttivo e il rilancio dell’appeal spettacolare della serie incitano il maestro inglese a premere più imperiosamente sul pedale dell’azione e di una concezione “muscolare”: il prezzo che Gold paga, rispetto alla lievità fantasticheggiante e alla fluida brillantezza delle prime stagioni, è quello di una maggiore frammentazione e di un senso, a volte, di incompiutezza. Lo si capisce bene in A Christmas Carol il cui score, come è facile immaginare, malgrado la confezione dickensiana ha ben poco di natalizio in senso stretto (a parte alcuni frammenti di circostanza come “Christmas dinner” e la splendida “Abigail’s song”, sontuosa aria semioperistica eseguita dal mezzosoprano gallese Katherine Jenkins), ma sfodera una nuova, ricchissima quantità di materiali musicalmente “ipersaturi”, caratterizzati da pagine scintillanti e tintinnanti, da brusche impennate di violenza e da una percentuale particolarmente elevata di “suspense music” (“Ghost of Christmas Past”, “Sonic fishing”), ottenuta attraverso un utilizzo provocatoriamente convenzionale dell’orchestra: flautandi e glissandi di archi, strisciate di ottoni, sospensioni di celesta e xilofoni ecc.
 Appare comunque consequenziale che, dinanzi ad un’operazione editoriale di così vasta scala e ambiziosa portata, l’esegesi pignola track by track oltre che rivelarsi pedante non rende sufficientemente conto della visione unitaria, “insiemistica” che Murray Gold ha impresso sul suo lavoro pluriennale. Di fatto, e di sicuro, il corpus di partiture creato per queste nuove stagioni di Doctor Who riapre in termini perentori il discorso e l’analisi sull’aspetto specifico della musica nella serialità televisiva, dischiudendone orizzonti sinora impensabili, e regalando all’ascoltatore un’epopea musicale moderna alla quale il cinema contemporaneo, ormai, ci sta purtroppo disabituando.

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